La professione di certi scienziati può essere estremamente frustrante: si lavora per anni ad un qualcosa di estremamente importante, forse dalle proporzioni letteralmente universali, come ad esempio il processo che ha portato alla formazione di un determinato ammasso stellare, finché la vasta serie di nozioni apparentemente discordanti del lavoro di una vita, in un attimo di gloria, non collimano nella stesura di una tesi convincente. E poi? Si pubblica il proprio lavoro su un giornale di settore, tra le sincere congratulazioni di tutti coloro che risultano davvero capaci di capire la questione, 10, forse 15 persone in tutto il mondo. Mentre il grande pubblico non recepisce alcunché di nuovo, neanche una leggera vibrazione nella Forza. Ma basta lasciare i campi superficialmente sterili degli ambienti minerale ed astronomico, chimico oppure matematico, per trovarsi in un regno da tutt’altri presupposti di tangibile apparenza: poiché nulla più che ciò che è vivo, fra i diversi campi dello scibile, può catturare l’attenzione della gente in cerca dello “scoop”. Ah, yes! Il giornalismo pseudo-scientifico. Una branca della divulgazione che per sua stessa e implicita natura, nell’epoca del web, ha raggiunto nuove vette d’improbabilità, coadiuvato soprattutto dal modo in cui spesso basti un click, per lanciarsi a capofitto in un abisso di nozioni, più o meno veritiere, fin giù verso il baratro dell’approfondimento. Ed un qualcosa di simile è proprio quello che sta succedendo, ai margini d’innumerevoli titoli sensazionali, con la nuova specie ittica scoperta dalla studentessa Victoria Vasquez, ricercatrice presso il Pacific Shark Research Center di Moss Landing, sulle coste della California. Sulla quale sta splendendo un riflettore di entusiasmo del tutto giustificabile, sebbene non proporzionato all’entità dell’intera questione. Ma del resto, come biasimarci? Già lo squalo, in quanto tale, è un tipo di creatura che cattura l’attenzione al primo accenno di presenza. Basta l’ombra di una pinna sopra i flutti della costa, in prossimità di apprezzate località balneari, per causare un senso d’angustia tanto sopraffino da bloccare l’estate sul nascere, mentre tutti riscoprono un improvviso interesse per località montane. Questo esponente della temuta categoria in particolare, poi, così cupo e aerodinamico, che appare dotato di armi evolutive tanto inusuali, aggiunge al all’innato senso di terrore quel vago fascino per tutto ciò che è alieno, il gusto ultimo dell’improbabile beltà. Ninja Lanternshark, nome scientifico Etmopterus benchleyi, un predatore singolare ritrovato a largo dell’America Centrale. Però nei fatti, decisamente, contrariamente a quanto alcuni vorrebbero farci pensare, tutt’altro che unico nella sua specie. Basti pensare come la prima descrizione scientifica di un animale molto simile fu fatta addirittura da Carl Linnaeus il padre della tassonomia, nel 1758, per la decima edizione del suo Systema Naturae.
E di squali simili a questo ce n’erano fino all’altro giorno esattamente 37 tipi, ordinatamente raggruppati all’interno dell’ordine degli squaliformi, famiglia degli Etmopteridae, o come amano dire gli anglosassoni, dogfishes (il termine pescecane, lì, appare decisamente più specifico che nel parlato italiano). Creature che condividono alcune salienti caratteristiche, tra cui due pinne dorsali spinate, generalmente NON velenose, una tacca sulla coda e soprattutto, questo indubbiamente il dato più particolare, la presenza diffusa di organi fotofori sull’epidermide, usati per emettere una tenue bioluminescenza. Che è poi l’intera chiave della questione in quanto, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, tale caratteristica è fondamentale alla creatura per passare inosservata. Recenti studi hanno infatti dimostrato come gli squali lanterna, che presentano una maggiore concentrazione di fotofori sul ventre, possano usarli per imitare la luce del sole che filtra faticosamente fino alle profondità marine in cui passano la propria vita, fino ad un chilometro dalla superficie, rendendoli sostanzialmente invisibili a chiunque dovesse trovarsi in posizione sottostante. Destinato a diventare, senza un briciolo di redenzione, il pasto masticabile per tali e tanti denti piccoli, affilati.
Ma ora non cominciate a correre, rifiutando ogni fortuita quanto rara occasione di immergervi tra le accoglienti acque del Pacifico settentrionale: prima di tutto, perché un simile maestro dei travestimenti misura, nei fatti, appena 45 cm, mentre i più grandi squali lanterna esistenti, che sono gli Etmopterus princeps dell’Oceano Atlantico, raggiungono al massimo i 75. Senza contare il fatto che un’altra caratteristica comune a queste creature è la tendenza a vivere a profondità sempre maggiori, mano a mano che si raggiunge l’età adulta e l’epoca della fertilità. Per questo le occasioni di essere morsi da uno squalo ninja sono tanto rare, e ad ogni modo limitatamente lesive, da non poter surclassare in alcun modo l’entusiasmo di conoscere una tale rarità. Non che la Vasquez, assieme ai suoi due coautori entrambi appartenenti alla California Academy of Sciences di San Francisco Douglas Long e Dave Ebert, avessero sperimentato nel presente caso il rush d’adrenalina dell’incontro, visto come il nuovo squalo nero, prima di essere classificato, facesse parte di una ricca selezione di esemplari messi già nel 2010 sotto formalina, poco dopo essere stati catturati dal Dr. D. Ross Robertson dell’Istituto di Ricerca Tropicale dello Smithsonian, durante una sua lunga escursione presso il Centro America, condotta con un peschereccio spagnolo adibito a base operativa. La collezione era stata recentemente chiesta in prestito e presa in analisi dai due studiosi Long ed Ebert, quest’ultimo già famoso per la sua partecipazione al programma americano di Discovery, Alien Sharks, nell’ottica di un nuovo studio sui chimeriformi, l’ordine di pesci cartilaginei di profondità talvolta definito con l’appellativo di “squali fantasma”.
Ma fu proprio la terza partecipante, reclutata successivamente con il fine di estrarre materialmente le numerose creature dai barili in cui si trovavano e provvedere ad approfondite misurazioni, colei che avrebbe materialmente differenziato in alcuni significativi dettagli lo squalo ninja dai suoi parenti più prossimi, tra cui l’E.pusillus, l’E.bigelowi e il già citato E.Spinax, unica specie considerata lievemente a rischio, per la rarità dei suoi avvistamenti presso i territori settentrionali d’Europa. Mentre per il resto gli squali lanterna, nonostante il tempo relativamente lungo necessario per raggiungere la fertilità (4-5 anni) e il ciclo riproduttivo piuttosto lento (fino a tre anni per alcune specie) sono animali diffusi e tutt’altro che in difficoltà, spesso accidentalmente pescati dalle reti a strascico, in diverse regioni del globo, e poi subito liberati, per la poca rilevanza economica ed il gusto, presumibilmente, tutt’altro che attraente.
Per essere più precisi, le differenze osservate sono relative al rapporto della dimensione tra le due pinne dorsali, la presenza di una concentrazione di scaglie presso gli occhi e le branchie, una quantità di organi fotofori minore a quella delle altre specie citate. Lo squalo ninja, quindi, brilla meno, contando maggiormente sulla propria naturale capacità mimetica e l’agilità delle movenze, giustificando almeno in parte l’insolita scelta del suo nome comune, dichiaratamente prodotto dalla Vasquez con l’aiuto dei suoi cuginetti o nipotini (le fonti appaiono discordanti) durante una conversazione, in cui lei descriveva le caratteristiche della creatura. I quali avevano inizialmente suggerito “Super Ninja Shark” poco prima di vedersi censurati verso un grado lievemente meno eccitante, per il semplice fatto che potremmo pur sempre trovare in futuro, chi può dirlo? Uno squalo ancora più incredibile di questo. Ed allora, se avessimo già usato il super, toccava andare di hyper-mega-ultra e diventava un videogame. La loro scelta non propriamente contestuale ad ogni modo, difficilmente potrebbe essere biasimata, visto il successo che il binomio risultante sta riscuotendo tra il mare mediatico dei giornali, siti web ed emittenti televisive. Dopo tutto: squalo? Terribile! Ninja? Spaventoso! E chi mai potrebbe rinunciare all’opportunità di unire le due cose, in un articolo al fulmicotone in grado di stimolare le altrui congetture e la fantasia…
Per inciso, anche la storia dietro all’appellativo scientifico del pesce risulta piuttosto interessante: il suo Benchleyi, in effetti, altro non sarebbe che una contrazione latineggiante del nome di Peter Benchley, l’autore del romanzo da cui venne tratto il film Lo Squalo (1975 – Steven Spielberg). Personalità creativa che successivamente al suo successo, pentitosi per il bagaglio di odio e diffidenza collettiva con cui aveva appesantito l’animale, diventò notoriamente un grande sostenitore dei programmi naturalistici di protezione marina, nonché una vera e propria leggenda nel settore di Long, Ebert, Vasquez et co. Un nuovo tipo di approccio alla scienza, dunque? Che parte dal film, per andare un po’ più oltre, ancora più lontano… In effetti, negli ultimi tempi la preponderanza dei social media sta cambiando il funzionamento di molti settori operativi, anche quelli che tradizionalmente erano ben distanti dai vezzi cangianti dell’opinione comune. Così capita occasionalmente, e sta capitando proprio in questo caso, che una giovane studiosa con la fortuna di riuscire pubblicare un qualcosa di ESTREMAMENTE specifico, teoricamente rivolgendosi a colleghi e specialisti, venga improvvisamente spostata sotto i riflettori twitter-facebook-iani (per non parlare di Reddit) assieme a foto in HD della sua insolita creatura. Rinunciare a una prospettiva più completa dell’intera questione, a mio parere, sarebbe la perdita di una preziosa occasione di comprendere un po’ più a fondo la natura. Sia quella oceanica, che di noialtri, umani.
Via: Journal of the Ocean Science Foundation, Deep Sea News, VickyShark