Da questa raccolta di spezzoni provenienti dalla prima meta degli anni ’80, traspare il gusto di un’intero quinquennio degli sport motoristici in cui la frenesia sembrava essersi guadagnata il predominio delle aspettative di ognuno: degli spettatori, avidi di adrenalina e del pericolo che essi stessi tentavano di richiamare su di se, dei manager della FIA (Federation Internationale de l’Automobile) che vedevano gli incassi e sponsorizzazioni gravitare verso l’iperboreo, grazie ad una spettacolarità delle gare totalmente priva di precedenti. E poi di loro, chiaramente, i piloti. Che apparentemente dimenticata la loro stessa mortalità, salivano a bordo di auto mostruosamente potenti ed instabili, per scagliarsi come caccia-bombardieri da una portaerei e andare a perdersi tra le viuzze, lo sterrato e gli alberi della versione reale dell’inseguimento con le hover-moto della luna forestale di Endor, nell’allora recente terzo film di Guerre Stellari. Nomi come Timo Salonen di Peugeot, il finlandese che con 7 vittorie fu il miglior pilota della categoria, o come Walter Röhrl della Lancia e Stig Blomqvist della Audi, che oggi albergano negli annali stessi di un simile mondo, sotto a ciò che tanto tempo fa è stato, come un sogno evaporato al Sole della più terribile realtà: finché Henri Toivonen, nel 1986, non finì fuoristrada morendo assieme al copilota Sergio Cresto su quella fatale curva del (folle) rally di Corsica, ponendo tristemente la parola fine su di una visione del mondo delle corse che alla fine della fiera, non poteva in alcun modo appartenere a questo mondo. Ma di avvisaglie ce n’erano state parecchie, addirittura troppe, sia prima che durante la rivoluzionaria introduzione del cosiddetto Gruppo B.
Era il 1982. Le agili vetture concepite per affrontare le gare cronometrate su strada dei gruppi 4 e 5, prodotte alcuni dei principali marchi su scala globale, riscuotevano un buon successo di pubblico e televisivo. Eppure sembrava, a tutti gli effetti, che mancasse ancora qualcosa. Ciò sembrarono allora pensare i vertici decisionali delle federazioni rilevanti ed in particolare Jean-Marie Balestre, personaggio a capo fin dal 1973 della Federazione degli Sport Automobilistici di Francia (FFSA) e che fu strumentale nella trasformazione di quest’ultima nell’oggi più che mai rilevante FIA. Un uomo dal passato incerto, che durante la seconda guerra mondiale aveva fatto parte delle SS francesi ma che nel 1968, dopo aver dimostrato di essere stato in realtà una spia sotto copertura, aveva ricevuto la Legion d’Onore per i servizi offerti alla Nazione (nonostante questo, negli anni ’70 fu paparazzato mentre indossava un’uniforme nazista, in una strana anticipazione dello stesso scandalo che avrebbe colpito il suo successore Max Mosley nel 2008). E proprio sua fu l’idea, quell’anno, di riunirsi a colloquio con le principali case automobilistiche, per definire assieme il piano di fattibilità di quello che doveva diventare uno sport completamente rinnovato, in grado di attrarre una quantità di pubblico che fosse “superiore alla Formula 1”. Le automobili partecipanti, dunque, non sarebbero più state limitate dal bisogno di appartenere ad un reale ciclo produttivo su larga scala, ma unicamente prodotte in un numero minimo di 200 esemplari. Ogni anno, quindi, la casa produttrice avrebbe potuto aggiornare il modello e renderlo maggiormente competitivo, producendone soltanto altri 20 esemplari. Nei fatti, dunque, la prassi che si ritrovò adottata era quella di produrre un primo ciclo di auto “quasi normali” e quindi fin da subito la versione più competitiva ed inaccessibile al pubblico generalista. Uno di questi veicoli nella sua configurazione più performante poteva superare, molto facilmente, i 300.000 dollari di allora, mentre la versione ad uso stradale era spesso priva di rifiniture e per molti versi risultava incompleta. Nonostante questo, simili auto andarono letteralmente a ruba, ed ancora oggi sono altamente ricercate dai collezionisti, per il design particolare, i materiali avveniristici e le soluzioni ingegneristiche ormai completamente sorpassate. Il Gruppo B aveva creato, a tutti gli effetti, dei mostri.
Le motivazioni furono, all’inizio, di natura prettamente economica: un tipo di gare che fossero più popolari avrebbero costituito la migliore vetrina concepibile per i nuovi modelli di vetture sportive, ed ogni azienda, chiaramente, esiste soprattutto per produrre e guadagnare. Ma a giudicare da ciò che venne dopo, era innegabile che questa visione di breve durata avesse anche una base estetica di fondo: come una radice in gomma infissa nell’asfalto fertile del mondo delle idee, in grado di condurre l’umanità al volante verso nuove vette, precedentemente inesplorate. Guardate un po’ voi…
Per il primo anno, non si assistette ad alcun cambiamento troppo significativo: molti dei principali players del settore non avevano avuto tempo per sviluppare vetture che sfruttassero a pieno il nuovo regolamento, con la possibile esclusione di due modelli destinati a entrare nella storia: la Lancia 037, con trazione posteriore, e la prima Audi Quattro (o Quattro Ur, come viene talvolta definita usando il termine tedesco che vuole dire “originale”). La quale aveva, per la prima significativa volta nella storia degli sport motoristici, un sistema di trazione con quattro ruote motrici. Certo, alcune prove tecniche precedenti di questa soluzione c’erano già state. Ma tutti i team sperimentatori avevano deciso, presto o tardi, che l’aumento di peso e di complessità del veicolo non giustificasse il miglioramento delle prestazioni; finché Jörg Bensinger, ingegnere dell’Audi, non rilevò nel 1977 come nessuna auto sportiva, non importa quanto potente, potesse superare in prestazioni sulla neve la pesante fuoristrada in stile-Jeep della Volkswagen, la Iltis. La vettura della Lancia, nel frattempo, faceva affidamento su una leggera carrozzeria in kevlar invece che acciaio, e un motore montano in senso longitudinale per permettere una progettazione inusuale delle sospensioni. Entrambe le auto montavano inoltre un turbocompressore, concetto allora totalmente nuovo nel mondo dei rally. Le due scuderie, dunque, si spartirono la vittoria, con la casa italiana che portò a casa il titolo costruttori, mentre Hannu Mikkola, che correva per i tedeschi, si guadagnava il titolo di miglior pilota, considerato all’epoca molto meno prestigioso. L’anno successivo, la competizione fu più agguerrita, con molti produttori, attirati dalle prospettive di alta visibilità del Gruppo B, che portarono a competere dei nuovi modelli estremamente performanti: il 1984 vide così l’introduzione sul mercato di vetture storiche come la Celica Turbo Twincam della Toyota e la Manta 400 della Opel. Nonostante questo, vincitrice indiscussa di quell’anno fu la scuderia dell’Audi, con entrambi i titoli conseguiti da Stig Blomqvist alla guida della sua Quattro S1 migliorata. Significativa fu anche l’impresa della sua compagna di squadra Michèle Mouton, che arrivò vicina all’ottenimento del titolo pur essendo la prima donna a partecipare ai rally di portata internazionale. Quell’anno, tuttavia, emerse sulla scena un nuovo pericoloso competitor, che nei fatti fallì nel trionfare solamente a causa di un incidente nella gara finale: si trattava di Peugeout con la sua 205 T16, che aveva quattro ruote motrici come la Audi, ed in più risultava molto più leggera. Una vettura guidata da Ari Vatanen e progettata sotto la supervisione di niente meno che Jean Todt, futuro presidente della FIA nonché General Manager del team Ferrari. Nella stagione del 1985, quindi, la vittoria del team francese fu netta su entrambi i fronti, grazie alle imprese di Vatanen e del suo compagno di squadra nonché miglior pilota del Gruppo B, Timo Salonen. Successivamente ad un simile evento, quindi, le case italiana e tedesca rividero la loro progettazione e si prepararono a schierare per l’anno successivo delle versioni pesantemente migliorate delle loro rispettive vetture, come l’incredibile Lancia Delta S4, detta il Deltone. Il 1986 doveva essere, sotto tutti i punti di vista, un anno di gloriosa competizione sportiva e trionfi.
Ma il destino aveva in serbo tutta un’altra storia. Come abbiamo accennato in apertura, gli incidenti durante tutto il corso delle gare del Gruppo B erano stati tutt’altro che rari. Nel corso del campionato del 1985, ad esempio, il pilota della Lancia Attilio Bettega aveva perso la vita a causa di un incidente al rally di Corsica, finendo con la sua 037 contro un albero che penetrò nella cabina di guida. In quel caso, per sua fortuna, il navigatore si salvò. I media furono fin troppo rapidi ad attribuire l’evento ad un errore umano, oppure un semplice risvolto tragico del fato. Ma nel 1986, con l’aumento incrementale ed ulteriore delle prestazioni dei veicoli, la situazione iniziò a sfuggire decisamente di mano. Ad inizio stagione, il campione portoghese Joaquim Santos uscì di strada con la sua Ford RS200 durante una tappa del suo rally nazionale, finendo dritto in mezzo al pubblico che si era disposto in maniera orribilmente imprudente. L’incidente costò la vita a tre persone ed altre 32 furono ferite, anche piuttosto gravemente. All’inizio di maggio quindi, nuovamente presso il Tour de Corse nella seconda isola più famosa del Tirreno, si verificò l’evento che avrebbe posto fine a questo intero sogno di motori ruggenti: Henri Pauli Toivonen, alla guida della Lancia Delta S4 finì col copilota Sergio Cresto in un burrone privo di guard rail al settimo Km della 18° tappa, causando una compressione del serbatoio che prese immediatamente fuoco. L’auto, costruita con materiali compositi ad alta infiammabilità, fu immediatamente consumata ed i due lasciarono questo mondo in modo rapido senza nessuna possibilità di soccorso. La causa dell’incidente resta tutt’ora sconosciuta, benché sia noto che Toivonen, quel giorno, soffriva di febbre e si era per questo dichiarato molto stanco con il proseguire della gara. Nonostante questo, a nessuno era venuto in mente di suggerire il suo ritiro; perché come si dice… The Show…
Si, certo: fino al limite massimo. Fino all’ultimo minuto e non OLTRE. La tragedia ebbe una tale risonanza mediatica, soprattutto in forza delle molte precedenti, che la Federazione Automobilistica Internazionale dovette subito prendere posizione: fu dunque lo stesso Jean-Marie Balestre, iniziatore di questo mondo ad alto tasso adrenalinico e con prospettive inusitate di guadagno, a dichiarare immediatamente che non ci sarebbe stata una stagione successiva del Gruppo B. Nonostante l’evento, le gare del 1986 furono portate a termine e valsero un’ulteriore vittoria al team Peugeot. A seguito della cancellazione, venne annullata anche la prevista introduzione del gruppo S, che doveva costituire una via di mezzo tra questi estremi e le auto di serie usate nel gruppo A, che diventarono lo standard dei rally fino al 1997, con l’introduzione delle World Rally Cars.
Oggi l’epoca del gruppo B viene rimpianta, praticamente, da tutti. Si dice che sia stata la migliore età dell’oro nella storia dei motori, e che nessun tipo di competizione potrà mai raggiungere quello stesso livello di abilità, prestazioni e limiti stessi del concetto di sopravvivenza umana al volante. È sempre troppo facile dimenticare il male, ricordando i bei momenti che pervadono qualsiasi fase della vita, persino quelle più oscure. Come per il turbo che entrava in funzione ad uno specifico regime, raggiunto il quale queste auto decollavano del tutto liberate dalla gravità, sfiorando in volo schiere di spettatori, essenzialmente, assatanati…Una particolare leggenda metropolitana, molto truculenta, racconta di come negli specchietti retrovisori delle auto del Gruppo B fossero state trovate in più di un’occasione delle dita umane amputate. Ciò perché la gente faceva di tutto per toccare di sfuggita le auto di passaggio, scansandosi nell’ultima frazione di secondo a disposizione. Quel contatto, quindi, a volte continuava orribilmente. Molto dopo il transito dell’autoveicolo. Fin oltre la linea stessa del traguardo!