Varato in Oregon il drone più imponente della storia

Drone Ship

Lo splendido ponte del Tilikum Crossing, costruito giusto l’anno scorso sul fiume Williamette a Portland, principale città portuale del Pacific Northwest, appare stranamente deserto, mentre dinnanzi alla sua slanciata struttura si dipana uno spettacolo del tutto senza precedenti. Nello spazio ridotto di queste acque, tutto sommato non così inquinate, sfreccia infatti un misterioso trimarano lungo 40 metri, sottile e acuminato come un freccia che sia stata costruita in puro acciaio. L’imbarcazione sembra intenta ad effettuare delle manovre dall’alto grado di spettacolarità, affini a quelle portate avanti nella tipica esercitazione di marina militare. Sul suo minuscolo ponte di comando, campeggiano le figure in tuta rossa di due addetti alla supervisione, che tutto sembrano intenti a fare, tranne gestire le cose da quello che potrebbe definirsi un timone. Appare in effetti chiaro che se costoro non dovessero esser lì, le possenti eliche non avrebbero ragione di fermarsi. Girerebbero, anzi, addirittura più velocemente.
140 tonnellate ma non può volare. E perché mai dovrebbe? Drone è un termine che ha attraversato diversi slittamenti semantici nella lingua inglese, come per analogia, in tutte quelle che lo hanno preso in prestito negli ultimi anni. Riferito originariamente al maschio dell’ape, il cui ronzio, così affermavano, ricordava in qualche maniera quello dei primi aeromobili a controllo remoto, si è ritrovato associato originariamente al solo ambito militare. Verso la metà degli anni 2000, nel momento in cui la parola ha iniziato a comparire sui titoli dei giornali, costituiva sostanzialmente un sinonimo del velivolo americano MQ-1 Predator B, il primo aereo privo di un pilota ma dotato di armi a bordo. Quelle due sillabe, dunque, suggerivano un’idea d’inumana crudeltà e precisione, bombardamenti chirurgici portati avanti da un centro di comando a terra, mentre gli operatori, protagonisti di un videogame dalle tremende implicazioni, diventavano progressivamente sempre più insensibili alle sofferenze dei loro bersagli designati. Tranne quelli tra di loro, protagonisti di diversi articoli allarmisti, che cadevano preda di un nuovo tipo di PTSD (Stress Post Traumatico) tale da condizionare ogni momento della loro vita, dal primo giorno di ritorno nel mondo civile. Negli ultimi tempi invece, con la proliferazione degli elicotteri radiocomandati a tre, quattro o sei rotori, la parola ha finito per ritrovarsi attribuita sopratutto a simili dispositivi, usati nella videosorveglianza o per divertimento, acquisendo un suono per la prima volta relativamente rassicurante. Ma c’è una terza accezione di questo termine, che viene spesso tralasciata: nella letteratura fantascientifica classica, vedi ad esempio gli scritti di Doc EE Smith con la sua serie Lensmen (1948-54, riconosciuta anticipazione di quelli che sarebbero diventati Star Wars e Trek) si parlava occasionalmente di astronavi o aeromobili automatizzati. La loro caratteristica principale era di essere, come per l’appunto insetti di un alveare, perfettamente sacrificabili a un qualsiasi scopo. Il loro non avere un equipaggio a bordo, inoltre, implicava un certo grado di autonomia. Questo terzo tipo di drone, in effetti, non sarebbe stato in alcun modo telecomandato. Ma piuttosto affine, in tutto tranne che l’aspetto antropomorfo, al concetto prototipico di un vero e proprio robot.
Veramente assurdo… Si potrebbe essere tentati di esclamare! Immaginate il rischio rappresentato da un mezzo bellico come il Predator, in grado di scaricare l’inferno su un convoglio in movimento, improvvisamente reso in grado di scegliere i suoi bersagli in totale autonomia! L’ipotesi di un momentaneo malfunzionamento delle sue sinapsi appare niente meno che terrificante. Un drone completamente autonomo dovrebbe essere, dunque, privo di capacità di aggressione. Eppure utile, per definizione, a un qualche tipo di scopo militare. Come quello, sempre più importante, di scovare i sommergibili lungo le coste dei paesi d’Occidente. Ed è proprio questo che dovrebbe fare, secondo il progetto alla base della sua messa in opera, la nuova creazione della compagnia per la difesa Leidos (una filiale della SAIC) prodotta grazie al patrocinio ed i finanziamenti della solita DARPA, la celebre agenzia statunitense dedita all’applicazione delle nuove tecnologie nel campo della guerra contemporanea. Immaginate: una nave in grado di restare per tre mesi in mare, senza cibo, senza acqua, senza nessun tipo di rifornimenti. Praticamente, come il veliero fantasma dell’Olandese Volante, nefasto presagio delle leggende di marina nordeuropee. Molto rassicurante, nevvero?

ACTUV Launch
Immaginatevi la forma del vascello dopo la rimozione della cabina di comando, evidentemente costruita in modo separato dalla struttura principale…È innegabile che l’ACTUV assuma a quel punto un aspetto decisamente minaccioso, e in qualche modo simile agli oggetti stessi della sua attenzione.

La “Nave Drone della DARPA” come è stata immediatamente ribattezzata dalla stampa internazionale (l’assonanza vende i grandi numeri, lo si sa bene) è in realtà nient’altro che la manifestazione lungamente attesa di questo progetto definito ACTUV – Anti [Sub Warfare] Continuous Trail Unmanned Vessel, ufficialmente lanciato nel 2010 e che soltanto ora, dopo numerosi rimandi e qualche brusco cambio d’obiettivo, dovrà finalmente raggiungere il giorno del suo varo in mare aperto per dopodomani, il 7 aprile. Il tipo di ragionamento alla base della sua creazione risulta essere, in realtà, estremamente condivisibile. Postulato: i paesi dei potenziali nemici futuri degli Stati Uniti stanno notoriamente impiegando, negli ultimi anni, flotte piuttosto nutrite di piccoli sommergibili con propulsione diesel-elettrica, dalle prestazioni e l’autonomia decisamente inferiori a quelle della loro controparte dotata di reattore nucleare. Simili vascelli sono tuttavia relativamente economici, facili da costruire e soprattutto, naturalmente silenziosi. Un ipotetico futuro attacco portato avanti con un alto numero di simili mezzi sarebbe dunque estremamente difficile da contrastare. A meno di disporre, e qui entra in gioco il piano della DARPA, di un sistema di contromisure schierabile lungo le coste, che possa individuarli con facilità, seguirli e renderli possibili bersagli per sistemi d’arma pronti ad intervenire 24 ore su 24. Ma che soprattutto, costi ancora meno da produrre. Si tratta un principio che viene convenzionalmente definito della “guerra d’efficienza”: nella situazione odierna di molti conflitti potenziali ma nessuno di quelli su larga scala, per fortuna, prossimo allo scoppio vero e proprio (almeno, per quanto ci è dato di sapere) le nazioni scelgono di combattersi nell’ambito di quello che potrebbero fare, per così dire, in teoria. Il valore di un progetto come l’ACTUV, a questo punto, diventa chiaro. La sorveglianza è un proposito notoriamente avverso alla natura umana, che tende a ricercare situazioni variabili o in qualche maniera interessanti. Liberare dunque le risorse in carne ed ossa da una simile mansione, non soltanto diventa economicamente conveniente, ma potrebbe fornire addirittura un servizio migliore.
Ma siamo sicuri, in effetti, che l’unico componente di un simile meccanismo strategico possa essere la Nave Drone? Di sicuro, c’è dell’altro…

Triton Drone
Il drone MQ-4C Triton è la versione ad uso oceanico del Global Hawk UAS. Fatto decollare per la prima volta nel 2013, vanta un’apertura alare di 39,9 metri, comparabile a quella di un aereo di linea Boeing 757. L’aeromobile può operare senza fare ritorno alla base per un periodo di 24 ore.

L’impiego teorico futuro della nave della DARPA dovrà in effetti essere effettuato in tandem con quello di sistemi d’aviazione, in particolare del  Boeing P-8 Poseidon, un tipo di 737 riconvertito per l’impiego nella guerra d’informazioni sottomarina, e dell’MQ-4C Triton, quello che costituisce probabilmente il più grande drone VOLANTE attualmente impiegato dall’esercito degli Stati Uniti. Entrambi aeromobili in grado di portare sul bersaglio delle boe sonar sganciabili dal cielo, nelle cosiddette AOU (Areas of Uncertainty) ovvero zone in cui sia sospettata la presenza di un sommergibile nemico. Una volta rilevato il bersaglio, quindi, la nave ACTUV procederà ad intercettarlo, puntando su di lui il doppio sistema sonar ad alta frequenza presente nella parte inferiore del suo scafo, tenendolo quindi illuminato per tutto il tempo desiderato. Il trimarano costruito dalla Leidos è infatti stato appositamente concepito per avere una velocità ed un’autonomia considerevoli, soprattutto superiori a quelle di qualsiasi sub elettro-diesel sulla piazza. L’imbarcazione potrebbe dunque, addirittura, seguirlo fino al porto di partenza. Benché una tale soluzione non appaia particolarmente conveniente per nessuna delle parti coinvolte.
Affinché un simile meccanismo potesse essere implementato a 360°, naturalmente, gli ostacoli da superare non sono stati pochi. In modo particolare, era necessario che la ACTUV potesse operare in completa autonomia osservando le norme della navigazione internazionale, dimostrandosi per di più in grado di evitare gli urti anche in situazioni impreviste. A sostegno del progetto, dunque, è stato sviluppato un sistema di intelligenza artificiale in qualche modo comparabile a quello delle famose automobili di Google, che di qui a qualche anno potrebbero teoricamente provvedere a rendere infinitamente più sicure (ed inquietanti) le nostre tentacolari strade cittadine. L’approccio è stato quindi messo alla prova durante una fase di navigazione sperimentale nel corso dello scorso anno, presso il complesso sistema della Gulf Intracoastal Waterway, la regione di canali che si sviluppa tra la costa del Texas e il resto del Golfo del Messico. Con in più, un’aggiunta significativa: la capacità d’intavolare strategie d’inseguimento e contromosse alle manovre del nemico. Quest’ultimo aspetto, affrontato grazie ad una soluzione assai particolare:

ACTUV Game
Videogiochi al servizio della guerra vera…O meglio, in attesa di essa. Dove ho già sentito questa storia?

A partire da qualche anno, infatti, la DARPA sta distribuendo dal suo sito ufficiale una versione modificata del videogioco del 2006 Dangerous Waters sviluppato in origine dalla Sonalysts ed ancora acquistabile su Steam, tutt’ora la simulazione marittima di pubblico dominio più realistica sulla piazza. All’interno della quale, nel presente caso, i giocatori venivano chiamati a pilotare “a distanza” una versione di fantasia della nave ACTUV, nel tentativo di intercettare dei sommergibili nemici. Il gioco permette inoltre di competere in alcune classifiche online (tutt’ora funzionanti) ed al termine di ciascuna sessione, chiede ai suoi partecipanti il permesso di inviare a casa una registrazione dell’intera partita. In tale modo, l’agenzia statunitense intendeva costituire un catalogo informatizzato delle scelte tattiche che volta per volta, riuscivano o fallivano nella localizzazione del nemico. L’effettiva riuscita o meno dell’operazione resta, naturalmente, del tutto classificata. Ma si trattava certamente di un approccio interessante e, per quanto ne so, del tutto privo di precedenti.
Anche questo, dopo tutto, è il futuro: una guerra non più combattuta dalle persone, bensì tra i reciproci strumenti digitali ed automatizzati. Per un domani in cui l’unico ruolo dell’umanità, oltre a premere il pulsante della dannazione, sarà attendere il boato delle bombe, sempre più orribile e vicino. Sognando un’epoca, irrimediabilmente lontana e per lo più dimenticata, in cui i conflitti tra nazioni potevano risolversi grazie alla sfida tra campioni, senza coinvolgere la popolazione incolpevole, nonché priva di reali velleità belliche. Come nel caso della sfida tra i leggendari Orazi e Curiazi, rispettivamente i difensori dell’antica Roma e di Albalonga… Magari, ai nostri tempi di eSports ed MLG, si potrebbe scegliere di usare Counter-Strike?

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