L’attimo, la terra che tremò. L’aria, s’incendiò. Mentre un colpo fragoroso, come l’esplosione di una bomba dal potenziale misurabile in diversi megatoni, risultò udibile fino a 100 Km di distanza, tra le rustiche case degli allevatori di renne della penisola di Yamal, il cui nome significa letteralmente: la terra alla fine del Mondo. Un’appellativo di natura soprattutto geografica, visto come tale striscia soltanto in parte abitabile, posizionato tra la baia di Baydaratskaya nel mare di Kara ed il golfo di Ob, veda la sua parte settentrionale estendersi nelle propaggini più estreme del Circolo Polare Artico, dove i grandi orsi e le foche costituiscono le uniche forme di vita in grado di prosperare al di sopra della superficie dell’Oceano. Ma che potrebbe presto diventare un vero ammonimento letterale, rivolto ai popoli del pianeta e col supporto dei fatti attualmente già verificatosi. Sul fato deleterio che ci attende tutti quanti, prima o poi, a meno che non sopraggiungano elementi nuovi di giustificazione o un radicale cambio di stile di vita. In un luogo che non ha nome, se non nella tradizione orale di chi vi transita da immemori generazioni, verso l’inizio dell’estate del 2013, è così comparso un buco. Dalle notevoli caratteristiche geometriche: 70 metri di diametro, 50 di profondità, con una forma regolare che poteva far pensare ad un impatto meteoritico, o all’esplosione di un ordigno posizionato dall’uomo. Ma i diversi team di scienziati sia americani che russi, che negli ultimi anni si sono dati il cambio nell’analizzare l’incomprensibile nuova caratteristica del territorio, non hanno trovato i segni che avrebbero dovuto giustificare l’una o l’altra ipotesi. Semplicemente, innumerevoli tonnellate di terra sono state improvvisamente scaraventate verso l’alto, ricadendo in giro per la tundra anche a molti chilometri di distanza. È come se il suolo stesso fosse essenzialmente, esploso.
Ma la storia non finì lì. Negli ultimi tre anni, da un estremo all’altro di una tale terra desolata, giunsero numerose altre testimonianze di simili eventi: almeno altri tre grandi crateri, oltre ad un numero attualmente stimato tra i 20 e i 30 dalla posizione ignota, forse più piccoli ma comunque sufficienti ad inghiottire un pastore, la sua slitta e l’intero gregge delle renne che lo stavano seguendo fino al pascolo distante. Nel giro di pochi mesi dalla loro formazione, quindi, simili depressioni tendono a riempirsi d’acqua diventando a tutti gli effetti indistinguibili da elementi paesaggistici più convenzionali. Eppure, per chi ne conosce l’origine, essi appaiono meritevoli di guadagnarsi quell’appellativo spesso impiegato più a torto che a ragione, di “Porta dell’Inferno” quasi come le anime dei trapassati gridassero con furia dai recessi umidi tra le pareti ripide e scoscese. Mentre sia il Vladimir Pushkarev, direttore del Centro Russo per l’Esplorazione dell’Artico, che il Prof. Julian Murton dell’Università del Sussex, che in prossimità di simili recessi ha guidato più di una spedizione con partecipazioni internazionali, hanno rassicurato il mondo facendosi calare nei reconditi anfratti, e garantendo quindi che: “Non c’è alcun pertugio che s’inoltra nelle viscere della Terra, in fondo a questi fori. Tutto finisce ove può spingersi l’occhio umano.” Il che, nel risolvere un mistero, ne creava un’altro: in assenza di punti di sfogo dalla natura vulcanica o misteriosa, che cosa dunque avrebbe dovuto causare il crearsi di un tale grande vuoto? Le possibili risposte fornite a margine sono state molto diverse. Ma ce n’è una, in particolare, che sembra la più probabile…
Quello che viene definito in lingua inuvialuktun il “pingo”, un termine che significa piccola collina, è un accumulo di ghiaccio semi-sotterraneo che tende ad ispessirsi con il tempo. Simili fenomeni, definiti nel linguaggio scientifico idrolaccoliti e classificati per la prima volta dal botanico Alf Erling Porsild, hanno generalmente origine da un fessuramento del suolo non permeabile e indurito dal gelo, attraverso cui tendono a insinuarsi le precipitazioni atmosferiche. Con le temperature di fino a -67° raggiunte in queste zone geografiche, quindi, il pingo raggiunge condizioni di solidità tali da spostare via la terra compatta, ricavandosi uno spazio simile ad un tumulo gelato. Che può durare tranquillamente per secoli, millenni addirittura! Se non che, come ci viene spesso fatto notare tra un telegiornale e l’altro, il nostro pianeta sta attualmente andando incontro ad un accumulo di CO2 tutt’altro che indifferente, tale da generare il cosiddetto effetto serra. Così l’estate diventa calda, caldissima, avvicinandosi pericolosamente agli 0 gradi addirittura a queste latitudini. Ed il pingo inizia subito a squagliarsi. Il che è un problema. Perché come forse già saprete, la Siberia costituisce allo stato dei fatti attuali una delle riserve di gas naturali più ricche al mondo, tale da giacere, essenzialmente, sopra un’enorme sacca occulta di metano. Così nel momento in cui l’acqua perde solidità e scivola via, quel grande vuoto viene subito riempito da un qualcosa di radicalmente differente, invisibile, maleodorante e rigorosamente pronto ad incendiarsi.
Ora non è noto che cosa, esattamente, abbia costituito la causa scatenante dell’esplosione del primo e più grande cratere della penisola di Yamal. Né tantomeno, di quelle all’origine dei suoi numerosi piccoli fratelli. Qualcuno ipotizza un fulmine o l’accumulo di elettricità statica. Fatto sta che le bombe, nella maggior parte dei casi, finiscono per esplodere prima o poi. E lo faranno ancor più spesso in futuro!
E questo non è neppure l’unico, né il più spettacolare modo in cui l’attività umana ed il riscaldamento terrestre stanno mutando il paesaggio della Siberia. Quasi a dimostrare come proprio un tale terra estrema, all’apparenza la più inaccessibile e incontaminata dall’uomo, sia in costituisca in effetti il canarino da miniera del nostro mondo, pronto a dimostrare con il suo collasso la natura esiziale della strada che abbiamo ormai intrapreso, senza possibilità di fare marcia indietro.
Attorno agli anni ’60, in prossimità del villaggio di Batagaika, gli abitanti decisero di abbattere una zona forestale. Non è nota la ragione. Forse avevano bisogno di materiali per costruire, oppure avevano esaurito il carburante per i loro impianti di riscaldamento (il che, in un luogo simile, equivale a mettere in dubbio i propri stessi propositi di sopravvivenza). Fatto sta che il gesto venne portato a termine, e non appena ritornò il silenzio nella valle, spenti i poderosi macchinari e le seghe a nastro, si avvertì come un improvviso tremore. Quindi la terra all’improvviso sprofondò. Ciò che era successo, secondo l’opinione a posteriori degli esperti, fu che le radici che tenevano assieme il permafrost ormai soltanto in parte semi-congelato erano state rimosse, generando quella che viene chiamata in gergo depressione termocarsica, o in inglese, megaslump. La crepa, inizialmente, non aveva proporzioni eccessivamente preoccupanti: giusto qualche metro di larghezza, e una profondità a malapena sufficiente a generare una zona d’ombra carica di foschi presagi. Ma con il trascorrere del tempo, la cicatrice crebbe e crebbe ancora, fino all’attuale dimensione di un chilometro di lunghezza per 100 metri di profondità. Giungendo a costituire, allo stato dei fatti attuali, la più vasta casualità verificabile di un simile fenomeno al mondo, nonché l’ulteriore ricevente dell’appellativo non-troppo-invidiabile di “Porta per l’Aldilà”.
Ci sono limitati aspetti positivi nell’insorgere improvviso di tali voragini in luoghi remoti, dove esse non possono arrecare (troppi) danni alla nostrana collettività. Esse costituiscono ad esempio delle vere e proprie capsule temporali geologiche, contenenti informazioni significative sui trascorsi della regione. L’ampliarsi della depressione di Batagaika, in particolare, ha permesso agli scienziati di ritrovare alcuni resti fossili di cavalli e buoi risalenti all’epoca iniziale dell’Olocene, ovvero circa 11.700 anni fa. Mentre purtroppo, il danno che tali fenomeni possono arrecare è letteralmente incommensurabile, attraverso un meccanismo che viene definito feedback di ritorno dell’effetto serra: con il surriscaldarsi del pianeta, infatti, il suolo siberiano si riempie di possenti spaccature. Da esse fuoriesce il metano, che per sua naturale prerogativa tende subito a migrare verso gli strati superiori dell’atmosfera. Luogo in cui alla fine, trattenuto inevitabilmente dalla forza di gravità, esso costituisce una vera cappa dall’efficacia potenziata (tale gas ha capacità isolanti molto superiori a quelle della semplice anidride carbonica) in grado di accresce a sua volta la temperatura terrestre.
Che cosa mai, dunque, potrà fermare il formarsi di ulteriori voragini, o l’ampliarsi di quelle già esistenti? L’unica risposta possibile è: Nulla! Non c’è soluzione. Nessun remoto baluginìo di speranza. Si tratta di un processo già in corso d’opera, e se anche noi dovessimo da un giorno all’altro, spegnere tutte le nostre automobili, svuotare le fabbriche, radere al suolo le città e piantarvi alberi, l’accumulo karmico di quanto già compiuto si rivelerebbe sufficiente a suscitare il mutamento delle Ere. Il che non dovrà necessariamente significare, a conti fatti, il nostro completo ed imprescindibile annichilimento. Ma di certo, pure ciò è possibile…