“Signore, quando lei ha esposto il suo cimelio nella sala principale del nostro evento, l’avrà notato, per un attimo sono trasalito. Non riuscivo quasi a respirare.” Esordisce il perito, con un preambolo decisamente interessante. “La rarità, le condizioni quasi perfette, l’impossibilità di produrre un falso! Questa cosa è…Un Tesoro Nazionale, lei lo sa?” Ma io, ma io, la usavo quasi quotidianamente…
Trovarsi desensibilizzati al gusto ed al pregio dell’antichità è uno stato naturale del momento presente, massimamente teso alla realizzazione di “cose straordinarie” o “gesti eclatanti”. Ad un tal punto siamo abituati all’abbondanza di risorse, strumenti e oggetti decorativi, che oramai il nostro senso critico non guarda più al lavoro che c’è dietro a un qualche cosa, ma lo tiene in considerazione solamente sulla base di ciò che può fare, ovvero la sua sostanziale utilità. L’industria dell’inarrestabile catena di montaggio, dopo tutto, può produrre quasi ogni cosa! E quel qualcosa sarà certamente, dal punto di vista prettamente funzionale o utilitaristico, il pari dell’antico, o ancor migliore di quello. Più solido, più impermeabile, più tagliente, più veloce, più caldo… E nel caso di un qualcosa di esteticamente valido, addirittura, più bello? Dipende. Perché la bellezza è una risorsa soggettiva, che alcuni trovano nei luoghi inaspettati. Ed altri sanno individuare nell’antico, perché gli riesce di percepire mentalmente l’origine di un qualcosa, che ha una lunga storia e un valido tragitto d’esistenza. Un esempio: questa scena, piuttosto famosa online, si svolge presso Tucson (Arizona) durante l’edizione del 2001 di Antiques Roadshow, un programma originariamente inglese ma ricreato anche in Canada e negli Stati Uniti, che invia i periti delle case d’aste in tour per i rispettivi paesi, permettendo agli abitanti locali di scoprire se posseggono a loro stessa insaputa un qualcosa di straordinariamente prezioso. Dando vita a dei momenti alcune volte invidiabili, qualche altra coinvolgenti, molto spesso carichi di un elemento di sorpresa e quasi sempre, straordinariamente emozionali. Specie nei casi, come il qui presente, in cui una persona senza particolari facoltà economiche si ritrova improvvisamente conscio di possedere essenzialmente un’intera casa di grandezza media, temporaneamente intrappolata in una “semplice” coperta.
Benché nel presente contesto, sia chiaro, di comune c’è ben poco. L’uomo in particolare infatti, del cui nome purtroppo non abbiamo notizia, viene immediatamente invitato a raccontare la storia dell’oggetto in questione. Che proviene, si scopre verso l’inizio della sequenza, dalle proprietà del padre adottivo di sua nonna, un cacciatore d’oro di scarso successo che ebbe tuttavia l’occasione di conoscere di persona niente meno che Kit Carson, il celebre esploratore, cacciatore ed agente di commercio coi nativi americani del XIX secolo. Il quale, in circostanze ormai ignote, gli aveva fatto dono della coperta, un oggetto forse anche all’epoca piuttosto facile da sottovalutare. Si trattava, dopo tutto, di un tipico esempio di tessitura al telaio manuale dei popoli Navajo e in particolare appartenente alla tradizione d’interscambio con gli Ute (antichi abitanti dello Utah.) Fabbricato, quindi, con un filo particolarmente sottile di lana comparabile, nelle parole dello stesso addetto alla valutazione del roadshow Donald Ellis, addirittura alla seta. Stoffa certamente pregiata, quindi, ma qui utilizzata per ordire un qualcosa di piuttosto sobrio, con strisce geometricamente regolari di un giallo pallido, blu e nero. Inoltre l’oggetto, essendo stato usato per generazioni come una semplice copertura per poltrone, risulta lievemente liso ai bordi, ed in un particolare punto periferico addirittura riparato con del filo di un colore totalmente differente, che tuttavia, essendo fatto con quella particolare bayeta che si usava in epoche remote dell’America (una specie di flanella a base di cotone) diventa un ulteriore attestato d’autenticità. Sufficiente ad affermare che qui ci troviamo di fronte, niente meno, che ad una coperta del primo periodo di questo tipo di tessitura, ovvero l’inizio del secolo 1800, quando i disegni erano più semplici e gli unici in grado di permettersi un avere tanto pregiato, nella maggior parte dei casi, erano i rispettivi capi del villaggio. Da cui la definizione in lingua inglese di chief’s blanket, benché in effetti la coperta non costituisse indicazione formale del rango, e tutti potessero in teoria possederne una. Per giungere al punto chiave, dunque, quanto vale una Navajo Ute della prima fase, in tali (quasi) impeccabili condizioni? Messa all’asta: una cifra variabile tra i 350.000 e i 500.000 dollari. Subito a seguire, dunque, vi dirò perché…
Il problema principale delle coperte Ute della prima fase, molto diverse da tutte quelle successive, è che ne furono prodotte molto poche. Simili prodotti, infatti, richiedevano nella loro concezione originale l’impiego della lana di una particolare razza di pecore, le churro, che erano state portate in America dai primi coloni del Southwest. Ben pochi dei nativi, dunque, vi avevano un accesso incondizionato, se non attraverso un clima dei commerci particolarmente favorevole allo scambio. E primi successi, in tal merito, si ebbero all’inizio del XIX, in particolare tra gli odierni stati del Nuovo Messico e dell’Arizona, a vantaggio e con la collaborazione del vasto conglomerato di tribù pacifiche collettivamente note con il termine di El Pueblo. Costoro possedevano, infatti, il segreto per costruire un particolare tipo di telaio molto avanzato, non poi così diverso da quelli in uso nella nostra Europa medievale. Tra una coppia di asticelle parallele, disposte verticalmente oppure orizzontalmente, venivano tesi ordinatamente i fili risultanti dalla cardatura del pelo animale. Quindi, tra di essi, veniva fatto passare i fili colorati della trama, spesso tinti con estratti di piante locali o altre sostanze di provenienza puramente naturali. Un aspetto significativo è che in tale sistema non era previsto alcun ausilio di tipo meccanico affine a quelli oggi noti, ed in effetti, neppure la facilitazione dell’elemento della navetta, la spola appuntita usata per far passare i fili tra di loro. La quantità di lavoro necessaria per creare un capo da questi presupposti, di conseguenza, è facilmente immaginabile. Secondo una leggenda locale, quindi, il popolo confinante dei Navajo avrebbe appreso lo stesso sistema produttivo grazie all’intercessione di un particolare spirito, la figura ultra-terrena nota come la donna ragno. Comparsa alla moglie di un capo nel suo tepee, durante una fumata particolarmente lunga del sacrale calumet… Ma un simile affascinante racconto, purtroppo, al giorno d’oggi non riesce più a soddisfarci, così l’opinione degli esperti è che la trasmissione di sapienza sia in effetti avvenuta, nuovamente, grazie agli interscambi avvenuti tra i diversi popoli dell’area geografica in questione.
Ciò che seppero fare i Navajo della tecnica Ute, tuttavia, fu portarla fino ad un grado di perizia molto superiore: attraverso una serie di tre fasi successive, a partire da quella iniziale della coperta di Tucson, si passò progressivamente all’inclusione di rettangoli simmetricamente disposti nel disegno delle coperte (ciò richiedeva continui conteggi dei fili per l’ottenimento di una geometria corretta) e successivamente al 1860, infine, all’impiego di forme e disegni estremamente liberi e complessi, in quella che viene definito il periodo più artistico e creativo di questa particolare forma d’arte. Quindi nel 1880, con l’arrivo della ferrovia nelle regioni da cui aveva origine la commercializzazione di tali oggetti, si riconosce il termine del periodo cosiddetto classico, e l’inizio di un tipo di prodotti meno pregiati e concepiti espressamente per l’esportazione. Nonostante questo, una coperta Navajo costruita seguendo tutti i crismi corretti, appartenente a QUALSIASI epoca, può comunque valere diverse centinaia, se non migliaia di dollari.
L’origine delle coperte Navajo dell’epoca classica presenti sul mercato delle antichità odierne resta sempre dubbia ed incerta, definita vagamente “un vecchio possedimento di famiglia”. Questo perché la principale fonte delle chief’s blanket registrata dagli annali dovrebbe quasi sempre essere una particolare caverna nel Canyon de Chelly, in Arizona, dove un gruppo di Navajo si erano rifugiati per scappare dai soldati spagnoli nel 1804, durante una delle molte guerre e rivolte che pesarono per anni sui contatti tra le culture coloniali e native. Gli “indiani” dunque, in quel particolare caso furono tutti uccisi, ma gli occidentali, non conoscendo il valore dei loro indumenti, li lasciarono tutti lì. Il luogo, oggi noto come Massacre Cave, fu quindi trasformato in una tomba inviolabile, e l’accesso fu interdetto per almeno un secolo di tempo. Finché attorno ai primi del ‘900, un commerciante locale di nome Sam Day (sappiamo molto poco di lui) non fece irruzione abusiva nella caverna, rubando le coperte ed iniziandole a vendere con significativo profitto. Non tutto ciò che viene da un simile gesto efferato di oltre un secolo fa, tuttavia, deve necessariamente essere visto come orribilmente ingiusto e deleterio. Celebre fu ad esempio il caso del veterano di guerra residente in California Loren Krytzer, reso invalido dal servizio al suo paese, che nel 2012 portò la sua coperta Ute alla casa d’aste di John Moran, presso la vicina città di Altadena. Dove l’omonimo proprietario dell’istituzione riconobbe subito l’oggetto per quello ciò che incredibilmente era, ovvero uno dei soli quattro esemplari di creazioni tessili della prima fase contenenti una tinta rossa basata sulla secrezione degli insetti Kerriidae, anche detti cimici da lacca. Il cui valore e rarità erano comparabili ad uno dei singoli pezzi più famosi contenuti nel museo dello Smithsonian, spesso al centro di mostre dalla fama internazionale. La coperta andò immediatamente all’asta, suscitando l’interesse di un certo numero di collezionisti. Nel giorno della verità, quindi, iniziò una sfida al rilancio, tanto serrata da raggiungere la cifra spropositata di 1,8 milioni di dollari, spese incluse. Ovvero la più alta conseguita da un oggetto di questo tipo nella storia, nonché la seconda mai pagata per un qualsiasi manufatto di provenienza nativo-americana.
Ed alla fine, cos’è il denaro dei moderni? Una forza inconoscibile ed inarrestabile, che fluendo da Donald Ellis, dell’omonima galleria d’arte di New York, in quel caso concesse un futuro sereno ad un individuo dal presente disagiato, ed al tempo stesso rese certo che un prezioso, e rarissimo oggetto, venisse preservato per l’ammirazione di molte generazioni a venire. Purché il nuovo proprietario, come gli avrebbero molto probabilmente suggerito lo stesso esploratore Kit Carson, nonché il personaggio immaginario d’Indiana Jones, giunga prima o poi a patti con l’esclamazione proverbiale di: [Questa STUPENDA cosa] “Dovrebbe stare in un museo!”