Presso l’equatore, grossomodo in corrispondenza della linea internazionale immaginaria che dovrebbe indicare, secondo la convenzione, l’inizio di una nuova giornata di 24 ore, esiste un piccolo paese. Nel mezzo del più vasto oceano, e grande all’incirca due volte la Repubblica di San Marino, ma a differenza di quest’ultima, non contiguo: ciascun territorio di cui esso si divide, risulta infatti circondato da miglia e miglia di acqua non perfettamente trasparente e senza alcun dubbio, popolata dagli squali. Così chi dovesse dunque sorvolarlo con un aereo, questo ambiente abitato da circa 53.000 persone, non scorgerebbe certo alcuna struttura più grande di un municipio in muratura, una chiesetta, qualche dozzina di capanna e moli d’approdo costruiti secondo le antiche metodologie polinesiane. Con una singola, preoccupante eccezione: la grande cupola di cemento dell’isola di Runit, chiamata dai locali “il mausoleo”. Formata da 358 pannelli interconnessi di un gradevole color grigio topo, caratterizzati dal notevole spessore di 58 cm. A ben pensarci, la cosa più stupefacente è che l’insieme di materiali non sia sprofondato in mare, in funzione del suo semplice peso eccessivo. Chi l’ha costruita e perché? Dove avrebbero mai trovato i fondi, questi tranquilli e relativamente improduttivi isolani, per costruire un simile maestoso edificio? La cui esistenza, in altre condizioni, sarebbe più che sufficiente a far sospettare la diretta partecipazione di una qualche civiltà aliena, anche per la spiccata somiglianza con lo stereotipico UFO degli show televisivi una volta. Ma no, ma no! Niente di simile La realtà risulta molto più semplice, ed al tempo stesso orribile, di così…
Nel 1943, con due anni di feroce guerra nel Pacifico alle spalle, i generali d’armata americani decisero che era giunto il momento di conquistare delle basi avanzate a sud, dalle quali decollare per effettuare le prime, prudenti ricognizioni dei principali territori giapponesi. Fu quindi deciso, senza esitazioni, che il primo bersaglio di un tale iniziativa sarebbe stato l’atollo di Enewetak (talvolta detto Eniwetok) 5,85 chilometri quadrati, con un’elevazione massima dal mare di tre metri, presso cui il nemico aveva già costituito un piccolo campo di rifornimento aereo senza nessun tipo di personale stabile e velivoli in stazionamento permanente. Gli attuali occupanti delle isole affioranti dalla sottostante montagna sommersa e relativa barriera corallina, tuttavia, non erano numerosissimi, soprattutto perché il comando nipponico si aspettava di subire un’attacco più a nord, presso le isole Marianne. Fu così deciso che le forze incaricate della presa del territorio sarebbero stati due reggimenti, al rispettivo comando di un ufficiale di fanteria e dei marine. Giunto il 17 febbraio quindi, con la caratteristica dottrina del thunder & lightning, i circa 10.000 uomini sbarcarono sulla spiaggia, utilizzando un’ampia selezione di chiatte da sbarco ed altri battelli specializzati, senza premurarsi di disporre di un adeguato supporto del fuoco d’artiglieria navale. Il che si rivelò, ben presto, un errore: le truppe imperiali, che secondo lo storico Rottman, G. ammontavano a poco più di 3500 uomini, si erano infatti trincerate estremamente bene, con un generoso utilizzo del tipo di fortificazione definita in gergo “fossa dei ragni”: essenzialmente, ciascun soldato aveva scavato una buca nella sabbia friabile dell’atollo. Quindi l’aveva ricoperta con foglie e rami, e da essa usciva solamente con la testa ed il fucile, facendo fuoco su chiunque avesse l’intenzione di avanzare. Nel frattempo, una piccola divisione di carri al comando del tenente Ichikawa, formata da 9 leggeri Tipo 95 Ha-Gō, impose non pochi grattacapi agli aspiranti nuovi possessori dell’isola principale dell’atollo, detta per antonomasia Eniwatok. Passarono così tre giorni di battaglia estremamente cruenta, nel tentativo di guadagnarsi la prima testa di ponte dell’obiettivo strategico principale. Le difficoltà incontrate furono decisamente superiore alle aspettative, tanto che nel caso dell’assalto alla seconda isola dell’atollo, quella di Parry, fu deciso invece d’impiegare un bombardamento a tappeto ad opera delle due corazzate USS Tennessee e Pennsylvania, così serrato da necessitare di 900 tonnellate di munizioni, ed al termine del quale, essenzialmente, ben poco rimaneva di riconoscibile da quelle parti, a parte la sabbia e il mare. Al termine dell’operazione, quindi si passò al conteggio delle vittime: in quegli ultimi cinque giorni avevano perso la vita 313 soldati americani, senza contare gli 879 feriti e 77 dispersi, mentre per quanto concerneva l’altro lato del fronte, quasi l’intero contingente dello schieramento avversario fu trucidato, con soltanto 105 prigionieri presi. La vittoria degli americani, dunque, fu rapida e totale: troppo diversi erano i fattori delle forze in gioco. Ma il prezzo pagato? Fu notevole, senz’altro.
Il che diede malauguratamente, ai generali, un’idea: non sarebbe stato possibile, in un ideale futuro, disporre di un’arma così potente da fiaccare lo spirito del nemico prima ancora di esporsi al pericolo delle sue bocche da fuoco? Un singolo strumento di distruzione, in grado di annichilire un’intera macchina bellica in forza della sua semplice esistenza…E fu forse proprio questo, l’inizio della fine. Poiché, come fin troppo ben sappiamo, l’opera di Einstein e di Oppenheimer stava iniziando a dare i suoi primi frutti collaterali, ed il grande progetto con a capo Leslie Groves del corpo del Genio militare, nome in codice Manhattan, stava trovando l’applicazione più temuta dell’uranio 238 e del plutonio: la costruzione di una bomba quale il mondo non aveva mai conosciuto prima. Anzi due, da scaricare senza particolari ed immediati sensi di rimorso presso i popolosi centri abitati di Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e 9 agosto del 1945. Proprio come se si fosse trattato di una nuova isola di Parry, e l’intero Giappone, fosse stato la versione sovradimensionata di Eniwatok. Le reazioni del mondo furono molteplici e diverse: orrore, condanna, incondizionata comprensione del “nonostante tutto”, parziale giustificazione, colossale esultanza per l’annientamento dei “gialli”. E poi soprattutto, esattamente come si sperava a più livelli, un timoroso senso di rispetto.
Il che avrebbe fatto molto in breve tempo, per comprovare lo stato degli Stati Uniti come nascente ed innegabile superpotenza su scala globale, in grado di rivaleggiare con lo sterminato paese che il baffuto Stalin aveva gloriosamente condotto in battaglia, l’URSS. Pur essendo finita la guerra, dunque, nulla cambiava di quelle instabili condizioni geopolitiche avrebbero potuto, all’epoca, dare facilmente luogo ad un ripetersi dello stesso cataclisma barbarico e medievale. Fu quindi deciso che la corsa agli armamenti avrebbe continuato, marciando innanzi a gran velocità. Si, ma in quale modo? Come si può dimostrare la propria perizia nell’impiego di armi in grado di distruggere un continente, senza per l’appunto, distruggere un continente? La risposta ovviamente esiste, ma occorre ricercarla in alcuni dei luoghi più remoti della Terra. Come per l’appunto, l’arcipelago delle Marshall e l’atollo di Eniwatok.
Non fu lasciato passare in pace neppure un intero anno. Il primo colpo risuonò presso l’atollo di Bikini, il 30 giugno del 1946, subito seguìto dall’esplosione di Baker il 24 luglio, in un bizzarro ripetersi dei bombardamenti che avevano apposto, con il sangue, la parola fine sul secondo conflitto mondiale. Naturalmente, in questo nuovo caso non dovevano esserci vittime, e così il comando si era premurato di allontanare, nella maggior parte dei casi usando la forza, gli abitanti di queste terre remote e un tempo, ahimé, tranquille. Tale costosa operazione venne denominata in codice Crossroads, e non fu che l’inizio di una lunga serie di test, durati fino al 1962, per agevolare il perfezionamento di quell’arma che avrebbe dovuto permettere, a qualcuno e/o qualcosa, di sopravvivere all’ipotetico cataclisma di una guerra senza esclusione di colpi coi temuti governanti del Blocco Orientale. Un totale di 67 ordigni nucleari, sempre più grandi e potenti, furono fatti detonare presso questo o quell’atollo, con una particolare preferenza, forse del tutto accidentale, con quegli stessi campi di battaglia che appena una generazione prima erano stati copiosamente bagnati del sangue dei soldati al fronte. A nessun altro luogo, tuttavia, andò peggio che ad Eniwatok. Perché fu proprio qui, nel 1952, che gli Stati Uniti decisero di testare Ivy Mike, la prima bomba all’idrogeno della storia. Un’arma da 82 tonnellate progettata da Richard Garwin, uno studente di Enrico Fermi, e che utilizzava per la prima volta il deuterio criogenico come carburante. La cui detonazione avrebbe prodotto, secondo il piano originario l’equivalente di 10,4/12 megatoni di TNT. “Fantastico, facciamogliela vedere!” Esclamo qualcuno. Scegliendo come bersaglio l’isolotto condannato di Elugelab. Vennero condotti i preparativi, furono piazzate le telecamere. Venne persino presa in prestito la musica di Wagner, per accompagnare il video di propaganda risultante da una tale meraviglia della tecnologia moderna. Alle 7:15 del 1 novembre, quindi, avvenne la detonazione. PUF!
La palla di fuoco creata da un simile evento cataclismico raggiunse i 3.23 Km d’estensione e la nube a fungo si sollevò per 17 Km, mentre quello che era stato il ridente Elugelab si trasformava in un cratere di 2 Km di ampiezza e 50 metri di profondità. La liberazione di sostanze radioattive nell’atmosfera, tuttavia, fu superiore al previsto, e i forti venti del Pacifico le trasportarono fino a zone abitate. Non era la prima volta che capitava: nel 1954, un errore di calcolo relativo alla bomba dal nome in codice Bravo aveva comportato un’esplosione dalla potenza addirittura doppia del previsto, equivalente circa a 1.000 Hiroshima. In quel caso, 200 persone che abitavano sottovento furono colpite dalle radiazioni con conseguenze potenzialmente deleterie e i loro due interi atolli diventarono inabitabili dall’oggi al domani. E questi non sono che due dei peggiori errori di un lungo e travagliato programma, che ad ogni modo avrebbe avuto durature conseguenze sull’ambiente, sul benessere delle popolazioni inconsapevoli e sullo stesso buon nome di chi “poteva fare” ma non per questo, sceglieva “di non fare”. È interessante notare come, successivamente all’ottenimento dell’indipendenza delle Isole Marshall del 1983, il governo degli Stati Uniti abbia smesso di rifornire il fondo costituito per pagare i danni causati alla popolazione, nonostante nuovi processi nei tribunali internazionali abbiano aggiudicato nuovi risarcimenti ai discendenti di coloro che hanno pagato il prezzo maggiore. Ma questa è tutta un’altra storia.
Perché la grande cupola di Eniwatok, naturalmente, nasce da una necessità particolarmente pressante e specifica, relativa al come liberarsi degli 85.000 metri cubi di suolo contaminato risultante dai lunghi e reiterati test, senza scaricarlo in mare, corso d’opera troppo pericoloso, né tantomeno trasportarlo fino in patria e seppellirlo, per dire, nel Nevada… (Si, come no!) La soluzione scelta fu semplice, e per certi versi, molto ben concepita. Si scelse un cratere di esplosione particolarmente adatto allo scopo, quello risultante dall’esplosione della bomba Cactus fatta detonare il 5 maggio del 1958. Come forse avrete notato nel video di apertura, ce n’era un altro giusto accanto, ma fu preferito questo qui. Si mescolò la terra velenosa con del cemento di Portland (essenzialmente, il nostro calcestruzzo) che in tale spazio venne fatto attentamente colare, e quindi ricoperto con le tonnellate di pannelli già citati in apertura. A quel punto, l’UFO era pronto. E lì sarebbe rimasto, si spera, per l’Eternità. Ma il mondo non è mai così semplice, nessuna soluzione dura per sempre e soprattutto, ciò non avviene quando si sta parlando di sostanze la cui pericolosità decade in un lasso di tempo secolare, quando non addirittura millenario. Sono ormai in effetti diversi anni che gli abitanti di Eniwatok, reintegrati come da programma nell’atollo per così dire messo in sicurezza, riportano di aver notato crepe di varia entità, speso causate dai rampicanti vegetali, nella colossale struttura che hanno ricevuto in dono dagli americani. Inoltre, la popolazione disagiata è solita inoltrarsi nelle zone dei test nucleari, per cercare del metallo di recupero da vendere ai cinesi, esponendosi così direttamente al rischio delle radiazioni. Sono anni che l’amministrazione locale chiede ai loro Liberi Consociati” (ciò dichiara a grandi lettere lo statuto d’indipendenza stilato con gli Stati Uniti) i fondi per costruire una recinzione. E per molti anni ancora, probabilmente, continueranno a farlo.
Ma il vero e più drammatico pericolo, a conti fatti, è un altro: che cosa potrebbe mai succedere nel caso in cui una catastrofe naturale come uno tsunami, o un’apocalittica tempesta tropicale, del tipo non propriamente insolito presso tali latitudini, dovesse scegliere di percuotere con tutta la sua furia questa già cedevole struttura? Fin dove arriverebbero, i veleni che pesano sulla storia di questi due paesi, condannati dalla follia dei pochi e per il timore di molti…Questo, in effetti, nessuno lo sa. Perché non esistono casi pregressi di alcun tipo. Ma il futuro, si sa, è incerto…