Alle 5:45 del 23 maggio 1944, la zona rurale oltre la spiaggia di Anzio rimbombò del concerto apocalittico di 1.500 bocche da fuoco, che contemporaneamente iniziavano lo sbarramento contro le postazioni tedesche dei comandanti Kesselring e Mackensen. Erano passati ben cinque mesi da quando si era deciso per l’attacco anfibio, dopo innumerevoli tentativi fallimentari da parte degli Alleati di sfondare sull’imprendibile Linea Gotica degli Appenini. Con forze inglesi, americane e canadesi, che avendo sbarcato da 374 navi, approdavano nel tratto di mare tra Nettuno e Torre Astura, rinominato per l’occasione Peter Beach ed X-Ray Beach. Il loro obiettivo: catturare in breve tempo l’obiettivo strategico della città di Roma. Giungeva così al suo culmine l’operazione Shingle, concepita da Winston Churchill mentre si trovava degente a Marrakech per i sintomi residui di una polmonite. Fu un momento di svolta nella guerra, ma anche la prova generale di un qualcosa di ancor più grande. Già l’alto comando statunitense infatti, su più livelli della sua area strategica ed amministrativa, era intento a definire le basi di quello che sarebbe diventato di lì a poco il fatale, tragico D-Day. Ma i metodi di una volta, erano spariti da tempo. Già s’intuiva nell’aria quel punto chiave, all’epoca tutt’altro che prevedibile, per cui la complessiva potenza di fuoco di una nazione, ivi incluse le divisioni di fanteria, i carri armati, i cannoni e l’aviazione, poteva giungere a scaricare una tale quantità di munizioni sul nemico da renderne l’avanzata sostanzialmente impossibile. Ed in quel caso, a più riprese, così fu. Nella prima giornata di quel drammatico scontro, la Prima Divisione Corazzata dei “Vecchi Ironsides” giunse a perdere 955 uomini, il numero più alto di vittime subite nel corso di un tempo tanto breve nell’intera storia del secondo conflitto mondiale. Mentre i tedeschi combattevano strenuamente e, nonostante il numero minore di forze in campo (circa 140.000 soldati inclusi due battaglioni italiani, contro 150.000 uomini fortemente determinati) rispondevano al fuoco con enfasi ampiamente comprensibile. La loro forza, come già avvenuto in precedenti frangenti dello spietato conflitto, era la qualità di determinate soluzioni tecnologiche. Come scoprirono ben presto gli aspiranti liberatori della penisola, che furono a più riprese colpiti fin nelle più remote retrovie, da un tipo di cannone sostanzialmente ignoto ai loro comandanti: si trattava di un mostro da 218 tonnellate, con una canna lunga 21 metri, che poteva sparare fino a 64 Km di distanza. Il Krupp K5, un’arma talmente grande che poteva essere spostata soltanto mediante le ferrovie, e che prima di sparare richiedeva l’edificazione di una speciale piattaforma girevole, definita Vögele. Una volta portata in posizione, tuttavia, diventava sostanzialmente inavvicinabile. Simili strumenti bellici, purché mantenuti nascosti alle incursioni aeree, potevano scaricare un volume di fuoco sul nemico niente meno che terrificante: fino a 15 colpi l’ora. Si calcola che nel 1944, sui fronti in cui furono schierati anche soltanto un paio di simili implementi, la quantità delle vittime fatte dell’artiglieria in determinate divisioni si aggirasse attorno all’83% del totale. Le truppe alleate li avevano soprannominati Whistling Willie, per il rumore che facevano i loro proiettili da 255 Kg mentre piombavano con la furia di una grandine infernale. E ad Anzio, guarda caso, ce n’erano due, che dopo ogni operazione di lancio si ritiravano nei tunnel ferroviari circostanti alle zone della battaglia, risultando sostanzialmente invisibili al fuoco di risposta. I nomi erano Robert e Leopold, nel paese di costruzione, ma passarono alla storia con l’appellativo datogli dal loro nemico, ovvero rispettivamente, Anzio Annie ed Anzio Express. Questo perché ad oggi, le due armi in questione si trovano a Fort Lee negli Stati Uniti, all’interno del museo dell’esercito della Virginia, dove furono portati in tutta fretta al termine delle operazioni belliche in Italia. La ragione, riuscite ad immaginarla? Costruirne una versione che fosse ancor più pericolosa. Il primo vero cannone nucleare.
La battaglia di Anzio non fu il successo strategico che si era sperato. Dopo i molti mesi di combattimento, tutto quello che gli alleati riuscirono ad ottenere fu una situazione di stallo, mentre i combattimenti sulla Linea Gotica continuavano indisturbati e con gravi perdite da parte di entrambi gli schieramenti. La liberazione delle cartine d’Europa dalla ragnatela delle fortificazioni tedesche avrebbe dovuto attendere ancora qualche tempo. Tuttavia, nel frattempo, attraverso l’intero anno successivo, l’inasprimento del conflitto nel Pacifico avrebbe portato al progressivo disfacimento della macchina bellica giapponese, fino allo spietato cataclisma finale. Due intere città, cancellate dalla faccia della Terra, in nome del bisogno di dimostrare…Qualcosa. E i vecchi “nemici dei nostri nemici” che all’improvviso venivano riqualificati come un rischio per la sicurezza della collettività. Un pericolo, per usare la terminologia dell’epoca, che non poteva che definirsi profondamente rosso.
Si tende a considerare l’intera guerra fredda come un unico monolite, in cui gli addetti ai pulsanti, rintanati in colossali bunker sotterranei, non aspettavano altro che ricevere l’ordine di dare fuoco alle polveri, scatenando l’apocalisse completa dei viventi. Milioni di missili, con già scritto sopra il nome delle rispettive città e capitali… Ma la realtà è che una simile immediatezza distruttiva, in effetti non ci fu mai. E soprattutto non sarebbe stata possibile prima degli anni ’70 ed ’80, quando i progressi compiuti in campo missilistico, e la costruzione dei primi bombardieri strategici e sommergibili a lungo raggio, avrebbero permesso di costituire la famosa triade delle contromisure atomiche, che doveva permettere a ciascuna superpotenza di rispondere comunque al fuoco, non importa quanto fosse immediato ed inaspettato l’assalto nemico. Per tutta la prima decade successiva alla seconda guerra mondiale, l’ipotesi di un conflitto futuro con l’Unione Sovietica prendeva una strada totalmente diversa: si sarebbe trattato, concordavano gli esperti di entrambe le parti, di un assalto corazzato su Francoforte, condotto attraverso una particolare strettoia tra i monti al confine della Germania, il cosiddetto Varco di Fulda. Proprio in quel luogo tatticamente fondamentale, affermavano gli analisti, si sarebbe svolta l’equivalenza modernizzata dell’Offensiva delle Ardenne della fine del 1944, con una concentrazione di carri, cannoni ed uomini quale il mondo non aveva conosciuto prima di allora. Ciò che serviva, dunque, per assistere l’esercito incaricato di difendere il fronte, era l’arma campale più potente immaginabile. Uno strumento che potesse scaricare sugli avversari la versione tangibile dell’ira degli Dei: il che significava, sostanzialmente, soltanto una cosa. L’M65 Atomic Cannon, versione ricostruita di quella stessa temibile bocca da fuoco che un tempo era stata rivolta contro i fedeli sostenitori dello Zio Sam, ma connotata dalla presenza dal carico ancor più esiziale di una bomba atomica da 15 kilotoni, ovvero soltanto leggermente più grande di quella impiegata sulla città di Hiroshima nel 1945.
Il cannone atomico rappresentò una fase preliminare della guerra fredda, in cui la distanza di ingaggio degli ordigni nucleari non superava ancora le diverse decine di miglia. L’idea, a quei tempi, era di posizionare numerosi esemplari di quest’arma lungo i confini sensibili, con le truppe all’estero o affidandole agli alleati considerati fedeli. La loro dislocazione, naturalmente, era segreta, ma sappiamo che ne furono prodotti almeno una quarantina, al costo unitario di 800.000$ l’uno (dollari degli anni ’50, sia chiaro). La ragione di un simile investimento, e fiducia operativa, andavano ricercati in diversi aspetti della questione. Innanzi tutto, queste armi erano state significativamente migliorate rispetto alla versione tedesca, e disponevano di un sistema di spostamento favolosamente efficiente. Ciascun cannone aveva, in effetti, due motrici poste ai suoi lati, che potevano spostarlo lungo le strade convenzionali, purché avessero una carreggiata sufficientemente ampia. Inoltre, l’indipendenza funzionale dei veicoli in questione, che potevano sterzare indipendentemente, gli garantiva un’agilità simile a quella di un camion dei pompieri, benché su scala estremamente maggiorata. Prima dell’esistenza dei silos missilistici impossibili da individuare, la nuova guerra atomica sembrava aver assunto una forma ipotetica notevolmente diversa: un conflitto di posizionamento preventivo, con la versione internazionale di quello che Q. Tarantino avrebbe definito un “conflitto alla messicana”. E poiché naturalmente, la sola teoria non bastava ad incutere un timore sufficiente nel cuore dei propri avversari, gli americani si premurarono anche di mettere alla prova la nuova arma, in un celebre test che si svolse il 25 maggio del 1953 in Nevada, di fronte al capo dello stato maggiore congiunto Arthur W. Radford e al segretario della difesa Charles Erwin Wilson. La prova fu definita un successo e diventò la base per numerosi video di propaganda, tra cui quelli riportati fino a questo specifico capoverso.
Ma l’artiglieria di questo tipo, per quanto si fosse cauti, aveva naturalmente un’imponenza estremamente significativa, che avrebbe permesso al nemico d’individuarla, prima o poi. Gli americani decisero quindi, con la stessa finalità di difendere il Varco di Fulda, di dotare le loro truppe della più piccola bomba atomica concepibile, una grossa granata sostanzialmente, che una singola squadra poteva mantenere nascosto dagli occhi di un’ipotetica ricognizione aerea, sfoderandola improvvisamente nel momento della verità. Stiamo parlando, e forse qualcuno l’avrà già capito tra i videogiocatori, del cannone M-28 Davy Crockett, l’arma al centro della vicenda spionistica di Metal Gear Solid 3: Snake Eater, forse la più influente creazione narrativo-interattiva della prima metà degli anni 2000. Un cannone privo di rinculo (come il celeberrimo bazooka) in cui la detonazione del propellente avrebbe scagliato una bomba da 34 Kg alla distanza di 4 Km, previa una fase preparativa di appena qualche minuto. Più che di artiglieria, dunque, si trattava di un vero e proprio pugnale, che un gruppo ridotto di uomini avrebbe potuto tenere puntato alla gola del nemico, restando pronto a colpire in caso di necessità. La potenza, naturalmente, era relativamente ridotta: meno di un singolo kilotone. Ma l’effetto di una simile esplosione all’interno di un esercito in fase di schieramento, non importa quanto corazzato, avrebbe avuto conseguenze niente meno che devastanti. C’era, tuttavia, un singolo ed “insignificante” problema: la distanza a cui il Davy Crockett scagliava la sua granata era purtroppo inferiore a quella di sicurezza. E i suoi utilizzatori, a seguito del lancio, sarebbero stati inevitabilmente irradiati dall’ordigno, a rischio immediato della loro stessa vita. L’arma fu testata a più riprese tra il 1962 ed il 1968, nel Nevada ed in alcune isole sperdute dell’arcipelago delle Hawaii. Alla fine l’alto comando, giudicandola in qualche maniera utile, ne fece produrre 2.100 esemplari, da inviare nei principali paesi oppositori del Patto di Varsavia. Elenco tra cui figurava, ovviamente, l’Italia.
Il mondo, dunque, era pronto. Prima ancora di essere pronto. Gli Stati Uniti, dopo la clamorosa dimostrazione di forza effettuata nella devastazione delle due città giapponesi (un sacrificio…Giustificato? Qualcuno avrebbe mai OSATO giustificarlo?) iniziavano a dubitare della propria posizione di invincibilità. Nel frattempo l’Unione Sovietica, a partire dal 1949, aveva iniziato il suo più lungo e riuscito programma di test nucleari, acquisendo pubblicamente, anch’essa, il Potere del Pulsante Finale. Armi come l’M65 o l’artiglieria portatile M-28, di lì a poco si sarebbero dimostrate inutili e desuete. Ma furono prodotte ancora per anni, a causa del loro valore psicologico e di prestigio. Uno spreco colossale di risorse e d’ingegno, secondo molti. Eppure, un momento importante nella storia della politica internazionale. Nel quale il mondo si rese conto che, se il campo di battaglia futuro sarebbe stato deciso da chi “poteva produrre più bombe” tanto valeva mettersi a produrre qualcosa d’altro. Ed iniziare un lungo processo d’integrazione economica, che un giorno avrebbe condotto fino alla globalizzazione. Andando incontro a problemi di ben altro tipo, ma quella, si sa, è tutta un’altra storia….