È la classica curiosità del turismo di tipologia scientifica, quello che porta i visitatori del Kennedy Space Center presso Cape Canaveral, a vagheggiare per le sale fino all’oscura fornace ove mettere alla prova alcune forme di un materiale assai particolare. Le quali non vengono mai “cotte” in senso letterale, per il semplice fatto che risultano del tutto immuni al calore. Nel senso che anche una volta riscaldate a temperature impressionanti, tali da farle virare verso un rosso pericolosamente incandescente, non saranno comunque in grado d’ustionare neppure una tremante mano umana. Non ci credete? Sollevatele adesso, sotto l’occhio della telecamera del vostro collega. Magari, prendendole dagli angoli. Preferiremmo non dover ricorrere a pomate.
Un aereo può fare molte cose: decollare, atterrare, parcheggiare in un hangar cadendo in disuso per poi essere, senza rimpianto, abbandonato: “Troppo poco sicuro!” Dicevano. Non che avessero poi tutti i torti. Ma nonostante questo, resta vera la presente cosa: è esistito solamente un dispositivo con le ali, nell’intera storia del volo, che sia stato in grado di superare di 25 volte la velocità del suono, dal momento fatidico del suo ritorno dall’orbita terrestre fino all’atterraggio qui a Merritt Island nella contea di Brevard, in Florida, USA. Con una modalità di planata che potrebbe dirsi esattamente identica a quella di un aliante. Se soltanto gli alianti fossero in grado di sopportare temperature superiori ai 1600 gradi centigradi per un tempo di circa una quindicina di minuti, la metà esatta di quelli necessari a portare a termine la delicata operazione. Che il rientro nell’atmosfera comporti un brusco innalzamento della temperatura da parte dell’oggetto designato, questo è largamente noto. Mentre forse non tutti comprendono l’effettiva portata dell’onda d’urto continua e incandescente, che lo Space Shuttle generava dinnanzi a se in funzione della sua prua con forma a parabola, a causa della massiccia quantità d’aria spostata con il suo rientro dallo spazio. Talmente devastante e impenetrabile, in effetti, da distruggere spontaneamente qualunque ostacolo o detrito, riducendo al minimo il rischio d’urto con uccelli, meteoriti o cose. E proprio in funzione di un tale rilascio d’energia, generando una corrispondente quantità di calore grosso modo pari alle cifra su citate, che avrebbe dovuto fondere l’alluminio della carlinga nel giro di pochi secondi (il cedimento strutturale, come da manuale, avviene attorno ai 300 gradi). A meno di riuscire a elaborare, per l’intero marchingegno, una soluzione di dissipazione che potrebbe facilmente descriversi, allo stato attuale delle cose, come la più efficiente mai concepita.
Efficiente, non efficace. Questo perché fondamentalmente, la problematica di fondo restava sempre quella: uno Shuttle necessitava di librarsi. E non poté dunque affidarsi, per proteggere se stesso dalle fiamme dell’inferno in cielo, alla soluzione ingegneristica ideale dei dissipatori ad alta densità, scudi in grado di assorbire l’energia proprio in funzione della loro massa (e peso) assai considerevoli. Lasciando il passo ad un approccio che tutt’ora, per la sua convoluzione e il funzionamento contro-intuitivo, viene citato come uno dei momenti più inaspettatamente complessi nella storia del volo spaziale. Tale da valere all’aereo in questione il bonario soprannome di “brickyard” volante, un termine inglese che si riferisce alle fornaci in generale, ma che nel presente contesto, potremmo tradurre nel modo più letterale di “fabbrica di mattoni”.
Astruso perché, onde massimizzare per quanto possibile le prestazioni di un oggetto già non perfettamente aerodinamico, per ciascuna delle aree sovrariscaldate era stato scelto un approccio appena sufficiente, e non più che tale, all’assorbimento e il rilascio dell’aria incandescente creata dall’onda d’urto dello Space Shuttle. Trovavano qui l’impiego sette materiali differenti, dalla fibra di carbonio-carbonio rinforzata, estremamente densa ed impiegata solamente nelle zone d’urto frontali (muso e fronte delle ali) fino ai particolari fogli d’isolamento forniti dalla compagnia americana DuPont, impiegati nelle parti superiori del velivolo, ove la temperatura raramente raggiungeva i 400 gradi. E ciò passando per il nesso principale e il cruccio dell’intera questione, ovvero le circa 30.000 mattonelle costituite del materiale mostrato ai coraggiosi turisti d’apertura, di un composto ceramico a base di silice definito LI-900, che furono faticosamente cotte e cementate sulla fine degli anni ’70 con l’ambizioso obiettivo di giungere al lancio della prima missione dell’aeromobile STS-1 entro il 1979. Tempo utile che non ebbe modo di realizzarsi, in maggiore analisi, proprio per la complessità di una simile operazione ingegneristica, coronata con l’apposizione di tali quadratini e rettangoli sul delicato scafo, mediante l’impiego di uno speciale strato di mastice, in grado di ammortizzare i sommovimenti strutturali del flessibile metallo sottostante. Le protezioni in questione infatti, denominate internamente HRSI (High-temperature reusable surface insulation) erano tutt’altro che resistenti, essendo costituite in prevalenza di spazi vuoti circondati dalla fibra di silice, talmente friabile e delicata da poter finire infranta, se soltanto maneggiata con insufficiente cura. Ne esistevano due versioni: nera e bianca, rispettivamente concepite per proteggere le sezioni più o meno incandescenti dell’aeromobile al momento del suo rientro nell’atmosfera. Come desumibile dal nome, erano concepite per essere riutilizzate più volte assieme al resto dell’aeromobile, riducendo quindi sensibilmente il costo dei voli di andata e ritorno verso l’orbita terrestre. Ma la realtà dei fatti fece presto a dimostrare come, per un’adeguata osservanza della sicurezza, fosse in effetti necessario sostituirne una buona parte dopo ciascuna missione, a causa dei danneggiamenti riportati in fase di decollo. Al termine del programma di volo dello Shuttle, le innumerevoli mattonelle residue di HRSI furono messe in vendita come cimeli, finendo in molti musei ed istituzioni di studio in giro per il mondo.
Altrettanto problematica, e forse ancora maggiormente, risultò essere la protezione termica dei due razzi a stato solido non riutilizzabili impiegati per portare in quota e velocità l’Orbiter dello Shuttle (il nostro “aereo”) e soprattutto il relativo serbatoio, un cilindro con fronte a parabola che raggiunse all’epoca della sua massima imponenza i 46 metri dalla fronte alla coda, racchiudenti al suo interno più di 70 tonnellate di idrogeno liquido e ossidante a base d’ossigeno. Tale oggetto, infatti, non soltanto doveva evitare di ghiacciarsi persino sotto l’ardente sole della Florida in funzione della bassissima temperatura delle sostanze contenute (-258 gradi C°) ma aveva bisogno di un suo scudo termico per il decollo, dalle prestazioni ovviamente inferiori a quelle dell’Orbiter ma comunque significativo. A tale scopo, la Nasa impiegò una schiuma a base di resine fenoliche che veniva spruzzata direttamente sullo scafo metallico, detta SOFI (Spray-on foam insulation) che si dimostrò più che sufficiente allo scopo di proteggerlo fino al momento della sua separazione dal resto dell’insieme, verso la disintegrazione ad alta quota in prossimità di remote località oceaniche. Fu proprio tale soluzione, tuttavia, a dimostrarsi fatale nel caso del tragico incidente dello Shuttle Columbia del primo febbraio del 2003, quando l’intero equipaggio di sette persone perse istantaneamente la vita sopra il Texas e la Lousiana, proprio nel momento fatidico del rientro nell’atmosfera. Era infatti successo, in fase di decollo, che una parte infinitesimale della schiuma del serbatoio si fosse staccata da quest’ultimo, finendo per colpire l’ala sinistra dell’Orbiter, causando alcune crepe di entità poco chiara allo strato protettivo di HRSI. Ma poiché non esistevano procedure di riparazione per un simile danno, e non si riteneva probabili eventuali conseguenze gravi, venne deciso comunque di effettuare il rientro nei tempi previsti dalla missione. Successe allora, purtroppo, che il plasma ultrariscaldato dall’onda d’urto dello Shuttle riuscì ad insinuarsi nella spaccatura, penetrando in sezioni della sua carlinga che non erano mai state concepite per sopportare tali sollecitazioni termiche. A tal punto, la salvezza era ormai un irraggiungibile miraggio. Sparito dietro la curvatura di un pianeta sempre più lontano, via, oltre l’orizzonte del domani.
Si dice spesso, riferendosi alle vittime del volo e della scienza come Rick D. Husband, William C. McCool, Michael P. Anderson, David M. Brown, Kalpana Chawla, Laurel Blair Salton Clark e Ilan Ramon, che costoro erano troppo avanti, coraggiosi e stoici per questo mondo di semplici mortali, ancora impreparati a liberarsi dalle rigide catene della gravità. Ed è indubbio l’eroismo della loro sfortunata impresa vada commemorato e mantenuto in alta considerazione, per ancora molti secoli a venire. Ma tanto più pregna e significativa dovrebbe apparirci una simile linea di ragionamento, se attribuita al tipo di tecnologia che portò alla loro dipartita.
Lo Space Shuttle ha rappresentato, nei suoi 30 anni di onorato servizio, una fase particolare del volo spaziale, in cui la tecnologia sembrava tendere a soluzioni futuribili ed avveniristiche, persino se considerate con la lente della nostra visione contemporanea. Figuriamoci all’epoca dei nostri genitori. Soltanto il suo sistema di protezione termica, mostruosamente delicato e complesso, richiese l’implementazione di procedure mai concepite prima d’allora, e l’addestramento ad effettuare riparazioni sul campo tramite l’impiego di una tuta con jet-pack (la famosa “passeggiata spaziale”). Non c’è quindi molto da sorprendersi se al giorno d’oggi, nella ricerca di metodi per proteggere uno scafo durante il suo rientro nell’atmosfera, si sta ritornando a guardare con interesse ai “buoni vecchi metodi” di un tempo, ovvero l’impiego di sistemi di protezione ablativi, fatti per dissipare il calore disgregandosi letteralmente nel corso dei pochi, terribili, incandescenti minuti. Tali materiali proteggeranno, ad esempio, la capsula di rientro dell’Orion del razzo SLS, destinato a trovarsi al centro del probabile prossimo capitolo dell’esperienza umana nello spazio. Naturalmente, le astronavi costruite in una simile maniera, fatte per squagliarsi come un gelato al centro di una stella, difficilmente saranno poi riutilizzabili per una seconda missione. Il che da origine, inevitabilmente, a tutta un’altra serie di problemi…