Non credo siano in molti ad aver pensato, guardando una “comune” gara di MotoGP, ad aver esclamato o concepito nella loro mente un pensiero sulla linea di: “Però. Questa particolare attività, a me sembra TROPPO facile. Potrei pilotare una di quelle moto ad occhi chiusi.” Eppure a qualcuno tra i trascorsi vertici della FIM, la Fédération Internationale de Motocyclisme, un tale pensiero deve aver attraversato l’anticamera del carburatore, se è vero che nel 1949 fu concepito un secondo tipo di motomondiale parallelo a quello oggi più famoso, in cui c’era tutta una serie di difficoltà aggiunte. In primo luogo, le moto non potevano piegarsi, poi tendevano perennemente da una parte in fase d’accelerazione e da quella opposta durante le frenate, mentre accanto al pilota fu necessario, fin da subito, posizionare un secondo uomo, con il fondamentale compito di prevenire il cappottamento alla prima curva (per non parlare di tutte quelle successive). Si, non sto scherzando: queste “moto” possono tranquillamente decollare e andare contro un muro anche per una semplice mancanza d’intesa tra i due passeggeri. Perché non sono semplici veicoli monoposto. Esse trascinano con se un intero carrozzino. Sono, in un solo termine, dei veri e propri sidecar.
Un’escursione verso gli avamposti più fragranti della splendida campagna, tu e lei. Un viaggio fino al mare, sotto il Sole e con il vento che vi scompiglia gradevolmente…La visiera del casco. Quattro salti fin lassù tra i colli, per andare a divertirsi con l’amica di una, oppure molte estati fin da qui all’eternità. Son più d’uno gli alterni frangenti, facili alla mente che si nutre d’ottimismo, in cui potrebbe dirsi utile, persino logico, l’impiego di un sistema di trasporto come questo. Ma se vogliamo tornare a noi, non c’è davvero a questo mondo un mezzo meno pratico ed equilibrato dell’intera classe di moto fin qui citata, che possa in qualche maniera servire a raggiungere tutto d’un fiato la distante linea del traguardo. Ed è anche vero che, come nel doppio del tennis, non ci si può certo aspettare di prendere due piloti a caso tra l’abile cricca di Valentino & Co, metterli in una tale improbabile situazione, ed aspettarsi che riescano nell’arduo compito di decifrare un tale sport. Come il cricket, come il polo. Perché ciò che occorre, per riuscire qui nell’impresa, e soprattutto guadagnarsi il meritato trionfo, non è niente meno che fondere le proprie menti con una serie di procedure totalmente contrarie all’intuito, onde pensare ed agire alla maniera di un singolo individuo. Qualcosa di facilmente desumibile da questo breve ma intrigante spezzone, tratto dalla gara di inizio maggio ad Oulton Park, costituente niente meno che il primo round del Campionato Nazionale Inglese sponsorizzato dalle Hyundai Heavy Industries in collaborazione con il Molson Group. Ora nel vedere questi mezzi bassi e larghi che si affollano sui 4,5 Km della pista che era stata un tempo campo d’addestramento per lo sbarco in Normandia, sarebbe facile relegarli allo status di meri hobbisti ed amatori, praticanti di una disciplina che ormai conserva l’importanza solamente in rari ambienti, totalmente scollegati dall’opinione del senso comune. Ma notevolmente più difficile, risulterebbe negare la loro strabiliante abilità. Le coppie guidatore-passeggero a ben guardarli, alla guida per la massima parte di velocicli Yamaha, Kawasaki, Honda e Suzuki (certe cose non cambiano mai) sembrano quasi degli acrobati da circo, mentre il primo, racchiuso in una carena a campana che non sfigurerebbe in un bob delle Olimpiadi Invernali, fa del suo meglio per approcciarsi in ottima configurazione a ciascuna svolta del tracciato. Ma è il secondo, nel suo carrozzino rigorosamente aperto sul retro, a sembrare prossimo a volare fuori di continuo, mentre s’inginocchia a piega prima di qua, poi di là, di qua, di là. Non per niente il suo ruolo è stato qualche volta definito, a partire da un particolare slang australiano, come quello della “scimmia”. Un appellativo tanto calzante che volevo usarlo nel titolo, ma ho temuto di essere frainteso!
E dire che pur essendo tanto sconosciuta non si tratta, in ultima analisi, di un’invenzione recente, né tipicamente o esclusivamente inglese. Tanto che le gare di sidecar, fin da principio, vennero tenute in piste sparse in giro per l’Europa, da principio in mezzi niente affatto diversi da quelli concepiti per l’uso stradale. Facendo riferimento a Wikipedia, è al momento possibile riscontrare come nei primi anni si fosse puntualmente riconfermata una vittoria dei mezzi costruiti dalla Norton inglese, finché nel 1953 la coppia Eric Oliver – Stan Dibben non si presentò alla partenza con una moto per la prima volta costruita ad-hoc, con un unico telaio per guidatore e carrozzino, nonché la caratteristica pedana arretrata che tutt’ora caratterizza lo sport. Tale soluzione quindi si diffuse a macchia d’olio, portando ad un rimescolamento dei rapporti di capacità ingegneristica che a partire dall’anno successivo vide l’inizio del lungo predominio della casa tedesca BMW, che avrebbe partecipato alla vittoria di tutti i motomondiali di categoria fino ed oltre la metà degli anni ’70. Aspetto interessante di questo lungo periodo fu la doppia vittoria, nel ’65 e ’66, del duo dinamico di Fritz Scheidegger (svizzero) e John Robinson (inglese) con il loro particolare sidecar a piattaforma, definito all’epoca “la moto più bassa mai costruita”. E tutto sembrava procedere in maniera più o meno prevedibile, finché nel 1979, le continue innovazioni tecnologiche introdotti dai team di gara non costrinse la FIM a suddividere il campionato in due versioni, dedicate rispettivamente ai veicoli convenzionali ed ai prototipi. Quest’ultimo, quindi, fu vinto da Bruno Holzer – Charlie Maierhans, a bordo di un improbabile veicolo della LCR (Louis Christen Racing) che era dotato di volante ed acceleratore a pedale, mentre il passeggero, stolido ed immobile, costituiva in effetti unicamente una zavorra. Rilevato come un tale tipo di competizione rischiasse di diventare, nel giro di un paio d’anni, qualcosa che con il motociclismo aveva poco o nulla a che vedere, i vertici manageriali della federazione decisero quindi di imporre una serie di regolamenti più stringenti e dettagliati, incluso quello secondo cui un sidecar dovesse avere unicamente due ruote, una sterzante ed una motrice, perfettamente in asse, più quella addizionale del carrozzino. Ma poiché non veniva detto nulla a proposito della grandezza delle stesse, esse diventarono sempre più piccole, al fine di ribassare il mezzo di trasporto. Gli pneumatici impiegati inoltre sono tutt’ora di tipo automobilistico, affini a quelli di alcune competizioni a ruote scoperte, per il semplice fatto che non dovendo piegarsi trasversalmente durante le curve, il battistrada convesso tipico delle moto non avrebbe dato alcun tipo di profitto.
Nella versione moderna delle gare su pista con i sidecar, esistono tre tipi di evento: la match race, con una serie di manches ad eliminazione, la gara sprint, di soli 12 giri, e la vera e propria gold race, comparabile come durata, e spesso proposta in affiancamento, a quella molto più seguita del motomondiale contemporaneo. Esistono inoltre due categorie o “formule” la prima con mezzi in materiali compositi ultra-leggeri e cilindrata di fino a 1000 cm³, mentre la seconda dedicata a mezzi da 600 cm³ con telai tubolari. Ma sia chiaro che anche questi ultimi risultano ben diversi da un sidecar che potremmo aspettarci di vedere su strada.
Tornando a noi, è vero che, come affermato dalla maggior parte dei blog rimasti colpiti dal video di Donington Park, lo sport del sidecar da corsa è un’attività prevalentemente inglese, alla maniera di tanti altri insolite competizioni tradizionali? Tecnicamente, no. Ma è pur vero che a partire dal 1997, 11 titoli mondiali su 19 se li sono spartiti i due piloti Steve Webster e Tim Reeves, ciascuno accompagnato dal rispettivo, e qualche volta variabile, passeggero. È quindi comprensibile che nelle isole del Nord, un simile tipo di corse abbia un seguito più appassionato che da noi.
Nel frattempo, l’unico italiano che possiamo ritrovare nell’intero albo d’oro è Lorenzo Dobelli, che partecipò a due vittorie nel 1950 e ’51. E volete provare ad indovinare chi guidasse quell’affascinante velociclo Norton Manx? Esatto. Un inglese (Eric Oliver). Ecco dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, un’ulteriore dimostrazione delle molte cose buone che possono nascere dalla collaborazione tra Nazioni. Ora, se soltanto a questo vasto e pazzo mondo, riuscisse di seguire quel messaggio di competizione fraterna e ragionevole, che da sempre si ritrova nel migliore mondo dello sport!