Dentro una ciotola di coccio, metto pietra triturata, mastice e colofonia, la cosiddetta pece greca. Quindi aggiungo alcuni blocchi di cera d’api, non dissimili a quelli necessari per la fabbricazione di una candela profumata. Un tale intruglio, dunque, mescolo e rigiro, per ore ed ore, finché non si trasformi in una massa semi-solida che plasmo con le mani, nella forma di “due bastoni d’un asta forte, né troppo grossi, né troppo sottili, che sieno rotondi da capo a piè”. Quindi, nelle successive parole di uno strano linguaggio a metà tra il veneto e il toscano, li immergo nella liscivia, ed inizio energicamente a “strucarli”…
Sul finire del XIII secolo, l’arte europea stava andando incontro ad una serie di nuovi concetti, o in altri termini, Rivelazioni: che il sentimento più puro della fede non poteva prescindere dallo spirito d’osservazione del mondo reale, che la Natura stessa era magnifica, e meritava di esser parte della rappresentazione artificiale del Creato, che Cristo, la Madonna, i Santi e i personaggi della Bibbia erano state delle persone reali, e come tali rispondenti a delle precise caratteristiche anatomiche e proporzionali. E così con alle spalle l’Annunciazione di Leon Battista Alberti (1344) in cui il pavimento piastrellato sembrava tendere ad un’accenno del misterioso concetto di punto di fuga, Filippo Brunelleschi si applicava nei suoi primi esperimenti ottici, per dirimere la questione matematica del codice prospettico della pittura. Proprio a quest’ultimo sarebbe stato dedicato, nel futuro 1435, il testo di Leon Battista Alberti De Pictura, che includeva la prima trattazione geometrica della realtà in tre dimensioni. Ma ritornando a noi, ovvero ben prima di quel tomo fondamentale, forse non tutti sono a conoscenza della vicenda di un altro grande teorico ed autore letterario, Cennino di Andrea Cennini nato a Colle Val d’Elsa, in provincia di Firenze, che scrivendo in volgare con 35 anni d’anticipo ebbe a compilare il suo grande Tomo dell’Arte, una trattazione, estremamente metodologica se non proprio scientifica, di quanto doveva conoscere un artista per potersi dire veramente preparato sulle tecniche della rappresentazione grafica sul volgere delle Ere. Il suo libro, rimasto il punto di riferimento per generazioni di apprendisti e maestri di bottega, costituiva un completo catalogo di approcci alla tecnica del disegno, alla preparazione de pennelli, le tecniche dell’affresco, la decorazione, persino il conio delle monete. Ma il più grande spazio, nei capitoli tra il 35 e il 62, viene dedicato alle tecniche per la preparazione e l’uso del colore. Va assolutamente preso in considerazione, quando si pensa alla pittura di quest’epoca, come ogni singola tonalità impiegata nelle opere che sono giunte sino a noi avesse una provenienza radicalmente differente, frutto di anni ed anni di sperimentazioni provenienti dai luoghi e dalle epoche più diverse. C’era il rosso vermiglione, frutto dall’alchemica mescolanza tra lo zolfo ed il mercurio, secondo un metodo tramandato dagli antichi romani. C’era il viola purpureo, che i bizantini estraevano tritando centinaia e migliaia di molluschi gasteropodi della famiglia dei Muricidi, sacrificati con trasporto per raggiungere la perfezione nel mondo dell’arte. Dall’India esisteva un giallo particolarmente intenso, tratto dall’urina concentrata dei bovini; e quante leggiadre aureole, quanti aloni angelici di apparizioni sacre, furono il frutto di un tale fluido prosaico proveniente da vesciche d’animali!
Ma sopra tutti questi c’era un singolo colore, straordinariamente intenso ed impossibile da riprodurre con approcci alternativi, che veniva considerato addirittura più prezioso della foglia d’oro: il quale proveniva unicamente da una singola miniera nel Badakhshan, nell’odierno Afghanistan nord-orientale e per questo veniva chiamato blu d’oltremare. Era a Sar-i Sang, nelle profonde viscere della Terra, dove uomini senza più speranza battevano con forza gli scuri picconi, alla ricerca di una pietra composta fino al 40% di lazurite, l’unica sostanza minerale ad essere naturalmente simile all’azzurro cielo. Il suo nome: lapislazzuli, dalla parola persiana lājavard, riferita al luogo della sua estrazione. La cui importanza, non venne mai sottovalutata. Fin dall’epoca del Neolitco, infatti, furono fatti tentativi d’impiegarla nell’arte, con stuoli di mercanti che facevano a gara per esportarla in tutti i più remoti recessi del Mediterraneo. Tanto che i più antichi manufatti giunti sino a noi a farne uso, si annoverano oggetti risalenti al primo e secondo millennio a.C, tra cui le statue dei templi di Ishtar in Mesopotamia ed alcune maschere funerarie dei faraoni egizi. La pratica tradizionale dell’impiego di questa pietra per la creazione dei pigmenti prevedeva la sua triturazione mediante l’impiego di un pestello, quindi l’applicazione diretta a seguito dell’aggiunta di semplice acqua fluidificatrice. Ma in tale rudimentale modo, tutto ciò che gli antichi potevano ottenere era una tinta tendente al grigio, priva dello splendore intrinseco della parte “viva” della pietra, quel blu impareggiabile ma necessariamente condizionato dalle impurità. E così continuò ad essere, finché non giunse sulla scena Cennino Cennini, con il suo metodo semplicemente privo di precedenti.
Il punto principale del suo metodo, a cui l’autore dedica il lungo capitolo finale della sua sezione sui colori, era l’ottenimento di un pigmento che fosse notevolmente più puro, e quindi più chiaro e limpido di quanto il mondo avesse avuto modo di sperimentare fino ad allora. Il che prevedeva, come accennato in apertura e largamente dimostrato dal chiarissimo video-tutorial del portale Master Pigments, la mescolanza della polvere di lapislazzuli con resine addensanti, al fine di ottenere quei pastelli solidi che potevano conservarsi anche a medio, oppure lungo termine. Finché, al momento di fare cassa, il produttore rinascimentale di pigmenti non si metteva ad immergerli in una serie di ciotole successive ricolme dell’antenato storico dei moderni saponi, fabbricato con il grasso d’olio d’oliva o sego. Una sostanza che i toscani chiamavano ranno.
Ciò aveva un effetto sorprendente: perché ogni qualvolta l’ammasso informe subiva l’energica spremitura (viz. “lo struco”) da esso si liberava una certa quantità di pigmento dal colore estremamente puro limpido. Il processo poteva richiedere anche una giornata intera, durante la quale l’artigiano estraeva periodicamente il pastello, ed andava ad immergerlo in una ciotola successiva. Ciò perché con il procedere del lavorìo, il pigmento estratto diventava sempre più puro, ottenendo diverse gradazioni, e qualità, di blu d’oltremare per ciascun cilindro così trattato. Alla fine, l’acqua saponata veniva versata via, e ciò che rimaneva nel fondo delle ciotole costituiva il non-plus-ultra del suo campo, addirittura più prezioso dell’oro a parità di peso, per la sua rarità, in aggiunta alla lunga opera necessaria per crearlo. L’ammasso di cera e mastice, ormai diventato di un colore grigiastro dovuto ai silicati contenuti nella pietra di lapislazzuli, veniva invece gettato via. Niente di buono ne sarebbe potuto più venire. Il punto fondamentale da considerare, nell’analisi di questa complessa e dispendiosa procedura, è che per molti secoli ancora dopo il perfezionamento metodologico del Cennini il mondo non conobbe letteralmente altri approcci per produrre il vero blu d’oltremare. Certo, c’erano dei succedanei, come la tonalità più scura estratta dal minerale d’azzurrite, facilmente reperibile presso alcune miniere a Lione, in Francia. Lo stesso Beato Angelico, pittore citato come l’ispiratore del blu del video d’apertura, ne fece un più largo uso nelle sue opere, data la sua maggiore reperibilità. Tale pigmento aveva tuttavia il problema di non essere adatto agli affreschi, e tendeva a polverizzarsi e cadere distanza di molti anni. Problema tutt’ora osservabile, ad esempio, nella sua Crocefissione realizzata presso il convento di San Marco a Firenze (1442).
Il concetto stesso di pigmento artificiale non sarebbe arrivato che all’inizio del XVIII secolo, a causa di un incidente di laboratorio nell’officina di un alchimista di Berlino, Johann Dippel. Avvenne infatti attorno al 1706 che quest’ultimo, lavorando assieme al fabbricante di pigmenti Diesbach ad un rosso fatto con le elitre dei coleotteri, impiegasse erroneamente del sale di potassio che era stato contaminato con il ferro presente nel sangue di animali usato per fabbricare l’olio minerale. Il risultato di tale fortuita combinazione, fu un colore azzurro molto scuro, in qualche maniera comparabile, per le sue doti di limpidezza e tenuta, alla preziosissima alternativa del primo Rinascimento. Tale pigmento prese il nome di blu prussiano, e sarebbe ben presto stato esportato fino all’Estremo Oriente, diventando famoso in Giappone grazie alle opere xilografiche così caratteristiche di quel paese. Forse ricorderete la colorazione intensa della Grande Onda di Kanagawa, prodotta da quel vecchio pazzo che ebbe il nome di Hokusai…
Ma persino questo, ai tecnici d’Europa, non bastava. E per tendere al perfezionamento di un’alternativa artificiale al blu ultramarino, vennero fatti numerosi tentativi ed approcci grazie alla scienza nascente della chimica, che per la prima volta applicava il metodo scientifico e non più le astruse filosofie. Attorno al 1800, a causa di una improvvisa irreperibilità di nuovi giacimenti della pietra di lapislazzuli, in tutta Europa fu incrementata drammaticamente la produzione di azzurrite. E fu allora che, presso una fornace a Saint Gobain, l’artista Tassaert ebbe modo di osservare la formazione spontanea ed accidentale di un composto del tutto simile al blu d’oltremare. A sèguito della sua esperienza, di cui egli scrisse ai suoi corrispondenti e fornitori, due fabbricanti francesi ben distinti giunsero presto a riprodurre l’incidente, mescolando in parti uguali caolino, solfato di sodio, zolfo, carbone e colofonia, cuocendo quindi l’impasto ad 800 gradi per un periodo di 24 ore. Costoro furono Guimet e Gmelin, e mentre il primo, ricercando un maggior guadagno personale, decise di mantenere segreto il suo processo, il secondo fece tutto il possibile per divulgare l’invenzione nel mondo dell’arte. Così nacque il blu ultramarino artificiale, ed ovviamente, nulla sarebbe stato mai più lo stesso. Pensate, dunque, ogni volta che prendete in mano qualcosa di quel blu elegante, al fatto che essa difficilmente potrebbe far parte di un mondo asservito alle regole terrigene della natura: non esistono cani, scimmie o gatti blu, ma soltanto pesci, insetti ed uccelli. Esseri così straordinariamente diversi dal nostro sentire più profondo, che la loro mera evocazione è sinonimo di un’ampliamento dello stato di coscienza umano, tendente ai regni confinanti del fantastico contemporaneo. Non è certo un caso, se anche Superman portava proprio quel colore, assieme al rosso del mantello e il giallo dietro l’inviolabile iniziale, l’unica e sincera firma dell’alieno più altruista della storia. Signore d’alti mondi, marinaio d’altri mari.