Bernd, il pilota, d’un tratto sembrò scuotersi nel suo sedile sagomato: “Comandante, c’è una buca più avanti.” Momentaneamente perplesso, Webber alzò gli occhi dalla mappa topografica dell’esercitazione. Alla velocità lanciata di 65 Km/h, non c’era davvero molto tempo per pensare strategicamente, prima che gli ostacoli del territorio raggiungessero la parte anteriore dei loro cingoli determinando la riuscita con encomio oppure il fallimento più totale. “Argh, zum teifel!” Fece Erich, l’artigliere: “Finiremo nuovamente rimorchiati!” Fu a quel punto che Webber iniziò ad elaborare da un luogo recondito della propria mente il concetto per lui nuovo, che non soltanto si trovava chiuso in una scatola pesante come una locomotiva, ed analogamente soggetta a leggi della fisica persistenti ed impietose, dalla cui performance tecnologica dipendevano tutti i suoi futuri propositi di carriera, ma che a determinare il suo destino sarebbero stati un gruppo di ragazzi scapestrati, poco meno che ventenni, la cui massima affinità col compimento di un’operazione militare complessa derivava dagli interminabili pomeriggi trascorsi a far la guerra con tastiera e mouse. “Devo, devo, devooo…Freeeenareeeee?” diciannove secondi, diciotto. Dallo schermo ad alto contrasto disposto accanto alla sua posizione, Webber lanciò un rapido sguardo dietro al carro armato. Tra la polvere sollevata in una nube vorticante, si scorgevano i tipici cespugli scarni della campagna circostante Wiesbaden, dove quest’anno il comando aveva deciso di inscenare i grandi giochi di guerra congiunta assieme al reggimento della base americana. Naturalmente, l’esercito alleato non poteva schierare i suoi carri principali da battaglia in pieno territorio tedesco: era ancora fresca nella memoria la comunicazione studiatamente priva d’inflessioni, risalente all’aprile del 2013, tramite cui tutto il personale del gruppo operativo veniva informato che l’ultimo MBT statunitense lasciava finalmente l’Europa, chiudendo anche formalmente un vecchio capitolo di storia che in qualche maniera continuava ininterrotto fin dall’epoca della “liberazione” di Berlino. Quindici secondi, l’aspetto diseguale del suolo iniziava a farsi sentire, trasmettendo vibrazioni da un lato all’altro del veicolo. “Che tipo di buca?” Pronunciò, scandendo molto bene le parole, Meinhard, l’addetto alla carica delle munizioni. Analogamente alla situazione tecnica del già citato M1 Abrams, nel principale mezzo d’assalto dell’esercito tedesco era prevista la presenza di un quarto membro dell’equipaggio, con la mansione principale di spostare le munizioni dal compartimento stagno deputato fino all’apertura superiore del caricatore automatico di bordo, permettendo, se non altro, di tenere il materiale esplosivo attentamente separato e distante dai vulnerabili esseri umani incaricati di portare tale fino a destinazione, ovvero ben incastrato in mezzo alle spesse piastre dell’armatura nemica. Naturalmente, tale spazio nel corso dell’esercitazione era del tutto vuoto. Altrettanto naturalmente, Meinhard non aveva niente da fare, e quindi metteva bocca praticamente su tutto. “Silenzio!” Gridò Webber, appoggiandosi la mano destra sul berretto da ufficiale: “Erich, sei il solito idiota pessimista. Adesso per piacere volta la torretta di esattamente 180 gradi. Si, bravo, così. Bernd, rallenta, devo capire cosa abbiamo davanti. Meinhard, taci.” Era chiaro che voltare le telecamere, a quel punto, avrebbe richiesto un tempo troppo lungo. In un solo fluido movimento, Webber fece forza sulle gambe per alzarsi in piedi nello stretto spazio della cabina, con il risultato di trovarsi a premere direttamente contro il portello superiore. Obbedientemente, servomeccanismi del costo di diverse migliaia di Euro scattarono in posizione, e quella pesante cosa si aprì.
Ventitre secondi all’impatto. Il vento soffiava ferocemente. Ridotta la velocità del 25%, come da procedura concordata dai membri dell’equipaggio in caso di ordine non definito (Vedi quel bernese… Qualche cosa, l’ha imparata) il carro armato aveva adesso dinnanzi a se un ventaglio di svariate possibilità. Poteva fermarsi, tornare indietro, poteva addirittura accelerare. L’esperienza insegnava a quel particolare comandante di ben ventiquattro anni e un lungo corso teorico alle spalle, ad esempio, che il carro Leopard 2 aveva una particolare capacità innata di scavalcare gli ostacoli, grazie alla sua massa superiore spinta innanzi dal potente motore diesel MTU MB 873, quattro tempi, 47,6 litri, 12 cilindri e 1.500 cavalli di potenza. Se fosse stato un’auto sportiva, lanciata al massimo regime consentito dal suo rapporto peso-potenza, all’incontro con una trincea il suo fido veicolo si sarebbe solamente frantumato. Ma un carro armato ha molte frecce al suo arco…
Webber fece qualche rapido calcolo mentale, quindi ritornò nella cabina, lasciando che il portello si chiudesse automaticamente dietro di se. “Gente, ci siamo. Quella non è una NORMALE trincea.” Erich sobbalzò letteralmente allontanandosi dal suo mirino, Meinhard lasciò cadere la barretta di cioccolato che aveva appena estratto dalla tasca della sua uniforme, come una sorta di dolce portafortuna. Bernd strinse ancora di più le mani sui comandi, facendo assumere un colore pallido alle nocche delle mani. “È la SUA” Qualunque supervisore avesse osservato il carro dall’esterno, tuttavia, non avrebbe notato nulla di particolarmente fuori dalla norma. Il cannone rivolto posteriormente, come da prassi in tutti quei casi in cui si deve affrontare un dislivello significativo, per evitare che quest’ultimo si pianti nel terreno, bloccando l’avanzata del veicolo con più efficacia di qualunque cavallo di Frisia o altro tipo d’ostacolo cementizio. Una velocità parzialmente ridotta per evitare danni alle sospensioni ma non del tutto, onde consentire un superamento inerziale dell’ostacolo posizionato ad arte dalla squadra avversaria, esattamente come accadde in quel giorno fatidico di circa 10 mesi prima, in cui l’intero equipaggio si ritrovò forzosamente eliminato dai giochi di guerra, con rimprovero scritto del generale d’armata. Perché il fatto che tu POSSA, realisticamente, fare qualcosa, non significa che sia realmente necessario, né opportuno, nella situazione simulata di una già costosa sessione d’addestramento. Perché era stato proprio così, cercando di arrivare primo, che il fido carro verde oliva della quinta officina, sesta compagine, nome informale “Dragonbreath” incontrò la fine infausta del proprio cingolo di destra, a causa delle macchinazioni malefiche di Sean Smith, il capo divisione della sesta dei genieri della base americana di Wiesbaden, che privato dei suoi connazionali carristi, doveva trovare nuovi metodi per divertirsi a spese degli ospiti tedeschi. Cosa tutt’altro che difficile per lui, visto come restava pur sempre dotato dello stato dell’arte dei CEV e AEV (Combat, Armord Engineering Vehicles) prodotti negli ultimi quindici anni dai migliori dipartimenti tecnici del suo paese, tra cui un paio di temutissimi Grizzly M1, nient’altro che scafi di carri armati Abrams, da cui era stata rimossa la torretta per sostituirla con una benna mobile da ruspa, mentre la parte frontale del veicolo montava una vistosa pala a V, minacciosamente simile a quella di uno spazzaneve. Sfruttando i quali egli agiva come una sorta di ago della bilancia, trovandosi schierato, nelle ultime quattro edizioni delle grandi manovre, di volta in volta dalla parte della squadra rossa oppure blu. La questione si era trasformata in una sorta di gara spietata per determinare quale scuola tecnologica fosse superiore, tra quella dell’antico Far West dalle pistole a tamburo ed il paese di Porsche e Volkswagen, recentemente decaduto nell’immaginario collettivo a causa dei guai economici di mezza Europa… Dieci secondi all’impatto! “Credi che sia una di quelle buche con…” Fece Meinhard “Assolutamente.” Rispose, d’un tratto compunto, l’artigliere Erich. Webber batté rumorosamente il pugno sul pannello di comando, in una muta richiesta di fare silenzio. Poco prima di gridare: “FERMA-SUBITO-QUESTO-CARRO-BERND!”
Un corpo di genieri militari al comando di un ufficiale davvero abile e dotato di mezzi adeguati, come purtroppo poteva definirsi quel saccente ed odioso Mr. Smith, sapeva come scavare una trincea nel modo virtualmente peggiore in assoluto, anche senza usare componenti vietate nell’addestramento quali filo spinato ad alta resistenza o componenti di cemento pre-formato (“Ma i carri armati non sono stati creati appositamente per schiacciare il filo spinato?” Webber ricordò di aver chiesto un tempo al suo istruttore: “Si, ma dopo il passaggio devi scendere, e districarlo dalle ruote con le tue stesse mani. Se vuoi provarci, si può organizzare…”) Ciò significava che il buco dinnanzi al Dragonbreath, per analogia con quello che l’aveva rovinosamente fermato nel corso dell’autunno scorso, non era semplicemente profondo uno, due metri, né largo 3 o quattro. Ma si estendeva in ampiezza perpendicolare per circa 5, con una delicata discesa nella sua parte rivolta nella direzione del nemico. Mentre sull’altro lato, con attente manovre di ruspa, era stata ricavata una vera e propria parete verticale, sufficientemente compatta da riuscire a sconquassare il doppio sistema di sospensioni (di supporto al cingolo e delle ruote stradali) di un carro Leopard lanciato ad alto regime, per lo meno, qualora il suo equipaggio si dimostrasse sufficientemente sfortunato. Tutt’altra storia, del resto, era affrontarlo a passo d’uomo, contando sulla semplice bestiale potenza del motore di bordo per “scavarsi” letteralmente una valida via di fuga. Un sistema funzionante quasi sempre il 100% delle volte. E questo particolare gruppo di soldati, dopo il fallimento pregresso, non poteva di certo più contare sulla benevolenza del destino.
Ora, molti potrebbero coerentemente pensare che un mostro di 67 tonnellate, che aveva recentemente rallentato solo parzialmente dalla velocità di 68 Km/h, non potesse assolutamente giungere ad una situazione di stasi nei pochi metri che restavano per separarlo dalla temutissima trincea. Ed a quei molti, personalmente, consiglierei di prendere in esame il celebre video (qui già commentato) di un carro Leopard che frena a pochi metri di distanza dall’intero personale del dipartimento marketing della Krauss-Maffei, rischiando d’inscenare sul campo una centrifuga di giacche e cravatte quale non se n’era viste di simili dai tempi della cavalleria mercenaria croata della Guerra dei Trent’anni, che usava caricare il nemico con gli ormai iconici foulard annodati. Se non fosse stato per la fantastica efficienza di un sistema che potrebbe fermare una mandria di bisonti in fuga da un coccodrillo, e poi il coccodrillo stesso, poco prima di puntargli contro l’ottimo cannone L55 dal calibro di 120 mm. Questo ed altro pensò il giovane direttore del mezzo, grazie alla sua percezione temporale dilatata dal senso dell’impellente disastro, il congedo con disonore, un futuro a far girare gli hamburger tra una partita e l’altra a briscola su Internet, perché fosse eternamente dannato se gli riusciva di avere un K/D su World of Tanks… Finché tre-due-uno, impatto? Non si è sentito il botto! La nube di polvere assomigliava ormai ad un demone evocato dall’inferno stesso. “Scheiße!” Esclamò l’artigliere. “Coff, coff!” Rispose in modo eloquente Meinhard, che per qualche inconcepibile ragione aveva scelto proprio quel momento per tentare di trangugiare il suo dannato cioccolato del discount. Webber, d’un tratto euforico, si voltò dalla sua postazione di comando. Con un sorriso a 32 denti, diede una pacca sulla spalla ad Erich. Uno sguardo infastidito, eppure in qualche modo benevolo, al suo vorace addetto alle munizioni. Ed esclamò all’indirizzo del benamato pilota di presunta provenienza svizzera: “Ben fatto! Davvero ben fatto, Bernd. Adesso, portaci fuori di qui!” Con un rombo clamoroso, che risuonava clamorosamente da un lato all’altro della sua pelle metallica spessa fino ad 80 cm, il drago-leopardo emise il suo feroce grido di battaglia. Senza bisogno di dare nessun ordine, la torretta stava ritornando in posizione. Pronta per infiggersi nel cuore stesso del rivale. Un’orso grizzly, da qualche parte, piangeva. Mentre l’aquila lanciava il suo richiamo.