Non c’è proprio nulla di tremendamente disgustoso nella procedura affine alla presentazione di un cibo di strada, ma in realtà praticata dai migliori ristoranti della prefettura di Ibaraki, che consiste nell’appendere un particolare pesce abissale del nord del Giappone, di nome anko, a un tripode dall’aspetto vagamente patibolare. Onde poi procedere, nel corso di un pregno quarto d’ora, a sezionarlo e suddividerlo nei suoi sette “tesori”, ciascuno egualmente importante per la preparazione di una zuppa stufata tipica di questi luoghi, considerata al tempo stesso salutare ed assolutamente deliziosa. Perché quindi, provare un senso di ribrezzo verso l’animale già sacrificato, all’estrazione dal suo mare di appartenenza, e poi appeso per la parte inferiore della bocca a quel sottile gancio, pendente da una struttura dal progetto semplice nonché essenziale? Perché fare una smorfia al primo taglio delle pinne, seguito dall’incisione effettuata, con coltello affilatissimo, immediatamente sotto la mascella, cui fa seguito la rimozione della pelle e poi degli organi migliori? (Quasi) tutto si usa, del pesce anko, come del resto avviene per il tipico maiale, ma diversamente da quest’ultimo ogni componente commestibile, nessuna esclusa, finisce nella stessa pentola parte di una speciale occasione conviviale. La prassi delle nabe, ovvero zuppe con verdura cotte nella pentola a vapore, viene del resto definita a volte “la fonduta d’Oriente” a causa della consumazione affine all’usanza svizzera del caquelon, che consiste nel portare il piatto, ancora bollente, al centro della tavola, invitando i commensali a estrarne il contenuto in base al proprio gusto e relativa convenienza. Il fatto che qui si usino delle lunghe bacchette per estrarre gli ottimi bocconi arroventati, invece del nostro tipico spiedino, potrebbe già bastare a incutere un certo latente senso d’inadeguatezza. Ma il vero problema di un’occidentale impreparato, posto di fronte a questo piatto tenuto in alta considerazione dai locali, sarà considerare l’effettiva provenienza del suo contenuto più pregiato, estratto dall’approssimazione ragionevole di una creatura aliena.
È una scena cui si assiste spesso lungo le banchine della città di Mito, capitale regionale, o ancora meglio presso centri periferici maggiormente legati alla vita costiera, vedi ad esempio Oarai, o l’insediamento portuale al confine con la prefettura di Fukushima, Hirakata, un tempo definito capitale nazionale dell’anko. Che negli anni si è trasformata in una sorta di spettacolo, particolarmente amato dai turisti, in cui intrattenitori consumati, come il qui presente Hiroshi Aoyagi, colgono l’occasione per mettere in scena una sorta di micro-lezione di biologia. Si tratta tuttavia anche di un rituale che spicca per il senso pratico, legato a un’effettiva quanto reale necessità: tagliare a pezzi uno dei pesci più grossi, e al tempo stesso mollicci, che siano mai stati portati fino ad una spiaggia con l’intento di mangiarli. L’anko può pesare fino a 30 Kg, anche se gli esemplari più saporiti, secondo la sapienza popolare, raramente superano i 10 Kg. Ma se un cuoco, non importa quanto esperto, dovesse tentare di affettare una qualsiasi rana pescatrice (questo il suo nome comune, Lophius quello scientifico) ponendola sopra un tagliere, si troverebbe molto presto a gestire un qualcosa di ripiegato su se stesso, in un ingarbugliato e irrisolvibile disastro. Così nacque, si ritiene nel corso del periodo Edo (1603-1868) l’approccio risolutivo dello tsurushigiri, denominato a partire da due termini che significano tagliare (forma impersonale del verbo kiru) ed “appendere a testa in giù” (tsurushi) una dicitura originariamente riferita alla relativa tecnica di tortura, spesso usata contro i martiri cristiani impenitenti.
Ma naturalmente, considerazioni animaliste permettendo, un pesce è soltanto un pesce. La sua capacità di indurre in noi empatia dovrà essere necessariamente limitata dalle considerazioni di contesto, come quelle relativa al fatto che i maiali, o le mucche, sono notevolmente più affini al nostro essere anatomico e vitale. Né, del resto, un cuoco samurai potrebbe mai temere la bruttezza procedurale, poiché comprende che essa un punto di passaggio fondamentale verso l’estasi che viene dopo, quel gusto eccezionale che purtroppo, molti di noi non avranno l’occasione di provare mai. Purtroppo…
Si tratta, all’effettivo stato dei fatti, di una distinzione essenzialmente culturale. Che ci potrebbe apparire arbitraria: in molti conoscono la difficile storia dei burakumin, quegli individui giapponesi appartenenti ad una classe definita “impura”, almeno secondo l’etica shintoista, incaricati dalla società a mansioni di macelleria o attinenti alla conciatura delle pelli. La cui vicenda sociopolitica, che ricorda da vicino il concetto degli intoccabili del subcontinente indiano, è stata a più riprese fatta oggetto di studi d’integrazione e tentativi di risarcimento da parte di alcuni schieramenti al governo. Persino oggi, per quanto sembri incredibile a dirsi, i discendenti dell’antica e sfortunata casta vengono discriminati dalla società e sul posto di lavoro, con liste di nomi fatte circolare occasionalmente in gran segreto tra le sedi delle principali compagnie nazionali. Eppure il cuoco di Ibaraki, che taglia a pezzi l’anko sotto gli occhi di un pubblico estasiato, è sempre stato un eroe popolare, un campione cittadino estremamente amato e celebrato. Possibile che per la sua opera evidentemente autoptica, così stilisticamente crudele e macabra, il popolo giapponese avesse scelto di fare un’eccezione di mera convenienza? O forse siamo soltanto noi, dotati di una concezione di fondo differente, a non vedere la bellezza che riesce a palesarsi attraverso lo tsurushigiri…Un susseguirsi di gesti attentamente calibrati, in cui qualsiasi errore, anche minimo, renderebbe vano il sacrificio del nostro vicino oceanico e troppo gustoso! Ma vediamo, un po’ più nei dettagli, come si svolge l’evento.
“Questo è l’anko, guardate com’è morbido.” Esordisce quasi sempre Hiroshi Aoyagi, procedendo quindi nel colpire un paio di volte il ventre della bestia appena trapassata, poiché la rana pescatrice va mangiata se possibile poche ore dal momento della pesca, prima che la sua carne assuma un gusto acidulo e quindi lontano dall’umami, croce e delizia della cucina giapponese. Quindi procede, come accennato sopra, nelle prime battute dell’evento, che consistono nella rimozione delle pinne ventrali, usate in vita dal pesce per scivolare sul fondale (“Questo è il secondo boccone più delizioso!” Sghignazza lui) e lo spellamento dello stesso, stranamente simile all’apertura di un sacco. La pelle stessa, del tutto priva di squame come quella di un pesce gatto, viene quindi messa da parte, in quanto costituisce il secondo dei sette “tesori” tenuto in alta considerazione per il suo contenuto di collagene, sostanza utile a curare le afflizioni…Della pelle. Chi l’avrebbe mai detto!
Si procede poi con l’apertura della cassa toracica, passaggio necessario per raggiungere l’interno prelibato e tutti i suoi tesori. “Guardate bambini, anche le ossa dell’anko sono morbide” fa a questo punto il cuoco, effettuando una dimostrazione pratica dall’innegabile chiarezza divulgativa. Per chi avesse dubbi: si, anche quella roba ossuta lì, si mangia. Con un paio di tagli estremamente precisi, a quel punto, si rimuovono le branchie, che costituiscono, diversamente da quanto succede nella maggior parte degli altri pesci, un’altra parte commestibile ed anzi talmente stimata, per la sua consistenza e il sapore, da costituire la quarta “parte preziosa” della rana pescatrice. In questa fase importante che il cuoco maneggi i suoi strumenti tenendo conto della direzione di taglio, visto come i coltelli giapponesi, diversamente dai nostri, siano affilati soltanto da una parte. Tra gli sguardi rapiti dei presenti, si passa quindi al momento clou dell’evento: lo sbudellamento. Dal corpo sempre più aperto della creatura defunta si estrae quindi l’ankimo, ovvero il suo fegato, un ingrediente tanto gustoso da essere talvolta definito foie gras d’Oriente. Le sue presunte doti curative sono tutt’ora tenute in alta considerazione dalla medicina tradizionale cinese. Ed è questo, il quinto pezzo buono del pesce. Al che fa sèguito la rimozione dello stomaco, un taglio estremamente sostanzioso, visto come tale parte anatomica parta in effetti direttamente dall’apertura della bocca e si estenda fin quasi alla coda dell’anko, che per tenervi all’interno le prede catturate fa unicamente affidamento alla sua particolare dentatura, rivolta verso l’interno, che rende una precipitosa fuga pressoché impossibile a chiunque, tranne le prede più piccole e comunque meno nutritive. Un altro passaggio particolarmente amato da grandi e piccini è l’estrazione delle ovaie (come da migliore tradizione del caviale di Ibaraki) che Hiroshi Aoyagi in particolare, il cuoco mostrato in apertura, ha l’abitudine di dispiegare in modo spettacolare, creando l’accenno di un paio di ali di farfalla traslucide ai due lati della carcassa ormai smembrata. Un momento di grazia e poesia nel mezzo della sua opera per il resto piuttosto antiestetica, che in genere riesce a strappare un applauso, o almeno una risata sincera, dalla maggior parte dei presenti. Chiude l’operazione, la rimozione della carne della coda, settimo ed ultimo degli ingredienti regalati dalla rana pescatrice all’umanità in attesa. La mascella appesa al gancio del tripode, qualche volta con scheletro annesso, viene lasciata in genere appesa fuori dall’ingresso del ristorante, non tanto come mònito contro una vendetta proveniente dai flutti antistanti, come potrebbe forse sembrare, quanto per attrarre i potenziali clienti col miraggio di una pietanza che persino qui, nella maggior parte dei contesti sociali, non viene certo preparata quotidianamente, né a giorni alterni.
Alla fine, chi può dire veramente cosa è giusto e sbagliato? Sembra esserci una sorta di perversa soddisfazione, nel sistematico smembramento di quella che fino a poco tempo prima era stata una creatura vivente, sotto l’occhio scrutatore di un pubblico presente si, ma per i motivi più diversi. Non mancano del resto, sopratutto tra i più giovani presenti all’atto dello tsurushigiri, smorfie di disgusto e gridolini, a riconferma del fatto che anche nel suo luogo patrio, la preparazione siffatta di una zuppa tanto amata sia ricercata per il suo valore impressionante, la capacità di coinvolgere e suscitare una reazione, costi quel costi. Ma è pure vero che dovendo morire, come purtroppo deve, l’orrido Mostro non potrebbe ricevere onori più sinceri: trovarsi per l’ultima volta al centro delle attenzioni di un capannello di persone, perpetuando col suo sacrificio un’antica e stimata forma d’arte culinaria. La sua fine, la nostra continuità. In Giappone esiste un modo di dire: “Ad Ovest c’è il fugu [come] ad Est, l’anko.” Il che, considerando il notorio effetto letale del fegato del primo citato (il temuto pesce palla) mentre il secondo può curare ogni male, mi rende piuttosto facile decidere dove vorrei trovarmi…