Attorno alla fine del XIX secolo, gli alchimisti della città tedesca di Sonneberg nella Turingia meridionale compiono un significativo passo avanti nel processo per giungere alla creazione del perfetto essere umano artificiale. Messi temporaneamente da parte il salnitro, l’acqua regia, il rubedo, le gonadi di serpe e l’uovo di gallina, essi sperimentano l’effetto avuto da una risorsa molto più mondana, la colla, su un’impasto di segatura e canfora, giungendo alla creazione di quella sostanza che avrebbe preso il nome di nitrocellulosa. Un’impasto malleabile a caldo, che una volta lasciato raffreddare assumeva una forma solida e flessibile, perfetta per assumere la forma in uno stampo predeterminato. Era questa, sostanzialmente, la plastica ante-litteram, uno strumento dell’industria senza pari. In breve tempo molti magnati dell’industria locale, tra cui i proprietari della nascente fabbrica Schoenau & Hoffmeister, destinata a diventare il principale produttore di esseri umani in miniatura dell’epoca immediatamente successiva, scoprono la notevole somiglianza di quella particolare superficie, consistenza e colorazione, con la fin troppo familiare pelle umana. Il resto, come ben sanno i collezionisti di simili gingilli per fanciulle d’altri tempi, è storia (dei giocattoli). Nel giro di pochi anni, le precedenti figurine antropomorfe di piccole signore realizzate in bisquit, un tipo di ceramica priva di vetrinatura per risultare più realistica, vengono integralmente sostituite dalla nuova tipologia, molto più resistente all’usura, credibile ma sopratutto; meno costosa da produrre. La bambole, per come erano state conosciute fino a quel momento, erano essenzialmente morte. Lunga vita alle bambole risorte!
La formula segreta per la loro creazione, da quel momento, circola per il mondo in lungo e in largo, fatta fluttuare sulle ali sempre redditizie dell’onnipresente spionaggio industriale. Le fabbriche di mezza Europa copiano quel particolare approccio, che in lingua inglese ha nome composition, impiegandolo per realizzare una fortuna comparabile a quella dei suoi primi scopritori commerciali. Scoppia la guerra. Due intere generazioni, tra la prima e la seconda iterazione del più grande conflitto che abbia mai coinvolto i cinque continenti, perdono la vita nella corsa folle verso il predominio di questa o quella ideologia. Ma mentre imperversa il principio, tipicamente maschile, della forza che conduce al predominio, nelle case semi-vuote, tra tende merlettate e pinzillacchere di vario tipo, le bambine vivono la propria vita, per quanto possibile, nel regno puro della fantasia. Passata quindi la tempesta, raccolti i pezzi della civiltà dilapidata, i molti progressi tecnici compiuti per assistere le truppe al fronte trovano migliori applicazioni. E tra queste, naturalmente, c’è il polistirene, prodotto commercialmente per la prima volta dalla tedesca BASF negli anni ’30, per non parlare delle resine fenoliche, lanciate internazionalmente dall’americana Durite Plastics Inc, proprio nel mezzo di quell’epoca di cambiamenti. Nel frattempo, gli inglesi avevano il polietilene, letterale sinonimo funzionale delle Imperial Chemical Industries (ICI – 1933) mentre in Italia, la prima plastica nazionale sarebbe giunta soltanto nel ’54, grazie all’opera di ricerca sui sui polipropileni di Giulio Natta, chimico e premio Nobel. E fu chiaro fin da subito, che un tale approccio alla produzione industriale avrebbe rivoluzionato ogni cosa, dalla conservazione dei cibi ai trasporti, dall’abbigliamento alla scienza medica. Incluse, ovviamente, le (ancora) silenziose paladine del “giochiamo a fare mamma & papà”. Verso la fine degli anni ’50, la nitrocellulosa era ormai considerato un materiale sostanzialmente inferiore, sopratutto per la sua naturale tendenza a sbiadire sotto il sole, per non parlare della facilità con cui tendeva a prendere fuoco. Era un mondo totalmente nuovo, quello, in cui le bambole divennero di plastica. Come del resto, quasi ogni altra cosa.
In questo segmento a colori della British Paté, uno degli archivi video storici più vasti consultabili liberamente online, viene mostrata la realtà operativa di una fabbrica inglese di quell’epoca, sita presso Battersea, nella periferia sud di Londra. La tipica voce impostata dei commentatori coévi, assieme a una colonna sonora allegra e la bizzarra natura delle immagini mostrate, contribuiscono nel creare un senso di coinvolgimento nostalgico ma al tempo stesso appassionante. Ma se l’aveste mostrato in giro all’epoca della Schoenau & Hoffmeister, non ci sono dubbi: grandi e piccini avrebbero fatto un sobbalzo. Perché queste non sono pupattole come le altre, baby. Esse parlano, come i viventi!
In qualsiasi cronistoria delle bambole dell’epoca moderna che si rispetti, è fondamentale citare la figura monumentale di Jack Ryan (attenzione all’omonimia videoludica, non stiamo parlando del fondatore dell’orribile città sommersa di Rapture) il grande inventore, dirigente e creativo ex-impiegato del contractor militare Raytheon, che nel 1955 fu assunto come direttore tecnico dell’allora quasi sconosciuta Mattel, la compagnia di giocattoli fondata diversi anni prima da Harold “Matt” Matson & Elliot Handle. Un luogo in cui avrebbe contribuito, in molti e reiterati modi, all’arricchimento intellettuale dell’intera collettività dei bambini di allora, per non parlare dei loro figli e nipoti. Finendo, quasi incidentalmente, per renderla grande! Egli aveva infatti, tra le altre cose, una visione destinata a cambiare il mondo. Quella di una pupazza non più a figura di bambina o di educata piccola signora, ma con le sembianze di una giovane attraente ed emancipata, potenzialmente addirittura (gasp!) padrona della sua sensualità. Era una visione, in realtà, non totalmente originale: Barbie nacque, infatti, sul modello di una precedente bambola tedesca, Bild Lilli, concepita per dare forma fisica alla protagonista della serie di strisce a fumetti disegnata da Reinhard Beuthien per il tabloid Bild-Zeitung, non del tutto priva di connotazioni riconducibili al nascente movimento femminista. Ryan era un eccentrico, che viveva in una villa finto-Tudor a Bel Air, che lui chiamava “il Castello” ed aveva riempito con molte delle sue bizzarre invenzioni. Nel momento in cui la moglie del suo capo, Ruth Marianna Handler, che ormai da tempo teneva le redini della compagnia, lo avvicinò con l’idea per una bambola “più personale” con cui le bambine potessero interfacciarsi direttamente, egli realizzò la sua seconda innovazione più monumentale. Era il 1960, quando nel mercato ormai globalizzato fu introdotta la figura di Chatty Cathy, la bimba artificiale che aveva, all’interno del suo piccolo corpo di plastica rigida, un registratore magnetico, attivato dal caratteristico pezzo di spago con l’anello. Fu un successo senza precedenti, che diede l’origine a una serie senza fine di imitazioni.
I due video della Vis Pathé, quello di apertura e il secondo, girato presso la Rosebud Toy Factory di Wellingborough, Northamptonshire, mostrano due fasi significative della transizione dei mercati del settore di quegli anni. Nel primo, una piccola realtà locale, operando sui margini del diritto di autore, che produce una sua reinterpretazione della meraviglia tecnologica della Mattel. Nel secondo, girato successivamente all’acquisizione della Rosebud da parte del colosso americano (che era avvenuta nel 1967) si osserva una produzione più variegata e su larga scala, con tanto di bambolotti ispirati ai successi cinematografici di allora. Chatty Cathy, e le sue distanti cugine, avevano una caratteristica estremamente interessante: per ogni volta che la cordicella veniva tirata, riproducevano una frase scelta a caso tra un catalogo di 6-10 possibilità, generalmente concepite per coinvolgere la bambina. Furono proprio queste esclamazioni come: “Dammi da mangiare!” Oppure: “Facciamo finta di essere a scuola!” registrate per la prima versione ufficiale della bambola dall’attrice June Forey, a renderla celebre oltre ogni previsione.
Ma il tempo transita, e con esso, cambiano le regole del gioco. Tutto quello che può essere considerato strabiliante, nel giro di appena mezza generazione si trasforma in una storia vecchia e già vista, una nozione data per scontata. Così fu ben presto per le bambole in composition, come ancora prima era stato per l’invenzione del mohair, la parrucca in pelo d’angora incollata ad un retino, che permetteva alle giovani proprietarie di acconciare i capelli delle loro beniamine. E così pure, per la capacità di aprire e chiudere gli occhi, oppure emettere versi in automatico, quando la bambola veniva fatta adagiare in orizzontale. Cos’è in fondo, persino una voce, se proviene da un mero giocattolo? Soltanto un sussurro della plastica superstite, senza significato. Mentre col trascorrere degli anni, come in una sorta di pericolosa corsa agli armamenti, le nostre creazioni di gioco diventano progressivamente più realistiche. Persino il pensiero autonomo, in creazioni come Furby o il Tamagotchi, non pare ormai così distante (e non a caso, tali balocchi si sceglie di crearli a foggia di esseri di fantasia). Ma il creatore di robot dietro al progetto ASIMO della Honda, Masahiro Mori, ci mette in guardia: se una creatura artificiale è molto differente dagli umani, si notano in primo luogo le sue poche componenti utili a creare un senso di empatia. Pikachu è come un cane o un gatto, come un canarino! Più invece quella cosa ci assomiglia, maggiormente risaltano ai nostri occhi quei pochi, inquietanti tratti che sono diversi, percepiti come inquietanti imperfezioni. E.T. l’Extraterrestre? Ripugnante! È questo. sostanzialmente, il princìpio della uncanny valley, un concetto importante della nuova psicologia applicata al mondo della tecnologia. E se un finto essere umano dovesse diventare perfettamente indistinguibile da noi, nell’aspetto, nella voce e nella mente, cosa resterebbe allora ben nascosto, nel profondo di una tale spaccatura filosofica tra “noi” e “loro”? Sarebbe molto meglio, probabilmente, non scoprirlo mai. Sarebbe meglio…Non scoprirlo mai!