Come aprire un cocco alla maniera samoana

Samoa Coconut
Il fisico robusto, un fiore nei capelli, una collana di bacche rosse simili a peperoncini. Bracciali ricavati da foglie di palma, così stretti da sembrare in grado di bloccare la circolazione. E una corona vegetale sulla fronte che, se fosse una bandana, lo renderebbe affine a certi eroi del cinema o dei videogiochi, come Rambo, Solid Snake, Steven Seagal. E a quest’ultimo personaggio americano, attore e rinomato praticante dell’Aikido, in particolare, molti sembrano voler paragonare il capo Kap Te’o-Tafiti, figura cardine di uno dei più visitati tra i villaggi del Centro di Cultura Polinesiana sull’isola hawaiana di Oahu, una sorta di micro-Disneyland bagnata dalle acque dell’Oceano Pacifico. Che gli somiglia vagamente nei lineamenti, nel portamento e nel suo essere in qualche maniera un entertainer nato, benché il campo operativo nel suo caso sia decisamente più sereno, allegro e meno votato all’annientamento senza esclusione di colpi dei “cattivi”. A meno che tra questi non scegliamo di annoverare, per qualche ragione, il frutto ovoidale della Cocos nucifera, la drupa dalla scorza notevolmente solida, specie se molto giovane ed ancora verde, o tendente al marrone ed ormai secca nel suo involucro, benché ancora dolce ed attraente nella cavità centrale. Perché in quel caso, il nativo delle isole Samoa che ormai da molti anni si è trasferito presso questo rinomato resort hawaiano, non diventa altro che un temibile fenomeno della natura, un fulmine di guerra, un drago sputafuoco. Poiché tra i vari spettacoli imbastiti per visitatori del centro, che si suddivide in sei sezioni dedicate ad altrettante nazioni site tra le acque del pianeta, nessuno è amato dal pubblico, quanto quello relativo al recupero, all’apertura e alla consumazione di questo cibo fondamentale per la dieta dei nativi, da noi associato erroneamente a visioni improbabili da cartone animato, con scimmie che ne lanciano copiose quantità verso le ciurme dei pirati, di passaggio per disseppellire qualche antica cassa di rum.
E di metodi ce ne sono molti, ciò è da darsi per scontato. Tra cui il più celebre, probabilmente considerato dall’opinione comune come quello “tradizionale di queste parti” consiste nell’impalare letteralmente il prodotto della palma su di un palo appuntito piantato nel suolo, sfruttandone la capacità di penetrazione per far la prima breccia nella preziosa ma blindata capsula del nutrimento offertoci dalla natura. Non che un simile proposito sia particolarmente semplice, o alla portata di tutti. Non credo che sia un caso se, tra i molti reality show e varie competizioni televisive a tema tropicale, una simile mansione non sia praticamente mai affrontata in tale modo dagli occidentali non professionisti del ramo. Basterebbe in effetti un secondo di distrazione, per finire con la propria mano contro la punta di lancia, subendo conseguenze non difficili da immaginare. Inoltre, non tutti i cocchi hanno la forma di quello usato da Te’o-Tafiti nella sua dimostrazione, esistendone di ben più piccoli, o quasi perfettamente sferoidali. E centrare il palo con un simile implemento, cosa che sia chiaro, lui ed altri riescono a ben fare, sarebbe per noi come lanciare una freccetta all’altro capo del pub, con l’improbabile finalità di disossare un’oliva. Violata quindi la barriera esterna, e qui viene il bello, l’operatore consumato passa alla fase in cui la scorza esterna del frutto deve essere totalmente distaccata dalla polpa. Ed è particolarmente memorabile, allo sguardo, il metodo da lui selezionato a tale scopo: mordere, letteralmente, l’oggetto tondeggiante del suo interesse. Una, due, tre volte, con strappo fragoroso, e distruzione sostanziale di quello che l’albero aveva creato. Il capo mastica rumorosamente, poi guarda in camera: le fibre marroncine sembrano altrettante piume di gallina, tenute saldamente in bocca da una volpe che è riuscita a fare breccia nel pollaio. Quindi lui sorride, di nuovo ma in maniera vagamente minacciosa, e le risputa via, sollevando trionfante il frutto quasi pronto alla consumazione. Ma lo show non è ancora finito: c’è un ultima corteccia, da scardinare, la cancellata interna della cassaforte. Così il nostro eroe, finalmente, estrae l’imprescindibile machete, ma per usarlo in una maniera, dopo tutto, inaspettata. Egli non punta infatti il taglio della lama verso il cocco (“Così facendo, potreste finire per affettarlo da parte a parte, versando il liquido all’interno. È molto difficile riuscirci”) ma il dorso dell’arma, con la quale, incredibilmente, gli basta dare un singolo colpetto. A quel punto, meraviglia delle meraviglie, lo scrigno si apre in maniera tanto perfetta da sembrare quasi un effetto speciale. Giungendo al coronamento del suo discorso, il capo assume la sua posa conclusiva, con una metà del cocco prossima alla bocca, l’altra offerta generosamente verso l’obiettivo della telecamera. È impossibile, alla fine, non riuscire a percepire il suo naturale senso d’ospitalità!

Trinidad Coconut
In questa comparativa piuttosto illuminante, viene illustrata la differenza tra l’apertura del cocco delle Hawaii e quella praticata nella nazione caraibica di Trinidad e Tobago. Nel secondo caso, un venditore di strada si dimostra l’equivalente locale di Zorro, tagliando letteralmente a metà il frutto con un singolo colpo della sua splendente lama.

Il cocco è una di quelle piante, soltanto in parte addomesticate al contrario dei cereali, che nonostante questo ha accompagnato l’uomo nelle sue tribolazioni per innumerevoli secoli, fornendogli nutrimento, materiali da costruzione, abbigliamento. Quando i popoli polinesiani esploravano il mondo sulle loro agili e scattanti canoe, all’epoca in cui le teste dell’Isola di Pasqua erano ancora mobili e parlanti (si stima 3400 anni fa: il tempo…Delle leggende!) e non poteva mai mancare, tra le loro armi e bagagli, una scorta intera della sacra e fondamentale pianta. Facile da trasportare, facile da conservare. Un chiaro dono degli dei all’umanità. Ed è così, in un certo senso, che la pianta ebbe modo di raggiungere il suo massimo successo evolutivo: rendendosi utile, ancora prima che prolifica. Per essere la prediletta non più soltanto di qualche animale programmato per defecarne in giro i semi, parte della polpa della noce. Ma degli stessi dominatori del suo ambiente naturale, individui furbi, intelligenti, in grado di portarlo a miglia e miglia di distanza, oltre le onde di un mare agitato. Per poi, persino, giungere a piantarla spontaneamente. Si è spesso parlato della superiorità del metodo cosiddetto “con le buone” ed è in questo caso indubbio, evidente agli occhi di chiunque, che neppure un parassita alieno in grado di controllare umana, avrebbe potuto ottenere un trattamento migliore da noi, sfruttatori simbiotici e altrettanto propedeutici allo scopo. Finché prendendo in analisi la pianta 1.000, 2.000 anni dopo l’epoca fin qui citata, non si ebbe modo di notare che la pianta, benché geneticamente omogenea, si era suddivisa ormai in due razze o varietà: da una parte quella typica, della palma alta, in grado di produrre 40 noci l’anno del tipo più angoloso e meno saporito (i samoani li chiamano nui kafa) e dall’altro la pianta nana, generalmente coltivata in prossimità dei villaggi, che produce fino a 100 noci, ma più piccole e per questo meno ricche della polpa interna che una volta essiccata si trasforma in copra, l’unico ingrediente del fondamentale olio di cocco, oggi un fondamento dell’industria alimentare globale. Proprio per questo ormai, benché la palma nana sia considerata una forma più addomesticata della Cocos nucifera ed i suoi frutti abbiano un sapore migliore, tale varietà costituisce meno del 5% del prodotto coltivato su larga scala, per una logica di ottimizzazione dei profitti. Il che ci porta al problema successivo: considerato che gli alberi della typica sono alti fino a 30 metri, chi mai oserà recarsi fino alla loro sommità, per riportare giù la noce? Ma è ovvio, sempre lui: il capo Kap Te’o-Tafiti…

Chief Kap Te Vs Chimp
In questo vecchio segmento televisivo parte dello show americano Man Vs Beast, un Te’o-Tafiti ancora poco più che trent’enne sfidava uno scimpanzé a raggiungere la sommità della palma prima di lui. Una missione che si dimostrò impossibile, anche per una latente, ma comprensibile carenza d’interesse da parte dell’animale.

È interessante notare, come risulta comprensibile dai racconti di chi l’ha visitato e il sito stesso della compagnia, come nel Centro di Cultura Polinesiana di Oahu esista ormai una lunga tradizione, di spettacoli creati si a misura dei turisti, ma in qualche maniera notevolmente spontanei, proprio perché nati dalle naturali propensioni espressive dei popoli ivi rappresentati. Si tratta, dopo tutto, di una realtà di vecchia data, creata nel 1963 dalla chiesa dei Mormoni americani, con la finalità iniziale di raccogliere fondi per la loro cappella locale, che era andata distrutta a causa di un incendio. Con la sua formalizzazione, quindi, questo luogo diventò un importante luogo di lavoro per gli studenti della vicina università di Brigham Young, che ricevono agevolazioni sull’orario in funzione della loro necessità di frequentare il corso di laurea selezionato. Al termine del periodo di apprendistato, quindi, molti lasciano i finti gonnellini di palma e gli attrezzi di scena alle loro spalle, per non rivederli mai più. Ma qualcuno, trovata la sua carriera ideale, sceglie invece di restare qui.
Nel villaggio samoano, in particolare, sembrerebbe vigere una gerarchia bipartita di maestro ed allievo (un po’ come in Guerre Stellari) con un esperto intrattenitore di turisti che, giunto al coronamento della sua lunga carriera, inizia ad addestrare colui che dovrà sostituirlo verso l’epoca della pensione. Un’evento già capitato almeno una volta, come raccontano alcuni utenti di Reddit, quando il precedente capo “Sielu o qualcosa di simile” fu sostituito dalla presenza ormai celebre di Te’o-Tafiti. Mentre è già possibile ammirare, in alcuni video disponibili sul canale del Centro, l’agilità del giovane samoano che l’ha sostituito nell’ardua mansione di scalare le palme sotto l’occhio appassionato dei turisti, mentre lui imbastisce dei veri spettacoli di stand-up comedy alla maniera tipica statunitense, con tempi comici e una qualità delle battute che non sfigurerebbero nei migliori club di New York. Fino a quel punto è stato perfezionato il suo spettacolo. Ed è estremamente chiaro alla fine, che proprio questo è ciò che lui ama fare, più di qualsiasi altro mestiere al mondo. Sarebbe davvero difficile, a questo punto, decidere chi stia sfruttando la cultura di CHI…E in fondo, se c’è guadagno reciproco, si può parlare davvero di sfruttamento? Chiedetelo alla noce di cocco. La sua risposta, ritengo, potrebbe lasciare stupìta molto più di una persona.

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