Note amorevoli, una voce rasserenante, l’armonia delle migliori ninna nanne. Lei che l’abbraccia all’altezza delle grosse zampe, quindi la colpisce delicatamente con un panno, in un gesto forse concepito per assomigliare a una carezza. È del resto assai probabile che con una pelle spessa 2 cm e mezzo, un lieve tocco possa risultare facilmente inadeguato. Quindi, finalmente, le parole misteriose della nenia di Sangduen “Lek” Chailert iniziano a sortire l’effetto desiderato, con la controparte che un poco alla volta si sdraia per terra, stando estremamente attenta a non stritolare l’amica per l’effetto della sua massa considerevole, quindi chiude gli occhi e…Sogna?
C’è molto di umano nel comportamento di Faa Mai, la pachiderma di 7 anni che per prima rappresenta una generazione successiva degli animali custoditi presso l’ENP di Chiang Mai, Thailandia, il più singolare e notevole santuario per la riabilitazione del maggiore animale di terra del pianeta. Perché proprio una creatura simile, in forza del suo metabolismo relativamente lento, può raggiungere tranquillamente i 70 anni di vita, e ciò nonostante una massa potenziale di 4,5 tonnellate (5 se si fosse trattato di un maschio). Non è quindi troppo irragionevole, per la gigantessa buona il cui nome per inciso significa “Un Nuovo Giorno” immaginare un lungo periodo d’infanzia e prima adolescenza, che potrà portarla, come del resto abbiamo fatto noi, a comprendere i suoi genitori e diventare, almeno in parte, simile a loro. Ed è in tale aspetto che la vita di questa creatura si profila come originale, perché di modelli femminili nella vita, lei ne ha almeno due: da una parte la madre biologica Mae Bua Tong, nata attorno agli anni ’70 e tratta in salvo da una triste vita passata al servizio dei turisti, cavalieri spesso ingrati e quel che è peggio, inconsapevoli dei duri metodi che vengono impiegati per addestrare gli elefanti in certi luoghi dell’Estremo Oriente. E dall’altra, una persona con due piedi e totalmente priva di proboscide.Ovvero un essere umano in carne ed ossa, pienamente consapevole di ciò che fa. Perché l’eroina famosa su scala internazionale con il solo soprannome di Lek Chailert, più volte premiata dal National Geographic, dalla Ford Foundation, dalla Humane Society… Ha avuto una vita certamente complessa e travagliata. Ma sempre dedita ad un singolo, fondamentale obiettivo: permettere a questi grandi animali di condurre un’esistenza placida ed amena, nonostante i traumi spesso subìti, e di raggiungere uno stato ideale di realizzazione psichica dell’individuo. Che tale certamente resta, in forza di una sofisticata filosofia e una capacità d’introspezione, forse meno palesi delle nostre, ma comunque notevolmente cariche di significato.
Voglio dire, basta osservarle all’opera. Non appare forse chiaro che la gioia dell’elefantessa, così straordinariamente cosciente della sua situazione lieta e dell’attimo di pace assoluta che stava vivendo nel momento qui raffigurato, si rifletteva pienamente nello stato momentaneo della sua seconda madre (adottiva) in un continuo feedback di ritorno valido a costituire l’assoluta gioia ed assenza di perturbazioni…. Una sorta di stato di grazia, sostanzialmente sconosciuto a molti di noi. Si potrebbe persino definire, questo lungo momento, come la ricompensa di coloro che amano gli animali, e dall’incontro con essi traggono dei benefici perfettamente commisurati al servizio che stanno rendendo all’Universo. Un elefante dopo tutto, ci spiega la Chailert orgogliosamente sul suo sito ufficiale, ha un olfatto più sviluppato del nostro, ed ha l’udito probabilmente più sensibile tra tutti gli animali della Terra, riuscendo quindi a vivere sotto diversi aspetti puramente fisici, più intensamente di noi. E se non domina incontrastato nel suo regno del selvaggio, l’unica responsabilità è la nostra, di uomini che gli hanno anteposto un mondo carico di costrizioni, doveri, limiti situazionali. Stiamo del resto parlando di un paese, la Thailandia, in cui la storia dell’uomo è strettamente legata a quella del suo fratello più imponente, al punto che nell’antichità questi esseri costituivano cavalcature regali, doni degni di un’ambasceria di pregio, macchine agricole o da usarsi per la raccolta di materiali… Quando nel 1989, in forza di un eccessivo disboscamento del paese rilevato dagli esperti provenienti da ogni parte del mondo, il governo nazionale impose severe limitazioni all’industria privata del legname, molti elefanti si ritrovarono immediatamente senza lavoro. Colossali bocche da sfamare, ingombranti e problematiche, che sempre più spesso i vecchi proprietari tendevano a vedere come grosse riserve di carne ambulante, da macellare in base alle necessità. E fu allora che Lek, all’epoca un’imprenditrice dal rispettabile successo con un negozio a suo nome, decise che avrebbe dovuto fare qualcosa per salvarli. Pena la perdita del contatto stesso con la sua realtà, ciò che davvero sentiva nel profondo dell’anima e l’obiettivo che desiderava conseguire nella vita.
Benché al momento l’ENP (Elephant Nature Park) offra soltanto una biografia estremamente sommaria della vita di Lek Chailert, non è difficile, a fronte di una breve ricerca online, ricostruire il puzzle travagliato che indubbiamente dev’esser stata la sua vita. Una vicenda che viene fatta iniziare, convenzionalmente, con uno specifico evento della sua infanzia. Accadde tutto all’improvviso. Lei, che era figlia di uno sciamano dei Kamu, il Popolo delle Colline, si ritrovò in custodia un cucciolo di pachiderma, ricevuto dal genitore come pagamento per la guarigione miracolosa offerta ad facoltoso abitante di quei luoghi. Nella liete convivenza che segue tra la giovane e l’animale, che si chiamava Tongkum (il Dorato) può essere facilmente rintracciata la radice degli improbabili obiettivi che ella sarebbe riuscita a conseguire, nei notevoli successi dei suoi anni dell’età adulta. Il fato successivo del suo beniamino, come del resto le date precise di ciascun evento che sto per narrare, restano purtroppo vaghe e nebulose, come del resto si confà alle vicende personali di qualsiasi leggenda vivente. Ritroviamo quindi Lek come giovane donna quando, riuscendo fortunatamente ad ottenere i fondi dalla sua famiglia nonostante le condizioni di estrema povertà in cui era cresciuta, riuscì a frequentare l’università di Chiang Mai, ottenendo una laurea in Belle Arti. Questo nonostante avesse già ben chiaro cosa avrebbe fatto della sua vita, e per il semplice fatto che una facoltà di veterinaria non esisteva nel suo paese, mentre quella di agricoltura era riservata unicamente agli individui di sesso maschile. Seguono anni difficili, durante i quali la donna dovette adattarsi a fare diversi lavori anche allo stesso tempo, durante i quali fece altre due esperienze che avrebbero cambiato la sua vita. La prima, di un tipo estremamente negativo: fu allora e per un puro caso, ella ci racconta, che assistette per la prima volta al crudele processo del phajaan, la tecnica tradizionale usata per domare gli elefanti fin dalla nascita. Un processo che consiste nel separare il cucciolo dalla madre, chiuderlo in uno spazio stretto ed infliggergli diverse sofferenze. Soltanto in tale modo infatti, si dice, la povera bestia potrà essere costretta a trascorrere una vita totalmente asservita al futuro desiderio degli umani. L’orribile presa di coscienza, ovviamente, non fece che iscrivere a lettere di fuoco una sacra missione nella mente di Lek: lei avrebbe salvato gli elefanti dall’avidità degli umani, a qualsiasi costo.
Contiguamente a tale assolutistica risoluzione, mentre svolgeva le sue mansioni di commessa all’interno di un negozio di abbigliamento, la donna conobbe quello che sarebbe stato il suo primo marito ed aiutante nell’ardua missione, un personaggio noto con il solo nome proprio di Adam. Fu allora che le finanze iniziarono a trattarla bene, permettendogli di aprire una lavanderia dal discreto successo. Ma ciò che restava assolutamente chiaro, a più livelli, era che tale passo fosse unicamente uno scalino, da compiere verso un qualcosa di notevolmente più vasto e significativo.
Assieme ad Adam, nel 1996, Lek fondò il primo nuovo parco per gli elefanti thailandesi, sfruttando i finanziamenti ricevuti da un misterioso “uomo d’affari” locale, un miliardario che successivamente subì un tentativo di assassinio e dovette fuggire dal paese. Secondo alcune versioni particolarmente drammatiche della storia, proprio per la voce e lo spazio che aveva dato alla problematica “Madre degli Elefanti” che sempre più spesso compariva sui giornali, mettendo in cattiva luce il grande business del turismo tradizionale che ruotava attorno a tali animali economicamente fondamentali. Nel suo parco, infatti, non era possibile cavalcare gli animali, né pungolarli, o costringerli a svolgere spettacoli di matrice circense, ma piuttosto il pubblico veniva chiamato ad accarezzare e condividere l’affetto dei bestioni, giungendo a conoscerli in maniera ancor più intima e profonda. Tutti meriti che furono ben presto noti su scala internazionale, diventando l’alternativa preferita dalle agenzie di viaggio e dunque, dai turisti stessi. E nonostante gli oppositori, naturalmente privi di argomentazioni valide, tutto sembrava andare per il meglio, finché nel 1999 non avvenne un fatto che avrebbe rovesciato totalmente la vita di Lek: una giornalista, il cui nome dovrà restare consegnato a cronache maggiormente precise degli eventi, ottiene da lei un video sul crudele metodo di addestramento dei cuccioli denominato phajaan, e lo pubblica a sua insaputa ottenendo una spettacolare risonanza su scala globale. La sequenza, ben presto, viene ripresa dalla PETA e diventa la bandiera per un boicottaggio turistico dell’intera Thailandia, trasformando in breve tempo la già fastidiosa curatrice del parco “controcorrente” nella donna probabilmente più odiata dell’intero paese. Durante una trasmissione televisiva, inoltre, ella ammette di aver girato personalmente il video, in un gesto di sincerità che fu anche eccessivamente spontaneo e pericoloso. Minacciata di morte e con un mandato di cattura a suo nome, Lek rifiuta un’offerta di aiuto da parte della principessa thailandese Rangsrinopadorn Yakul, scegliendo piuttosto di nascondersi tra i milioni di persone che vivevano a Bangkok. Durante questo periodo particolarmente oscuro, dei non meglio definiti “uomini in uniforme” si introducono nel parco, uccidendo orribilmente l’elefante che le era più caro.
Ma questo si rivela, forse, il più grande errore che potessero commettere. Diventata famosa in tutto il mondo proprio in funzione delle sue tribolazioni, la Chaliert partecipa a numerose trasmissioni statunitensi ed europee, ricevendo i premi di cui sopra e sopratutto, un grande finanziamento ad opera del dirigente della Serengeti Foundation, Jane Bert. Siamo verso la metà degli anni 2000. Protetta dalla duplice armatura di una rinnovata opinione pubblica nazionale, più moderna e globalizzata, oltre a risorse finanziarie in abbondanza, la nostra eroina dalla voce armoniosa amplia e ricostituisce il parco, aggiungendo diverse iniziative di conservazione del territorio ed anche un rifugio per centinaia di cani, animali spesso condannati ad una vita breve ed infelice in Thailandia. In un risvolto particolarmente imprevisto, le riesce persino di citare in tribunale alcuni dei giornali che si erano scagliati in precedenza contro di lei, ottenendo un patteggiamento in cambio di pubbliche scuse ed articoli oggettivi su quello che lei realmente era, i suoi obiettivi, i gesti che aveva compiuto. Se mai c’è stata giustizia a questo mondo…
Ed è così che la ritroviamo, in quel pomeriggio tiepido e gradevole del Chiang Mai, mentre sussurra la sua nenia nel grande orecchio dell’elefantessa Faa Mai. Che assai probabilmente non comprende la totale verità. Nonostante la loro memoria rinomata, è infatti improbabile che gli elefanti trasmettano nozioni di tipo situazionale tra una generazione e l’altra. Ma l’istinto resta valido, ed i sentimenti albergano in mezzo alle vibrazioni della strana melodia. Questo racconto, ce lo insegna l’esperienza, non scomparirà.