Quella istantanea realizzazione del momento in cui vedi qualcosa, di placido e vivente, accanto a una persona, soltanto per renderti conto che la scala da te immaginata era molto al di sotto della verità. Un uccello, enorme. Un cacciabombardiere, più che un Cessna, o in altri termini un supersonico Concorde. Non certo il piccolo Learjet. Poi sorge subitaneo il dubbio (come poteva essere altrimenti?) che l’individuo in questione, il celebre documentarista statunitense Jeff Corwin, sia particolarmente basso, e quella un’aquila normale: niente di più distante dalla verità. Google, col suo inesauribile archivio di altezze misurate in circostanze misteriose alle celebrità, ci viene in aiuto, dichiarando una statura di esattamente 1,77 m, offrendoci uno spunto per comprendere la verità. Quel MOSTRO dalle piume grigio-nere, con la cresta sbarazzina sulla testa, sarà grande almeno quanto, lunga almeno… Un metro. Il che significa, per inferenza, che la sua apertura alare può essere paragonata in linea di princìpio a quella di uno pterodattilo, il quasi leggendario rettile volante: fino a 224 cm, in taluni esemplari della stessa specie, dalla punta di una remigante estrema all’altra. E c’è questo concetto, largamente diffuso in forza di altri tipi di volatili massivi, che una creatura tanto grossa e pesante non potrebbe muoversi agilmente nel cielo. Niente di più falso: questi rapaci, dal nome scientifico di Harpia harpyja (unici membri del loro genere) si lanciano a gran velocità tra gli alberi delle foreste tropicali sudamericane, schivando facilmente tronchi, rami e fronde traditrici. E tutto questo, soltanto per ghermire il proprio pasto quotidiano, selezionato a seconda dei gusti sulla base di una delle dispense inconsapevoli più capienti al mondo.
Porcospini, opossum, formichieri, armadilli sono cibi solamente occasionali. Così come i carnivori di taglia media, quali il coato o il kinjakou (4,6 Kg) e i cervi rossi sudamericani, che l’uccello deve fare a pezzi prima della consumazione, per la loro massa di fino a 48 chili. Molto più spesso, quindi, gli preferisce un altro tipo di cibo: uno di quegli esseri che vivono in prossimità del tetto vegetale, e talvolta osano sporgersi con la testa al fine di ricevere una dose di luce solare. È una visione semplicemente, infernale. O per restare nell’ambito mitologico suggerito dal nome dell’aquila, degna del profondo Tartaro o dell’Ade. Ciò perché il dominatore alato, normalmente, non compie gli ampi giri di perlustrazione dei suoi lontani parenti delle coste americane, o gli altri tipi di agguantatori alati delle spaziose steppe centro-asiatiche. Egli preferisce, piuttosto, appollaiarsi come una gargolla su di un albero particolarmente elevato, che poi potrebbe anche essere quello con il suo nido; spesso la sua residenza è collocata sulla sommità del kapok, uno degli alberi più alti dell’intero Sud America, in grado di raggiungere e superare in media i 40 metri. Quindi, da un tale seggio d’eccezione, il volatile scruta attentamente l’orizzonte con cipiglio crudele, nell’attesa di scorgere un qualsivoglia accenno di movimento. Finché non gli riesce, inevitabilmente, di individuare il piatto prelibato con le zampe, che sarà letteralmente inerme di fronte alla potenza dei suoi inarrestabili artigli. E si tratta generalmente, come forse avrete già immaginato, di una qualche tipologia di scimmia, appartenente ad una delle molte specie che si aggirano da queste parti, mangiando frutta, foglie e rubacchiando l’uovo occasionale a un qualche più approcciabile pennuto. O in alternativa, l’aquila non si formalizza, al loro posto può trovarsi un bradipo, forse l’animale più pacifico di tutto il Nuovo Mondo, che molto attentamente si sposta da un ramo all’altro, contando sulla lentezza per passare inosservato. Un proposito che gli riesce…9 volte su 10? Del resto, non si può trarre in inganno un simile signore dei cieli.
Che potrebbe facilmente agguantare un cocomero tra le sue zampe, e frantumarlo prima del trascorrere di una frazione di secondo. Per non parlare di una testa umana…Ed è proprio sul sopraggiungere di un simile pensiero, che l’esemplare tenuto in mano da Jeff Corwin, parte degli ospiti piumati di un non meglio definito centro di conservazione sito a Panama, si mette insistentemente a beccarlo!
Nonostante quello che si potrebbe pensare, le questa particolare specie di aquile non è la più grande del mondo, benché di poco. Tale record spetta infatti in base al criterio selezionato alla Haliaeetus pelagicus (aquila di mare di Steller) originaria del Nord Est asiatico, con i suoi 9 Kg di peso medio allo stato brado, oppure alla Pithecophaga jefferyi (aquila delle Filippine, vi invito a leggere il mio articolo su di lei) da una lunghezza ed apertura alare leggermente superiori. Ciò detto, la misurazione delle aquile resta un proposito complesso, soprattutto per il fatto che gli esemplari in cattività, data l’abbondanza di cibo, tendono a crescere fino a dimensioni assolutamente spropositate. In particolare è documentato il caso di Jezebel, l’aquila arpia di proprietà di un mandriano operativo nella Guyana, Stan Brock, che raggiunse la stazza senza precedenti di 12 Kg, rendendola probabilmente l’uccello rapace più imponente del mondo contemporaneo. In natura, tuttavia, questi uccelli raramente superano i 9 Kg, se femmina, o appena i 4,8, nel caso in cui si tratti di un maschio. Una differenza probabilmente dovuta dal bisogno delle madri di catturare prede più grosse, per sollevarle quindi e trasportarle fino al nido.
Ed è proprio in quest’ultimo gesto, che l’aquila arpia si dimostra estremamente notevole rispetto alle sue consorelle: perché ella costituisce, senza ombra di dubbio, l’uccello più forte del mondo. I suoi artigli, grandi e curvi quanto quelli di un orso labiato (per intenderci, Baloo del Libro della Giungla) sarebbero sufficienti a mettere in difficoltà una tigre, soprattutto per la loro capacità di esercitare una pressione di 42 Kg per cm quadrato; in poche parole, una volta afferrato qualcosa, difficilmente poi lo lasciano scappare. Uno di questi rapaci, tra l’altro, ha la capacità di sollevare con la forza delle proprie ali una preda anche pari al proprio peso, per spostarla dal suolo fino a un luogo più tranquillo e adatto alla consumazione. Mentre le più grosse vittime comunemente catturate oltre il soffitto fronzuto della foresta, come bradipi di fino a 9 Kg, vengono addirittura trasportate direttamente fino al nido sulla cima dell’albero di kapok, senza che gli venga mai dato modo di toccare il suolo.
Sarebbe bello poter dire, per una volta, che questo magnifico animale che abita in alcune delle foreste più vaste del pianeta, tra Venezuela, Colombia, Honduras, Nicaragua… (ben oltre il solo corso del vasto fiume Orinoco, insomma, che comunque è parte fondamentale del suo areale) Disponesse di un territorio tanto incontaminato da permettergli di sopravvivere senza incontrarsi mai con i problemi della modernità. Ma purtroppo, così non è. Pur non essendo minacciata quanto quella delle Filippine, ormai ridottasi a pochissimi esemplari allo stato selvatico, l’aquila arpia sudamericana (così chiamata talvolta per distinguerla dall’omonima della Papua Nuova Guinea) sta incorrendo ormai dall’inizio degli anni ’90 in un brusco calo di popolazione, dovuto al triste disboscamento delle foreste tropicali per la costituzione di nuovi terreni da coltivare. Recenti ricerche hanno dimostrato come, a partire almeno dal 2009, l’uccello sia sostanzialmente sparito in molte zone del Brasile dove era sempre vissuto, quali Espírito Santo, São Paulo e Paraná. Una tendenza che gli ha fatto valere, allo stato attuale, la qualifica dello IUCN di animale “quasi minacciato” e la situazione potrebbe ben presto peggiorare. Simili creature, infatti, hanno bisogno di un territorio estremamente ampio per cacciare, ed inoltre depongono generalmente non più di due uova per stagione dell’accoppiamento. Delle quali, tra l’altro, se ne schiude una sola. A tal punto è dispendioso, per i genitori, il proposito di nutrire il singolo erede prediletto, trasportando le creature della giungla sempre più in alto e lontane, verso il pigolante, inesauribile divoratore.
Ma non è forse questo, dopo tutto, tipico del concetto stesso di monarchia? Essere solitari e splendidi, formidabili nelle migliori situazioni. Risentendo tuttavia per primi, di eventuali capovolgimenti situazionali o rivoluzioni. Abbiamo spesso definito il leone africano come re della giungla. Il che è piuttosto strano, a pensarci. In primo luogo, perché esso vive di preferenza nella savana. E poi perché, nonostante sia tanto dignitoso ed imponente, un felino risulta pur sempre imparentato con i nostri benevoli gatti di casa. Mentre un’aquila spietata, così…Anche lei dotata di una splendida criniera…E con la stessa propensione ad affidarsi alla femmina per fare fuori le sue prede… Magnifica, irraggiungibile. I punti di contatto ci sono. Le differenze, pure. Fare la scelta giusta non è facile. Ma richiede, di sicuro, buon gusto.