“Vedi Vitaliy, ci sta chiamando.” Sulla cima del Corcovado, il massiccio sito nel centro di Rio de Janeiro, due insoliti turisti russi alzano lo sguardo verso il Cristo Redentore. Come da programma, nessuno sembra prestargli un’eccessiva attenzione, con una buona metà dei presenti intenti ad apprezzare il panorama, la rimanenza è concentrata sulle due scimmiette intente in una zuffa per il cibo. Nonostante l’importanza di questo luogo, i due individui sembrano muoversi liberamente. Vestiti in abiti scuri e coprenti anche se fa caldo, con tanto di passamontagna e telecamere montate sul cappello, dei grossi zaini al seguito dal contenuto sconosciuto. Non è difficile comprendere perché l’azione si svolgesse nel corso della scorsa estate, qualche tempo prima che i recenti eventi causassero un drastico incremento dei controlli presso i siti frequentati dal turismo internazionale. E allora si pensava, come per certi versi ancora adesso, chi mai vorrebbe nuocere al Brasile? Un paese dell’America Meridionale, multietnico, a prevalenza della classe media, politicamente indipendente dalle principali fazioni dell’odierna instabilità internazionale. Non c’era del resto alcun intento deleterio, nell’impresa dei due esponenti del gruppo operativo/fotografico On the Roofs, solamente il desiderio di lasciare il segno su Internet, mostrando al mondo un qualcosa di potenzialmente nuovo. Almeno, nel panorama scelto per il suo ambito divulgativo, che è stato convenzionalmente collocato, a torto o a ragione, presso quella branca del freerunning (in Europa, parkour) che sconfina talvolta nell’urbex; ovvero, l’esplorazione dei luoghi dismessi o abbandonati. Talvolta! Di sicuro, non in quel preciso caso. In cui l’obiettivo dell’exploit di alpinismo artificiale, per una scelta potenzialmente criticabile ma di sicuro in grado di attirare l’attenzione, era la celebre statua in stile Art Déco dello scultore francese Paul Landowski, completata nel 1931 e che da allora costituisce il simbolo di un intero paese nonché settima meraviglia del mondo moderno. Considerate, ad ogni modo, come la struttura della stessa fosse stata realizzata all’epoca in pietra saponaria e cemento rinforzato, non metallo come la statua americana della Libertà, risultando dunque naturalmente impervia ad ogni tipo d’usura o danneggiamento. Difficilmente, dunque, la sua struttura avrebbe potuto riportare danni per questa innegabile follia operativa.
Ciò che resta di davvero grave, dunque, è soltanto il potenziale, nonché certamente comprensibile, senso d’offesa collettiva alla vista di qualcuno, chiunque egli sia, che tenta di porsi abusivamente al di sopra di un qualcosa d’innegabilmente sacro, anche nel senso meno religioso del termine. Eppure, non è forse lo scopo dell’arte, irrompere oltre ogni convenzione… Per la sua importanza estetica, per l’onnipresenza nei libri di geografia, per le riproduzioni in scala vendute presso innumerevoli banchi di souvenir: questo è certamente un luogo di culto, per chi vi si reca con l’ottica di un vero e proprio pellegrinaggio, ma ancora prima, un monumento alla cultura. Come in un certo senso, può definirsi ogni punto di riferimento costruito dall’uomo. Vanno giustificati, dunque, questi anti-eroi arrampicatori delle occulte circostanze? Quasi certamente, no.
Ma ormai che la frittata è fatta, tanto vale comprendere le implicazioni, sia pratiche che metaforiche, di ciò che gli riuscito di realizzare. Tanto per cominciare perché le prime esulano da una qualsivoglia logica di messa in sicurezza del sito. Vitaly e Vadim, una volta saliti con la scala mobile che conduce fino al plinto alto 8 metri della statua (che ne misura fino alla cima della testa, ulteriori 30) lasciano i sentieri più battuti, e per quanto ci viene mostrato nel video, artifici del montaggio permettendo, trovano immediatamente una capanna degli attrezzi PRIVA di un lucchetto. All’interno della quale… Oh, fortuna degli audaci! C’è una scala metallica a pioli, esattamente del tipo e della lunghezza necessari per raggiungere il primo piano del Cristo, poi procedere al suo interno fino alla remota sommità. Passano le ore, cala la notte. Come vampiri delle circostanze, i due ritornano sul segno e il passo della gloria. Ma non prima di aver apposto, doverosamente dalla parte non visibile, l’adesivo dello sponsor d’occasione. Ciò che resta dunque non è altro che salire sulle spalle del gigante, per scrutare verso l’infinita inconcludenza delle cose.
C’è questo gettonato stereotipo online, soltanto parzialmente giustificato, che vedrebbe i turisti provenienti dal paese che ha Mosca come capitale come i principali disturbatori delle guardie della Regina Inglese di stanza fuori da Buckingham e St. James. Sto parlando di quel caso fin troppo noto, con i disciplinati ed abili soldati che sarebbero costretti dall’etichetta tipicamente British (per inciso, non è affatto così!) a subire silenziosamente le angustie o derisioni dei passanti. E non è di contro quindi tanto sorprendente, ritrovare i nostri due scavezzacollo di giornata, appartenenti proprio a quella nazionalità, mentre sfidano le ragionevoli aspettative di rispetto e reverenza verso il Grande Simbolo di una nazione. Però ecco, sarebbe certamente un grande errore, ritrovarsi ad esclamare con enfasi e rassegnazione: “I soliti russi!” Soprattutto quando si considera come le imprese del duo degli On the Roofs non siano altro che una riproposizione più recente di quanto originariamente inventato proprio dal free runner inglese James Kingston, l’uomo che lo scorso 8 novembre si era arrampicato sulla Torre Eiffel, pochi giorni prima dei gravi attentati terroristici costati la vita a 130 persone.
Che c’è di strano? Ci si potrebbe chiedere. Migliaia di turisti salgono ogni giorno sulla cima della struttura iperboloide più famosa al mondo, tramite l’impiego di scalinate e pratici ascensori. Però ecco, per inciso: lui l’ha fatto dalla parte ESTERNA. Dev’esserci un momento, soltanto un attimo fugace, in cui questi folli in grado di dimenticare la propria mortalità raggiungono uno stato di coscienza, se non proprio superiore, sfuggente. Perché chi mai può dire, tra la gente rispettosa delle circostanze date per scontate, di aver conosciuto le città dalla cima dei loro singoli elementi maggiormente amati? Fatti per essere guardati da fuori, oppure apprezzati dalla cima. Di certo mai le due distinte cose, assieme. E c’è anche una seconda finalità, decisamente più pragmatica, nella scelta di abbrancare con le proprie mani le strutture metalliche di un qualcosa come l’intramontabile Tour dell’ingegnere Eiffel, uno dei simboli più riconoscibili dell’Occidente: la quasi automatica visibilità che può donare alle proprie capacità fisiche e di sprezzo del pericolo, vista l’altezza notevole dell’intera struttura, 324 metri. Certo, anche i 30 del Cristo Redentore bastano per ucciderti nel 100% delle cadute, ma il senso comune è notoriamente difficile da soddisfare. Che poi è la stessa cosa che dire: le telecamere ingrassano, abbassano, trasformano i cavalli in muli…
Si potrebbe a questo punto creare nella propria mente una precisa scala graduata, in cui i due Russi di Rio de Janeiro andrebbero decisamente posti al di sotto dell’artista del pericolo e fotografo inglese, che è venuto prima, lavora spesso da solo ed è assurto alle cronache dopo aver scalato un qualche cosa di decisamente più alto e spaventoso. Ma la realtà è decisamente differente, perché vede i citati praticanti dello sport estremo come del tutto comparabili nell’abilità, la fiducia in se stessi e la capacità nello scegliere sfide in grado di irrompere tra i titoli dei quotidiani, fattori di contesto permettendo. Gli stessi On the Roofs, lungi dal limitarsi a semplici statue di qualche decina di metri, furono famosi in passato per alcune imprese assolutamente degne di nota, come la scalata negli ultimi due anni dei grattacieli cinesi della Shangai Tower (650 metri) e lo Shenzen Centre (660 metri) rispettivamente, all’epoca, il secondo palazzo più alto al mondo dopo il Burj Khalifa di Dubai. Imprese condotte tramite l’applicazione dello stesso metodo, che richiedeva un soggiorno notturno in sacco a pelo presso i piani elevati dei palazzi ancora in costruzione. Questo perché il modo più semplice di raggiungerne la cima, secondo quanto pianificato dai due ninja urbani, era stato quello d’introdurvisi durante le festività dal capodanno cinese, quando la maggior parte del personale di sorveglianza si trovava a casa con la propria famiglia. A quel punto dunque, una volta raggiunta l’immancabile figura metallica della gru edilizia sospesa verso il vasto vuoto, occorreva attendere le circostanze meteorologiche adatte, prima di avventurarsi verso quell’ultimo tratto di salita verticale, che persino attraverso il filtro di una telecamera digitale, risulta estremamente efficace nell’indurre un vago senso di vertigine latente. Soprattutto nel caso della Shangai Tower quando, nonostante la pazienza e le migliori intenzioni, ci si era messa una foschia ambientale di fondo, dovuta probabilmente ad un misto di nebbia e smog, ulteriormente valida ad aumentare l’aspetto ultramondano delle circostanze.
Fuori centro, in mezzo alla metropoli, sopra le statue e sulla cima dei palazzi più o meno solitari. Con il recente diffondersi del mito del free running, che nonostante i presupposti si ostina ad attrarre un numero di proseliti in costante crescita, nessun luogo sembra più essere al sicuro. Una parabola esemplificativa si potrebbe, forse, rintracciare in quest’altra impresa di Kingston, che lo aveva portato la scorsa estate fin sulla cima dell’iconico supporto ad arco per il tetto del più grande stadio coperto al mondo, il Wembley di Londra. Perché nella descrizione si legge quanto segue “Lo stunt…” [sottinteso: pubblicitario] “…è stato condotto con l’approvazione del personale della sicurezza e sotto la supervisione di personale di soccorso medico addestrato.” [vorrei sapere che facevano se cadeva…] Il cerchio, dunque, si era finalmente chiuso. Quanto originariamente nato come una forma di vandalismo concettuale, in grado di violare il senso e la logica sacrale dei maggiori monumenti mondiali, si era anch’esso trasformato in uno strumento valido a pubblicizzare, vendere, condurre innanzi il senso commerciale della globalizzazione. Purtroppo? Finalmente? Soltanto i coraggiosi osano, laddove le aquile sorvegliano maestose il cielo. Ma anche il remoto nido, necessita di un certo grado di attenzione. E i pulcini, specie se carnivori, dovranno pur mangiare…