In molti l’hanno sperimentato senza conoscerne il nome. Mentre si fa ritorno a casa da un luogo lontano, sopra l’autobus o il treno, in automobile, mentre si percorre il tratto a piedi verso l’ultimo traguardo dello spostamento: si usa dire sonder, in lingua inglese contemporanea, facendo affidamento allo strumento del neologismo per rispondere al bisogno molto umano di trovare un nome ad ogni cosa. Si tratta di un sentimento assai specifico, eppure contenuto in linea teorica nella struttura basilare della nostra mente: l’improvvisa, e qualche volta niente meno che shockante, presa di coscienza che tra tutte le persone che ci circondano hanno una storia, complessa e stratificata almeno quanto la nostra, con innumerevoli elementi, amici, luoghi e punti d’interesse. Che noi dal canto nostro, non conosceremo mai. In altri termini, è la comprensione della nostra assoluta assenza di significato nello schema generale delle cose, per una semplice questione di rapporto tra le grandezze in gioco. Esiste quindi una versione urbana della sonder, che deriva non più dall’osservazione diretta dei nostri simili, ma degli usci delle loro case. Dietro ogni porta o ingresso di un palazzo, quanti sogni, quante speranze, quali oscuri ed incomunicabili segreti… Occasionali volte, camminando, ci si immagina dall’altra parte di quella membrana. Senza più un briciolo della propria pregressa identità. E se invece, dietro una particolare porta, non ci fosse altro che il Nulla? Che ne sarebbe, allora, di colui che molto coraggiosamente decidesse di varcarla, alla ricerca di qualcosa di perduto? È un gesto atipico che nasce da un atavico bisogno. Quello compiuto da Dave Hakkens, il travel blogger dalle inclinazioni ambientaliste, inventore tra le altre cose dell’encomiabile progetto Precious Plastic, che si propone d’insegnare alle popolazioni disagiate come costruire macchine per il riciclo. Colui che durante il suo attuale itinerario in giro per l’Asia (a giudicare dagli ultimi video, le tappe sono state diverse) piuttosto che abbandonarsi alla malinconia che nasce da un simile senso dell’identità perduta, si è diretto verso uno di questi ingressi misteriosi, favolosamente ornati con bassorilievi lignei d’altri tempi, ha bussato e quindi fatto un passo avanti, dentro a uno di questi mondi ben distinti dalla strada comunitaria. Per trovare al suo interno, come da copione, il più totale ed assoluto…
Chi l’avrebbe mai pensato? Siamo a Chiang Mai, una città di 148.000 abitanti sita nell’omonimo distretto del nord della Thailandia, presso il Wat (tempio) di Ram Poeng, costruito per la prima volta, stando quanto riesce a desumere dal breve paragrafo in doppia lingua (tradotto non benissimo) offerto sul sito ufficiale dell’istituzione, attorno al III secolo d.C, quando Chao Yod Chiang Rai, decimo sovrano della dinastia di Mengrai, salì sopra il trono dopo l’assassinio di suo padre. Scoperta quindi l’identità dei cospiratori colpevoli di tale gesto, egli li fece subito mettere a morte, ma poiché era un fervente buddhista dedito alla non-violenza, decise quindi di fare ammenda finanziando la costruzione di un nuovo luogo di culto presso la sua vasta capitale. Quello stesso tempio che oggi si ritrova come protagonista del presente video, dedicato all’attività contemporanea dei suoi monaci, appartenenti alla scuola del buddhismo Theravāda, una corrente identificata con la natura più antica di una tale religione, diffusa soprattutto nel Sud-Est asiatico, mentre l’India e l’Estremo Oriente vedono il suo superamento da parte della scuola di matrice tibetana del Mahāyāna, il Grande Veicolo che si trova perfettamente, e brevemente espresso nella divina natura del Sutra del Loto, l’antichissima espressione di assoluta Verità. Accettato come assoluto e imprescindibile fondamento della propria stessa dottrina dalle scuole cinesi Tiāntái e da quelle giapponesi Tendai e Nichiren. Ma non qui. Dove il significato dello studio dell’insegnamento del Buddha nasce dall’analisi di ciò che abbiamo intorno, ed all’interno della nostra stessa mente, verso un raggiungimento di uno stato superiore di coscienza. Di certo, accettare l’offerta sempre presente di varcare una tale soglia, per passare un tempo di poco superiore a una settimana assieme ai monaci, conoscendo il loro stile di vita…Deve aver costituito un’esperienza…Indimenticabile, nevvero?!
Il racconto inizia con una breve esposizione delle regole previste dal tempio, che accetta chiunque in qualsiasi momento senza richiedere alcuna forma di pagamento in denaro, benché le offerte siano sempre bene accette. In osservanza dell’antica procedura, l’aspirante studente dovrà presentarsi all’ingresso del Wat recando alcuni oggetti dal probabile valore simbolico: 11 fiori di loto o altri fiori bianchi, 11 candele arancioni o gialle, 11 bastoncini d’incenso. Egli dovrà inoltre disporre di abiti totalmente bianchi, da indossare durante l’intero periodo della sua residenza. Dave, per sdrammatizzare la solennità del momento, scherza sul fatto che una simile tenuta lo farebbe assomigliare ai Backstreet Boys (ehi, c’è di molto peggio a questo mondo!) Si dovranno inoltre lasciare all’ingresso cellulari, libri o altre potenziali distrazioni. Per 10 giorni successivi, sarà proibito addirittura scrivere della propria esperienza, poiché ciò porterebbe a un turbamento della buona riuscita del corso. Quindi l’ospite verrà accompagnato fino ad una delle stanze distaccate presenti sul terreno del tempio, costruite in modo estremamente essenziale e spartano, fino al problematico dettaglio di un sottile materasso, appena sufficiente per nascondere il duro letto messo a disposizione del postulante. Ciò è probabilmente voluto, e funzionale al raggiungimento di uno stato di sincero distacco dagli agi terreni. Mostrato tale dettaglio, quindi, il video si interrompe brevemente, per riprendere soltanto 10 giorni dopo. Uno stanco, ma apparentemente soddisfatto Dave riappare dinnanzi a quella stessa porta. I capelli tagliati più corti, perché “Dicono che così i pensieri riescono a lasciare meglio la testa” e un entusiasmo un po’ smorzato dalla realtà dei fatti lentamente acquisiti. “È stata l’esperienza più NOIOSA della mia vita. Ma anche un bel momento di crescita interiore.” Così l’azione si sposta in un bar, dove lui si applica nello spiegarci in cosa sia effettivamente consistita.
A questo punto è importante notare come il tipo di venerazione praticata nei templi Theravāda non abbia in effetti molto a che vedere con la pratica più largamente nota del Samatha, ovvero la ricerca di una calma interiore che noi associamo normalmente allo stereotipo del monaco Zen. Ben lontani da quella visione più passiva e soggettivistica del mondo, i monaci del buddhismo thai si raccolgono normalmente nel silenzio e nella concentrazione per una finalità ben diversa, ovvero uno stato di profondo ragionamento sul tema delle Quattro Sublimi, o Nobili, Verità. Che sono: Dukkha, la sofferenza che nasce dalla separazione; Dukkha samudaya, la causa di tale stato imperfetto, ovvero il desiderio; Dukkha nirodha, la cessazione della sofferenza, ottenibile attraverso l’eliminazione della causa; e infine Dukkha nirodha gāminī paṭipadā, il sentiero che conduce alla liberazione del Nibbana, attraverso la buona pratica di un retto metodo dell’esistenza, del comportamento e del pensiero. Il punto chiave per comprendere dunque il senso ed il significato della meditazione Vipassanā, in netta contrapposizione con la Samatha, è che in essa non si annida alcun singolo attimo di mistica rivelazione, in cui lo spirito di un santo Bodhisattva appare all’aspirante e lo conduce verso il giusto sentiero; l’illuminazione deve dunque giungere per gradi, attraverso lo strumento dell’analisi oggettiva della realtà. Questi monaci sono come degli scienziati che studiano la mente umana, attraverso la sua completa chiusura da ogni forma di disturbo esterno, affinché la sua vera natura possa stagliarsi contro il vuoto e il netto dell’Infinito. Proprio per questo, nella meditazione Vipassanā non è previsto altro oggetto d’ausilio che i pensieri sull’Assoluto e l’Universo, mentre la Samatha prevede la creazione immaginifica di forme (o qualche volta l’impiego di veri e propri oggetti e gesti) come ausilio al raggiungimento dello scopo prefissato: pensate ad esempio al giardino di sabbia, o alla cerimonia giapponese del tè…
Ecco, dunque, immaginate voi l’estrema difficoltà. Di una persona esattamente come noi, che affascinata da un simile mondo estremamente profondo e stratificato, scelga di avvicinarvisi partendo da una delle sue forme più pure e difficili da praticare correttamente. Non c’è poi molto da meravigliarsi, se il nostro travel blogger si è annoiato. Eppure, persino esponendoci i suoi dubbi sull’esperienza, Dave riesce a definire in chiari termini, con l’ausilio di un diagramma tracciato a matita, il singolo aspetto positivo che chiunque, in qualsiasi momento, potrebbe trarre da una decina di giorni trascorsi assieme ai monaci thailandesi: il raggiungimento, pressoché automatico, dell’assoluta calma individuale. “La nostra mente è sempre piena di rumore” afferma egli in primo luogo, tracciando un grafico sul suo foglio di carta: “Che in assenza di stimoli, tende naturalmente ad attenuarsi.” Qui il caotico diagramma sinusoidale scompare, in una piccola onda ripetuta “Dopo un certo numero di giorni, quindi, le preoccupazioni si esauriscono. Ciò che resta è solamente un Grande Vuoto…” Il che, in determinati periodi della nostra vita… Difficile negarlo! Resta molto preferibile all’alternativa.
Vedi anche: il sito ufficiale del tempio. Non è prevista prenotazione.