L’artigianato proveniente dal Giappone ha sempre avuto questa patina di particolare splendore o meraviglia, che in qualche maniera trascende quello degli altri paesi. Quasi che la migliore opera creativa degli abitanti di quei luoghi avesse preferito esprimersi, attraverso le generazioni, non soltanto attraverso singole ed irripetibili opere o espressioni di un sentire estremamente personale, ma anche per il tramite di tecniche e metodi che, proprio in funzione del loro essere attentamente codificati, potevano permettere di eccellere a chiunque. Naturalmente, dietro un lungo periodo di studio ed apprendistato. Ed è tutto un po’ così, a pensarci: la calligrafia, la produzione di ceramiche, i tessuti riccamente decorati, la tecnica metallurgica per fabbricare la katana… Il sapere del vecchio maestro, che viene eternamente tramandato. E le nuove generazioni che, smartphone, tablet e computer alla mano, nonostante tutto guardano con diffidenza verso qualsivoglia innovazione di quello che capita all’interno del laboratorio; essenzialmente, un tempio. Sacro agli uomini del mondo. Infuso della scienza mistica di chi è venuto prima. Luogo come questa incredibile officina di Kanazawa, nella prefettura di Ishikawa, dove viene messo in pratica un antico metodo, fondamentale per l’economia della regione. State per assistere alla produzione della foglia d’oro, un materiale dalle proprietà straordinarie, noto in Oriente ed Occidente fin dall’Epoca del Bronzo. Ma che probabilmente non aveva mai raggiunto, nella storia, un simile livello di eccellenza!
Di sicuro lo conoscerete. Magari non per nome. Ma chi non ha mai visto le tipiche cornici decorate o determinati arredi sacri nelle chiese del Barocco, o ancora mobili antichi, insegne, vetrine… Si tratta, dopo tutto, del più semplice ed al contempo immediato metodo per dare il colore del metallo giallo alle cose. Quella particolare tonalità e le caratteristiche di rifrazione della luce, che per associazione ispirano un senso estremo di lusso, ricchezza e prestigio, indipendentemente dal contesto di utilizzo. In molti sono coscienti dell’approccio usato per infonderlo, che consiste nell’avvolgere la cosa oggetto del processo dentro innumerevoli fogli splendenti, ciascuno fatto attaccare mediante colla o talvolta, semplice argilla o albume d’uovo. Potreste, tuttavia, non aver mai assistito all’origine di un tale effetto. Che non dovrebbe essere, persino ai nostri tempi, frutto di una semplice vernice o di un processo chimico. Costituendo secondo la tradizione, piuttosto l’applicazione diretta di quello stesso elemento che dovrà suggerire nell’osservatore, attraverso una serie di speciali trattamenti. Proprio così: la foglia in questione non è altro, alla fine, che oro vero, generalmente a 22 carati. Battuto e ribattuto, fino all’ottenimento di una consistenza simile alla carta velina, e poi di nuovo, sempre di più, finché da un singolo lingotto da 1 Kg (appena 11x5x9 mm) si giunga a 7 metri di materiale, per un solo micron di spessore. Tanto leggero che possa sollevarsi con un soffio. A tal punto che la luce lo attraversa con facilità. Così tanto è duttile e malleabile il signore di tutti i metalli, da tempo immemore considerato alla stregua di un’imprescindibile divinità.
Il che non vuol dire che la foglia d’oro sia prodotta sempre nello stesso modo. Ci sono, essenzialmente, due aspetti che connotano la produzione: la miscela di materiali che vengono impiegati nella produzione dei lingotti, e ciò che dovrà separare i pezzi durante la fase chiave della battitura. Entrambi aspetti, sia chiaro, egualmente importanti per determinare la qualità del materiale risultante. A Kanazawa, tradizionalmente, il prodotto è la risultanza dell’unione di tre metalli, ovviamente l’oro (in massima parte, si parla di un buon 90%) argento e rame. Ma il vero ingrediente segreto in mano agli artigiani locali, che fu custodito gelosamente fin dal periodo di Azuchi-Momoyama (1573–1603) è…La carta.
Prima di battere l’oro per l’ultima volta, infatti, questo dovrà essere inserito all’interno di un apposito libretto, che in Occidente viene tradizionalmente fabbricato in pergamene ricavate dall’intestino del bue. Pare infatti che soltanto questo materiale avesse la resistenza e la flessibilità necessarie a sostenere e coadiuvare il trattamento, garantendo la creazione di una foglia che fosse adeguatamente sottile ed uniforme. In Giappone, come spesso capita, la situazione è più complessa. In questo paese in cui alla lavorazione della pelle d’animali fu sempre preferito l’impiego di sostanze provenienti dal mondo vegetale, la carta più pregiata è infatti da sempre quella della tipologia washi, ricavata dalle fibre dell’albero di gelso. Ma per rendere un tale materiale idoneo alla battitura, si rendeva necessario un trattamento successivo, mirato a renderla più resistente e lucida, quasi oleosa. Il processo consisteva nell’immersione prolungata dei singoli fogli all’interno di una miscela, costituita da liscivia (acqua bollente e cenere) assieme ad un’estratto della linfa del gelso. Tale prassi veniva messa in pratica dallo stesso artigiano metallurgico specializzato, da noi chiamato battiloro.
Una volta prodotta la carta e proceduto alla rilegatura, quindi, le singole sezioni pressoché rettangolari del metallo vengono messe nel libretto, inframezzate tra le pagine. Quindi si procede alla battitura, oggi effettuata tramite maglio elettrico ma un tempo manuale, per un tempo sufficientemente lungo ad ottenere l’appiattimento desiderato. Alla fine, estratti i singoli fogli, questi vengono deposti su di un piano di lavoro mobile, e distesi con un singolo soffio. La rifilatura ad una forma appropriatamente quadrata è ricavata con uno strumento definito carro, che consiste di una taglierina in legno di bambù. Qui da noi, invece, si usa tradizionalmente il rattan.
Si narra che la produzione della foglia d’oro fosse già nota nel Giappone classico, essendo stata importata dalla Cina e dalla Corea (si parla almeno dell’800 d.C.) Fu tuttavia il gusto personale di un singolo uomo, ed il potere estremamente considerevole che egli aveva acquisito nel paese, a renderla un tesoro tangibile della nazione. Toyotomi Hideyoshi, uno dei più famosi samurai della storia, aveva ottenuto nel 1585 il titolo di kampaku, reggente e consigliere personale dell’Imperatore, in forza dei numerosi successi militari e gli importanti servizi resi ad Oda Nobunaga (1534-1582) il grande signore della guerra che era morto soltanto due anni prima, dopo aver portato a termine una parziale unificazione dell’arcipelago giapponese. Egli fu un personaggio dall’estrema perizia strategica nonché piuttosto eccentrico nella vita personale, tanto che ancora oggi, anche in funzione di un aspetto che si dice non fosse bellissimo, viene spesso associato ad una scimmia. Non che la memoria storica del Giappone sia stata particolarmente generosa, con lui ed ancor meno con l’insigne predecessore, che risulta ad oggi uno degli antagonisti preferiti nei manga o romanzi ambientati in quel particolare periodo storico, spesso intessuti di elementi mitici o anacronistiche leggende. Un fatto certo, tuttavia, è che Hideyoshi avesse una passione folle per il color dell’oro, che fece impiegare con trasporto nelle sue insegne, nell’abbigliamento, nelle armature e persino in architettura. Si narra che possedesse addirittura una sala da tè smontabile, che si portava dietro nelle sue campagne militari. La struttura, costruita con l’assistenza personale del grande maestro delle cerimonie e monaco buddhista Sen no Rikyū, era stata completamente ricoperta in foglia d’oro, nella parte interna ed esterna, e veniva accompagnata da un’intero servizio di utensili e teiere, anch’essi rigorosamente splendidi e preziosi. Che poi, verrebbe anche da chiedersi a tal proposito, con che spirito il singolo più celebre sostenitore della sobrietà e finezza dello Zen, come per l’appunto fu il consulente usato in quel caso dal guerriero e generale, avesse potuto produrre una cosa tanto appariscente e infusa di spirito di tracotanza. Con quale (potenziale) scopo satirico verso la figura dello stesso dittatore…
Hideyoshi aveva, ad ogni modo, numerosi validi sostenitori. Tra cui un samurai particolarmente devoto al mondo delle arti, Maeda Toshiie (1538 – 1599) che secondo registrazioni non ufficiali veniva chiamato dal defunto Nobunaga, Inu – il cane. Il che creava un contrasto interessante, perché nell’iconografia locale la scimmia, saru, ciarliera e indaffarata, è naturale nemica del cane, disciplinato e silenzioso. Mentre fin dalla giovane età Hideyoshi e Toshiie furono grandi amici, al punto da assistersi vicendevolmente nel corso d’innumerevoli battaglie. Finché nel 1593, nella storica battaglia di Shizugatake, i sostenitori di Hideyoshi non prevalsero su quelli del figlio di Nobunaga, successivamente al tradimento e all’assassinio di quest’ultimo da parte di un altro samurai, Akechi Mitsuhide. Vittoria che rimise in marcia la conquista del paese, e portò a Toshiie, tra le altre cose, il controllo del feudo di Noto, una penisola sita nella parte nord dell’odierna prefettura di Ishikawa. Qui egli costruì un castello, attorno al quale sorse una città. La quale sarebbe diventata, con il tempo, Kanazawa. La capitale nazionale della foglia d’oro giapponese, tanto che secondo una leggenda particolarmente insolita, l’oro di questi luoghi un tempo si diffondesse spinto dal vento, fin dalle paludi e dentro i campi di patate. Con un certo contadino, detto Imohori Togoro, che era solito lavare il raccolto gettando lo splendente metallo, da lui ritenuto inutile, all’interno di un pozzo locale.
Oggi a Kanazawa viene prodotto circa il 99% della foglia d’oro del Giappone, al punto che convenzionalmente riferendosi al concetto di Kanazawa-Haku (in questo caso haku significa “prodotto”) tutti sanno che si sta parlando di oggetti trattati con lo specifico metodo fin qui mostrato. Ce ne sono di ogni tipo, sia associati all’arte sacra, con altari buddhisti, statue, oggetti rituali…Che profana, vedi recipienti, suppellettili, penne stilografiche. Esiste persino una tecnica valida ad intessere la foglia nelle obi, le cinte dei kimono, al fine di creare un effetto visuale senza pari. Mentre l’impiego del materiale in architettura, persino per gli esterni, è tutt’altro che inaudito: la stessa ultima residenza di Toyotomi Hideyoshi, l’imprendibile e titanico castello di Osaka, vantava numerose decorazioni splendenti sul suo donjon (l’edificio principale) simili a titanici florilegi, concepite per impressionare i suoi innumerevoli nemici.
Non che questo avrebbe aiutato granché Hideyori, il figlio ancora adolescente, che dopo il suo decesso e l’apocalittica battaglia di Sekigahara (1600 d.C.) si ritrovò l’unico oppositore dell’astro nascente della nuova epoca, lo spietato ed invincibile Ieyasu del clan Tokugawa. Questa era dopo tutto, la legge dell’epoca feudale, in cui la forza bastava per creare la ragione. Ma sempre al cospetto di un concetto di bellezza ed armonia che rimaneva in alto, straordinariamente superiore alle tribolazioni dell’umanità. Forse anche per questo, gli antichi emblemi della scimmia che amava l’oro non furono mai rimossi dal torrione del castello. E ancora oggi splendono, sotto la luce del Sole nascente, per il piacere e tra l’ammirazione della collettività.