Ora, non è per mettervi paura, pesci. Ma quando sul finire dell’autunno, e pure dopo, tra la sabbia si agita una forma frastagliata nell’Oceano del Pacifico, tra Malesia, Giappone, Indonesia ed Australia, non si tratta esattamente di un residuo vegetale. Che poi tra l’altro, voi sapete anche soltanto vagamente, cosa sia un albero? Avete mai lasciato scivolare il vostro sguardo tra le fronde? Accarezzando nel contempo i nodi di quelle radici cervellotiche o contorte? Per assaggiare poi la ghianda, il frutto, il pomo che determina la gravità, tra l’erba verde come un’alga bioluminescente…Per l’appunto. Fra due cose simili, non potete non comprendere la differenza. L’intenzione, ribadisco, non è indurre in voi timore. Perché lo spavento permanente, fin da quando esiste la catena alimentare è il primo passo di un percorso che può rendere guardinghi. Pericolosa quanto un’arma, eccome, soprattutto per la-parte-che-incombe. Poiché le prede normalmente non si preoccupano, affidandosi al fallimentare istinto. Ma se sapessero, profondamente, la realtà di quel pericolo che incombe, assai probabilmente eviterebbero quegli altri dal risucchio disastroso. Lasciandoli a bocca asciutta, per così dire (Ah! Ah!) Che poi non è tanto scontato, giungere a comprendere la provenienza della soluzione di caccia degli Scorpaenidae, cui appartiene anche la classe di creature che noi del Mediterraneo usiamo definire scorfani, notoriamente brutti eppure, in qualche modo, affascinanti. Passare inosservati non è un tratto che si possa facilmente isolare dal punto di vista evolutivo, a meno che non intervengano fattori di contesto estremamente favorevoli. Nel corso dei secoli e millenni, quando ancora i continenti erano uniti nella loro inarrestabile deriva, gli antenati di questi tremendi nuotatori erano pesci come gli altri, perché chiaramente sulla Terra c’era un singolo tipo di ciascuna cosa: un frutto, un fiore, un verme, un solo artropode camminatore. Poi vagheggiando e galleggiando, si è palesata la questione di quanti più spesso raggiungessero l’età della pensione, vale a dir la senescenza, ovvero quel momento in cui, duplicato il codice biologico verso la prossima generazione, il pesce riceveva il dubbio dono dell’invecchiamento, assieme alla soddisfazione di aver fatto quanto di dovuto (per quanto possa avere un tale sentimento, l’abitante dei primordi umidi e profondi). E quel qualcuno, guarda caso, non riusciva assolutamente a indurre la reazione preventiva di cui sopra, nel nemico: zero tremori, niente brividi, totale indifferenza. Perché sembrava…Qualcosa…Di…Diverso.
Sia chiaro, a questo punto: fra tutti i predatori da imboscata del genere Scorpaeniformes, di cui fa parte come dicevamo la famiglia degli scorfani ma anche quella dei Synanceia, che poi sarebbero i “veri” pesci pietra, non c’è probabilmente un attore maggiormente consumato dell’Ablabys taenianouts, altrimenti detto pesce-vespa-cacatua. Persino il nome può gettare nella confusione. Perché tenta di fare riferimento, con l’uso di una doppia similitudine, ad alcuni aspetti contrastanti dell’animaletto in questione, che per inciso misura attorno ai 15 cm di lunghezza. Il riferimento ai pappagalli, se non fosse già eccessivamente chiaro, deriva dall’osservazione della cresta superiore, in realtà un’unione ininterrotta tra la pinna dorsale e quella caudale, che vista la forma del corpo compresso lateralmente, come spesso avviene in queste specie, non fa che accentuare un certo senso di grazia innata ed energico idrodinamismo. Eppure a conti fatti, ciò è soltanto un’apparenza: l’Ablabys, in effetti, non si muove in modo eccessivamente agile, flessuoso o scattante. Per il semplice fatto che un tale approccio procedurale alla vita sarebbe controproducente alla sua eterna masquerade, fondata sull’apparente cancellazione della propria stessa esistenza.
Così le foglie cadono, e nessuno sa da dove. Agitate delicatamente dall’abissale controparte dei venti, le forti o rapide correnti, e il pesce scivola felice come un granchio, agitandosi soltanto il necessario. A guardarlo, fa un po’ ridere: un colpo di pinna occasionale, poi si adagia giù da un lato, come estremo tentativo di convincimento. Povero pesce, povero anche, chi ci cade. Ma se a questo punto vi fosse venuta voglia di toccarlo, accarezzarlo come uno squamoso barboncino, credo sia giunto il momento di tornare alla questione dei suoi molti nomi: pesce VESPA cacatua. Del genere degli SCORPIONIDI! Si, per dire. Siamo di fronte a un esponente di una delle classi di creature acquatiche più velenose del pianeta.
“TU non vuoi mettere il piede sopra il pesce pietra” s’intitola appropriatamente questo breve segmento prodotto per lo Smithsonian Channel, lo spazio di divulgazione internettiana di quello che potrebbe facilmente definirsi il più famoso museo statunitense. Proprio no, te lo confermo. Ed ecco perché: la simpatica creatura, come del resto il suo parente fogliforme, presenta l’utile strumentazione di un numero variabile tra gli 11 e i 17 aculei nascosti tra i raggi ossei delle proprie pinne dorsale, laterali e posteriore. Molti dei quali, neanche a dirlo, sono forniti dalla casa madre con l’accompagnamento di appositi organi, in grado di produrre una pericolosa tossina sensibile al calore, che può causare, per citare il testo medico riportato da Google, All Stings Considered (Craig Thomas, Susan Scott – 1997): dolori lancinanti alla parte colpita, ansietà, mal di testa, nausea, vomito, diarrea, sfoghi cutanei, sofferenza addominale, sudore intenso, pallore, catalessi, paralisi degli arti, febbre e difficoltà respiratorie. In qualche raro caso, soprattutto in pazienti particolarmente giovani o anziani, morte. Quindi certamente, l’abbiamo determinato, l’ipotetica volontà di compiere il pre-citato passo falso, non ce l’hai. Ma il problema di fondo è più che altro a monte, ovvero la tua presunta capacità di evitarlo. Per il semplice fatto che la mimési del pesce è così straordinariamente efficiente, ed il suo ambiente naturale tanto simile a lui, da renderlo del tutto indistinguibile dal resto del fondale. E in effetti, niente affatto strano a dirsi, ogni anno centinaia di persone restano colpite nella sola Australia da questa amabile creatura, benché i casi riportati di utilizzo di un siero non avessero ad esempio superato i 25 nel periodo tra 1989 e il 1990 (dati più recenti non sembrano facilmente reperibili). Ciò perché nella maggior parte dei casi, la puntura viene trattata con metodi per così dire tradizionali, come l’immersione della parte in acqua molto calda, una procedura che oltre ad anestetizzare il dolore, si ritiene, dovrebbe contrastare l’effetto del veleno. Occorre quindi rimuovere attentamente le parti delle spine che spesso, allo sfortunato incontro piede-pesce, tendono a rimanere conficcate nella pelle, pena l’inevitabile sopraggiungere di un’infezione causata dalla loro naturale copertura di muco. L’ultima contromisura convenzionale, prima di effettuare il passo ad ogni modo fortemente consigliato di una visita presso un centro medico attrezzato, è l’applicazione di un impacco di aceto, sostanza che a quanto pare e per ragioni poco chiare, avrebbe fantastiche capacità anestetiche rispetto all’attacco di questi animali. Proprio a tale scopo, presso alcune spiagge dell’Australia e fino alle remote Hawaii, dove sono attestati pesci appartenenti allo stesso ordine, vengono tenute delle apposite bottiglie del pregiato condimento, da usarsi al fine di assistere i bagnanti maggiormente sfortunati. Nel frattempo gli aborigeni d’Oceania, depositari di più antiche conoscenze, usano inscenare al seguito dell’incidente un rituale mistico del genere corroboree, in cui viene inscenata con canti e danze la morte della persona colpita dagli aculei del pesce. Pare che a seguito di ciò, gli spiriti tendano a ritrarsi dal malcapitato, lasciandolo procedere serenamente lungo la sua strada, claudicando appena un po’.
“Sono una foglia, sono una foglia. Iiih, guarda come oscillo nella corrente!” Oppure: “…; …; …” (pietra, immobile, congelamento, stasi completa ed assoluta). I pesci che tendono agguati sembrano trovare la propria fortuna negli estremi, tentando di apparire innocui proprio perché innocui nell’apparenza, oppure semplicemente, di non essere visti. Ma come avviene per ogni clan che si rispetti, anche qui esistono le pecore nere, le schegge impazzite, i presunti mostri che traggono piacere dal deviare dalla convenzione. Sempre considerando la problematica da un punto di vista evolutivo, s’intende: sappiamo bene quella storia secondo cui, ad un certo punto, gli abitanti degli abissi primordiali scelsero di giungere alle rive di Pangea, l’emersa. E su questa terra, camminando faticosamente con le pinne, iniziarono un processo che le vide gradualmente tramutarsi in zampe, quindi artigli, infine piedi e poi ruote d’automobili e di motocicli. Negli Stati Uniti, perennemente tesi a quel confronto soggettivo tra “teoria” evolutiva e “dottrina” del creazionismo, esiste in particolare un simbolo di riconoscimento, dell’antico simbolo del pesce cristiano delle catacombe romane, l’ichthýs, modificato in modo irriverente con l’aggiunta delle zampe. I suoi sostenitori lo chiamano il Darwin Fish. Ora, tuttavia, non molti sapranno che un pesce con le zampe in effetti esiste. Ed è eccezionale addirittura in questa famiglia velenosa e furba, visto che lo chiamano pesce del diavolo, o in alternativa ghoul marino, o ancora, goblinfish. Si trova diffuso nell’intero Indo-Pacifico. Persino il nome scientifico risulta piuttosto preoccupante: Inimicus didactylus. Basta in effetti un attimo di osservazione per comprendere come nel suo particolare caso, l’approccio all’eliminazione di un ipotetico senso di paura dei suoi simili sia stato lasciato scivolare decisamente in secondo piano. Il pesce in questione, come i cugini dall’apparenza più prettamente rocciosa, appare ricoperto di verruche e bitorzoli, oltre che varie escrescenze parassitarie ed alghe che gli crescono sul dorso. Già questo lo rende simile ad un rospo satanico fuoriuscito da un quadro di Hieronymus Bosch. Ma a colpire maggiormente la fantasia, in definitva, resta quello che c’è SOTTO: quattro zampe lunghe, sottili e articolate, simili a quelle di un ragno, effettivamente derivate da un adattamento delle pinne pettorali. Così il notevole mostriciattolo, appartenente al genere dei pesci demersali, ovvero che giacciono sul fondale ma nuotano attivamente quando necessario, talvolta decide di non fare nessuna delle due cose, ma piuttosto cammina in modo stranamente sinistro, aggrappandosi e portando avanti il suo peso grazie a tali chimerici arti. La vista di un pesce che arranca faticosamente sul terreno, come una manifestazione acquatica del ragno Shelob del Signore degli Anelli, non è particolarmente facile da relegare sul fondo della propria coscienza. Considerate pure che queste creature, nella maggior parte dei casi, dispongono di un meccanismo per intrappolare l’acqua all’interno delle branchie. Ciò gli è particolarmente utile, in qualità pesci che vivono in prossimità della riva, nei casi in cui restino intrappolati in delle secche anche per ore, senza subire nessun tipo di conseguenza. Sembrando rocce del tutto innocue, finché qualcuno non vi poggia il piede sopra, finendo per scoprire quali siano i veri abissi della sofferenza umana. Ora, è scontato che l’ipotetica capacità di muoversi zampettando tra un ombrellone e l’altro, apre la strada a tutta una vasta serie di nuove terribili malvagità…