Come un fiordo gigante lungo all’incirca 800 Km, incastrato tra le due penisole di Gyda e Jamal. Ma qui siamo a Settentrione, nel più profondo, gelido, remoto luogo riparato dalle tempeste più furenti dell’Atlantico: il favoleggiato Golfo dell’Ob’. Dove l’acqua senza fine del profondo mare si presenta in modo estremamente distintivo: un’unica solida, impenetrabile massa, di quella sostanza trasparente e liscia che deriva dal congelamento, la cui presenza, normalmente, è un chiaro sinonimo dell’insuperabile immobilità. Neppure la lingua più grande del mondo potrebbe districare un simile ghiacciolo senza fine, nonostante l’impegno dimostrato in tale compito supremo. Finendo piuttosto per restarci attaccata, come accaduto alla sua simile di proprietà di un ubriaco, che voleva assaggiare il palo della luce fuori dal pub. Bianco, bianco e ancora grigio chiaro. Se non altro, non si può affermare che gli manchi la continuità. Se non fosse per… Una macchia, di colore rosso, fragorosamente incuneatosi nel mezzo dell’impenetrabile barriera, nonostante l’apparenza di quello che sia possibile, ragionevole, in qualche maniera consigliabile all’umanità. È un aereo? Probabile. È Superman? Nient’affatto! Si tratta di nient’altro, ad un’analisi più approfondita, che dell’ultima e più singolare nave uscita dai cantieri della Aker Arctic, rinomata ditta finlandese operativa sotto vari nomi fin dal 1969, quando ad Helsinki venne approvato il progetto per convertire un bunker antiaereo nel secondo bacino di sperimentazione artica del mondo, costruito sul modello di una simile struttura a Leningrado. Una grande vasca per il ghiaccio, inizialmente utilizzata per progettare una petroliera per attraversamenti estremi della Esso International, la SS Manhattan, e che da allora, con l’appellativo di Wärtsilä Icebreaking Model Basin (WIMB) è stata impiegata come primo approccio sperimentale a diverse rivoluzioni tecniche nel modo di progettare alcuni dei mezzi di trasporto più fantastici del mondo.
Così, ecco qui la Baltika, prodotta su specifica richiesta del governo russo: una nave relativamente piccola con i suoi appena 76,5 metri di lunghezza, contro gli almeno 100-120 della tipica rompighiaccio moderna messa in campo dalle principali potenze economiche mondiali (e sembra quasi che il freddo, in qualche maniera, sottintenda alla capacità economica di contrastarlo). Questo perché, se pensate brevemente alla funzione pratica di simili vascelli, non potrete fare a meno di considerare all’apparenza inutile un progetto come questo: non è forse vero, potreste chiedervi, che lo scopo di scavare un sentiero nel ghiaccio è proprio quello di riaprire rotte commerciali, o permettere il passaggio di ponderose spedizioni scientifiche fin lì, nel vasto e vuoto nulla della nostra candida realtà? Ed allora, perché mai dovremmo affidarci, nel farlo, ad una nave che misura “appena” 20 metri da babordo a tribordo, aprendo un canale utilizzabile, sostanzialmente, soltanto da lei stessa… Di certo, deve esserci un segreto. Che per chi guarda il video soprastante, tale non sarà: tale piccola meraviglia della tecnica, infatti, dispone di un particolare sistema di propulsione, ed una conformazione dello scafo, che le permettono di muoversi liberamente a 360°, procedendo addirittura, ogni qualvolta lo ritenga necessario, in una direzione perpendicolare al suo orientamento. Il che significa, sostanzialmente, che il ghiaccio rotto dal suo passaggio ammonterà alla maggiore delle due misure fino a qui citate, ovvero quella da poppa a prua (trasformate per l’occasione nei “lati”) addirittura doppia rispetto alla larghezza, in quel caso l’unico fattore rilevante, delle più grandi e potenti navi rompighiaccio dei sette mari! Ed il tutto, con un consumo di carburante ed energia relativamente trascurabile, tranne nel fatidico momento di far forza e transitare oltre la morsa eterna del Grande Inverno. Una vera macchina magnifica, dunque, se mai ce n’è stata una adibita ad un tale còmpito specifico e particolare. Ma vediamo adesso, brevemente, quali sono le sue origini remote…
Non c’è nulla di insolito, ovviamente, nel fatto che le migliori soluzioni per navigare oltre i ghiacci artici siano sempre provenute dai paesi dove la temperatura estiva sale raramente sopra gli 0-5 gradi. Qualsiasi mente ingegneristica, per quanto fervida e preparata, non potrà mai mettersi in moto senza la necessità. Ed altrettanto facilmente, un simile bisogno può creare geni della sperimentazione, tra quelle comunità laddove, in linea di princìpio, non ve n’era neanche la più labile presenza. Avete mai notato il genio risolutivo e lo spiccato senso pratico degli intrattenitori russi famosi sul web? La loro apparente capacità di creare un carro armato coi rottami della macchina, oppure una radio funzionante a partire da due forni a microonde, un osso di balena, quattro graffette e una bottiglia di Vodka? Ecco, in un certo senso superficiale, si potrebbe dire che fu sempre così. O che per lo meno lo sia stato, a partire dal XII secolo, nell’esperienza umana ed imprenditoriale dei coraggiosi Pomor, i primi coloni disposti ad insediarsi sulle pescose e redditizie, quanto inospitali coste del Mar Bianco. Una vicenda in qualche maniera paragonabile a quella dei padri pellegrini americani, che famosamente trovarono la remota Costa Occidentale del Nord America, ma della quale, alquanto stranamente, non si parla quasi mai. Nonostante la vicinanza geografica sia molto superiore; beh, non è difficile comprendere perché. Né attinente al qui presente discorso. Costoro avevano, ad ogni modo, uno strumento estremamente notevole, che usavano per aprire il passaggio via mare tra l’uno e l’altro dei loro remoti villaggi: la koč. Un nave a vele con scafo di legno che potrebbe essere definita, senza particolari timori di smentita, come la più solida e funzionale appartenente alla sua classe e periodo storico, una vera meraviglia, concepita per varcare alcune delle acque più inospitali note all’umanità. Simili vascelli post-vichinghi, in grado di misurare normalmente tra i 10 e i 25 metri, vantavano una particolare cintura di rinforzo sulla linea di galleggiamento, talvolta realizzata in vero e proprio metallo, che le rendeva ragionevolmente impervie al rischio di stritolamento dovuto al riassestarsi della superficie ghiacciata dell’oceano. Ma soprattutto, possedevano una particolare forma arrotondata dello scafo, che poi è quella ancora oggi adottata dalle moderne rompighiaccio, concepita per farle sollevare sopra le barriere congelate incontrate sul loro cammino, contando sul proprio peso per sovrastarle e, possibilmente, mandarle in frantumi. Un capitano di koč, con i soli strumenti del suo intuito, della conoscenza delle stelle, di una bussola magnetica e di un segnavento, poteva facilmente raggiungere qualsiasi insediamento sulla periferia del Circolo Polare Artico, anche miglia e miglia di distanza.
Il suo unico limite? Le provviste a bordo. Una problematica destinata a ridursi, con il progressivo crescere delle proporzioni dei battelli rompighiaccio. Soltanto per essere sostituito, immancabilmente, dalla problematica del carburante. Che sarebbe tuttavia, anch’essa, prima o poi sparita…
È una chiara, inevitabile conseguenza del continuo aumentare delle dimensioni medie delle navi da trasporto. Attorno alla metà degli anni ’70, l’Unione Sovietica si rese conto che un’adeguato sfruttamento delle rotte commerciali oltre i suoi confini settentrionali avrebbe richiesto, di lì a poco, il varo di navi rompighiaccio più vaste, ed autonome, di quanto si fosse mai visto prima di allora. Si giunse così al varo dell’Arktika, secondo vascello con simili funzioni ad essere dotato di reattori all’uranio, sul modello della precedente Lenin, nave dotata di tre reattori da 90 MW ciascuno, denominazione OK-150, poi sostituiti dai più potenti OK-900. Mentre ciascuna delle sei navi Arktika esistenti ad oggi, prodotte da un periodo che si estende dal 1975 al 2007, presentano la stessa soluzione di due OK-900A, in grado di erogare in tandem ben 342 MW, sufficienti a far muovere le 23.000 tonnellate dell’imbarcazione ad una velocità di 20,6 nodi. Sempre purché, ovviamente, non sia doverosamente impegnata a rompere il ghiaccio, sia tagliandolo letteralmente con la propria massa, che sollevandosi al di sopra, per ricadervi con conseguenze di assoluto annientamento.
Ora, naturalmente la piccola Baltika che naviga trasversalemente non ha prestazioni comparabili a dei simili giganti: con i suoi tre motori diesel-elettrici Wärtsilä 9L26 accoppiati ad altrettanti propulsori azimutali (ruotabili e corazzati) che generano 2,5 MW per un peso e una velocità massima purtroppo non dichiarati, deve necessariamente accontentarsi di un’autonomia comparabile a quella di vascelli dalla stazza simile alla propria. Mentre le rompighiaccio nucleari, come loro naturale prerogativa, possono procedere per 8-9 anni con un solo “pieno” di carburante. Benché al termine dei quali, lo smaltimento del materiale radioattivo fatto ardere nelle loro fornaci sia notevolmente più complesso e dispendioso. Ma non è forse vero che alla fine, ciò che conta è il risultato? Soprattutto in un campo pratico, come quello delle navi che devono mantenere percorribili alcune delle rotte più remote, ed importanti, dell’intero panorama dei commerci internazionali. Ad ogni costo: con scafi asimmetrici e privi di estrusioni di alcun tipo, sinonimo di una navigazione tutt’altro che confortevole; sostituendo più volte le eliche disintegrate dall’urto con i ghiacci, a costo d’immersioni tutt’altro che invidiabili da parte dell’equipaggio; sfruttando la potenza del vapore prodotto dai loro stessi impianti di raffreddamento nucleare, fatto fuoriuscire dalle paratie frontali, come il fiato di un dragone senza tempo, mente ragionevole, né alcun tipo di riposo. Mentre nel frattempo, i piccoli granchi si fanno (più) furbi… E trovano una loro via traversa, pur sempre, in qualche maniera, funzionale alla missione di giornata.