Una singola nave, un lago ghiacciato per metà dell’anno, due marinai che sopravanzano le cinque dita di una singola mano. Soltanto quello corrispondente al pollice, che sa nuotare. Ovvero Batbayan, l’uomo che dichiara in discorsivo sottotitolo: “Vorrei un giorno riuscire a vedere il vero mare.” Perché: “Le acque dell’Hôvsgôl Nuur sono fredde e inospitali.” E conclude la comparazione: “Mentre il vasto Oceano…Io me lo immagino caldo, sereno ed accogliente.” Ehm, più o meno… Chi siamo noi per contraddire, dopo tutto, la singola risorsa umana più importante di un’intera forza nazionale, responsabile di innumerevoli salvataggi dei colleghi più distratti negli anni, ciascuno a sua volta costituente, se vogliamo, un settimo della Mongolia per mare. Dotata di… Un supporto a terra per gli aerei? Una nave da battaglia. Un trasporto per le truppe. Tutti ruoli, rigorosamente potenziali, rivestiti dalla loro poderosa Sukhbaatar III, un vascello di rifornimento d’epoca sovietica, a suo tempo orgogliosamente iscritto nei registri del governo locale come prima rappresentante di una lunga serie di navi sorelle, che in ultima analisi non ebbero mai occasione di concretizzarsi. E che oggi continua la sua antica missione, parzialmente dimenticata.
Si potrebbe definire l’insieme delle forze militari di un paese come una piramide invertita di colore verde oliva, in cui più si sale, maggiore diventa la quantità di uomini al comando di un solo ufficiale: squadra, sezione, plotone. Seguiti da: Compagnia, battaglione, reggimento. E poi brigata, divisione, corpo d’armata… Finché non si scorge sopra a tutto il resto, come un vessillo identificativo d’eccezione, quel termine mirato a definire tutti gli altri: l’Arma. L’Esercito Italiano, ad esempio, ne possiede tre: terrestra, navale ed aeronautica. Negli Stati Uniti d’America, a queste si aggiungono la guardia costiera e i marines. Ma detta stratificata suddivisione va ben oltre una semplice attribuzione delle responsabilità, giungendo a regolare anche la logistica in tempi di guerra, determinando chi debba ricevere i rifornimenti, quando, come e perché. Un sistema certamente antico, che in molti sarebbero più che mai pronti a far risalire fino ai tempi dell’esercito romano, per il semplice fatto che chi altro, prima o dopo di allora, poté mai vantare un simile curriculum di conquiste, guadagnate presso i campi di battaglia dell’intero mondo conosciuto? L’unica risposta possibile, nonché del tutto ovvia: loro, gli arcieri a cavallo d’innumerevoli tribù, instradati ad una singola missione dall’eternamente celebrato Gengis Khan. Indubbiamente uno dei maggiori capi dell’intera vicenda storica umana, almeno fino alla prime propaggini della modernità. Che seppe sfruttare, con il massimo profitto, un sistema per certi versi primordiale, eppure chiaramente efficiente, almeno quanto le coorti e le legioni di coloro che erano venuti prima: l’orda, singola e indivisibile, semplice, diretta, numericamente priva di limitazioni. Ovvero uno stuolo d’armigeri, che poteva raggiungere il milione di unità, nei periodi delle grandi migrazioni, come altrettanto facilmente suddividersi in innumerevoli gruppi e clan familiari, ciascuno totalmente in grado di sopravvivere per proprio conto. Ciò perché quando un’armata non ha frazionamenti numerici a condizionarla, tenderà naturalmente a contare sul suo naturale spirito di coesione. Ed è così che appena sette uomini, riescono a formare una Marina.
L’insolita vicenda dell’equipaggio della Sukhbaatar III è stata narrata nel film documentario nel 2001 di Robert Stern (Litmus Films) dal cui trailer l’agenzia Associated Press ebbe modo di trarre, addirittura nel 2000, il breve segmento descrittivo incluso in apertura. In cui ci vengono presentati approfonditamente alcuni dei membri di questa realtà operativa priva di termini di paragone, tra cui il già citato Batbayan, l’addetto alla sala macchine Purevdorj, l’anziano veterano di nome Bahji e niente meno che Ganbaatar, l’unico navigatore certificato del più grande paese al mondo ad essere privo di sbocchi sul mare. Dalla cui esperienza di studi all’estero condotti in Russia, così narra un articolo del New York Times, nascerebbe una delle connotazioni più improbabile dell’intera questione, ovvero la presenza di un vero e proprio ufficio di registrazione navale nazionale, con sede all’estero presso la città di Singapore (notizia estratta dal web) da cui concedere, a chiunque abbia qualche ragionevole risorsa finanziaria da investire, il diritto di battere bandiera mongola per mare. Un potenziale vantaggio tutt’altro che trascurabile, in diversificate situazioni di commercio, visto come il diritto internazionale non faccia sostanziali distinzioni tra i mercantili provenienti con i crismi rappresentativi dei diversi stati indipendenti del globo. Ed un metodo decisamente efficace per portare soldi allo stato. Somme che tuttavia, almeno a giudicare dal film della Litmus, non sono mai stati reinvestiti nelle risorse tecniche della sola ed unica nave gestita un tempo dallo stato, che anzi nel 1997 fu persino privatizzata, venendo data in gestione al personaggio di un facoltoso investitore locale di nome Tsengelchuulun, che si esibisce nel video in un sorriso baffuto alla telecamera dal piano superiore dell’imbarcazione, durante una scena che potrebbe definirsi davvero esemplificativa: un gruppo di turisti sud-coreani, professori di scuola, che insegnano a loro co-imbarcati mongoli alcune canzoni del proprio paese. Proprio così. Non sarebbe errato dire che la Sukhbaatar III costituisca, ad oggi, una piccola nave da crociera, messa a disposizione dietro un piccolo compenso di tutti coloro che giungono per visitare l’area del grande lago Hôvsgôl, posto al centro di una riserva naturale delle dimensioni approssimative del parco di Yellowstone, nonché esso stesso, ricettacolo di flora e fauna d’eccezione, con la presenza attestata di pesci persici fuori misura e alcune particolari specie di temuli sub-artici, attestati unicamente in questa regione.
Ma resta indubbio che il fascino dell’esperienza vada attribuito, almeno in parte, alla storia e all’importanza istituzionale della nave dei suoi occupanti, facilmente esemplificata dalla presenza, sulla sponda sud del lago, di alcuni grandi serbatoi di petrolio, da cui fino alla seconda metà degli anni ’80 veniva estratto il carico da consegnare, puntualmente ed ogni mese, agli ufficiali sovietici dell’area siberiana. L’operazione di spostarne il contenuto, grazie alle potenti pompe presenti sulle prime due Sukhbaatar (che affondarono per ragioni ignote, e ancora giacciono visibili presso l’approdo della vicina cittadina di Khatgal) e portarlo a destinazione fin sulla sponda settentrionale posta a 136 Km di distanza, richiedeva circa 8 ore, contro i quattro giorni necessari per compiere la stessa missione a dorso di mulo. Non ci sono, ovviamente strade. Per determinati periodi, in pieno inverno, quando l’acqua si trasformava in una solida lastra di ghiaccio, fu praticata la via di far passare dei camion sulla superficie stessa del lago, ottenendo variabili gradi di successo. L’operazione risultava ad ogni modo piuttosto rischiosa, tanto che qualcuno afferma, su Wikipedia, che ad oggi circa 30-40 autotreni giacciano sul fondale a seguito di vari incidenti subiti nel corso degli anni, ormai arruginiti e in corso di disfacimento. La pratica fu successivametne vietata, a seguito della presa di coscienza dell’importanza ecologica dell’intera regione, lasciando i soli uomini della Marina ad occuparsi del trasporto, almeno finché i giacimenti dei vicini impianti di trivellazione non si esaurirono, come spesso capita, e sopraggiungessero nuove mansioni, forse meno fondamentali, ma comunque a loro modo, rilevanti.
Una vita di abitudini, gesti ormai imparati pressoché a memoria. I sette marinai della Mongolia, come si può desumere dai pochi documenti disponibili online, hanno acquisito in epoca recente l’abitudine di comporre canzoni, che loro sperano un giorno di riuscire a lanciare sull’attivo mercato della musica contemporanea ad Ulanbataar, la capitale della nazione. Nei mesi più freddi, abbandonata temporaneamente la nave e le sue due chiatte di supporto, ritornano i pastori che erano, tentando di guadagnare qualche somma extra praticando i propri rispettivi mestieri ancestrali. Ma ad ogni primavera, senza falla, si ritrovano lì, pronti a salpare. Troppo forte è il loro senso nostalgico di responsabilità.
E forse anche quel ricordo vago, trasportato dai venti erranti della Steppa: dell’epoca in cui Kublai Khan, l’erede di Gengis, fondata la dinastia Yuan in Cina e conquistato il regno coreano di Goryeo, tentò famosamente d’invadere la terra del Sol Levante, l’ostile Giappone. Era il 1274, quando i mongoli s’imbatterono per la prima volta nella strenua resistenza della società samuraica, pronta a scendere in armi e ricacciare ferocemente via i barbari in armi provenienti dal distante meridione. Andando incontro, oggi si ritiene, ad un’imminente sconfitta di fronte alle tecnologie provenienti dall’Asia continentale, tra cui archi migliori e veri e propri esplosivi da lancio simile alle odierne granate, che sarebbero bastati a contrastare qualsiasi metodo o strategia di guerra della parte contrapposto. Se soltanto non fosse intervenuto il caso fortuito di un terribile tifone, il vento divino (kamikaze) che scelse proprio quei fatali giorni per abbattersi sulle coste dell’isola del Kyushu. 15 agosto del 1281: quasi 4.000 navi e i loro equipaggi, spazzate via nel corso di una singola giornata. Il braccio marittimo del più grande impero territorialmente contiguo di tutti i tempi, a conti fatti, non si sarebbe ripreso mai più. O forse sarebbe più corretto dire, che non si è ANCORA ripreso? Le orde fluiscono come volute di acqua colorata, una singola goccia nel vasto oceano dei conflitti della Storia. Ciò che cala di numero, può un giorno ritornare ai fasti ormai perduti. Una bandiera costa poco. Ciò che davvero fa la differenza, al giorno d’oggi, è la carta inchiostrata dei patti e delle concessioni di stato…
Vedi anche: la versione più breve del video di apertura, attualmente disponibile sul canale YouTube della Litmus Films.