Più che una semplice abitazione, lo stereotipo che nasce da una soluzione architettonica tutt’altro che scontata e fatta corrispondere, nel senso comune, a uno stile di vita rustico e rinunciatario, privo delle più basilari risorse o pratiche comodità. Quando in effetti la tipica abitazione delle popolazioni Inuit del nord del Canada, particolarmente utilizzata nell’Artico centrale e presso la regione di Thule della gigantesca isola di Greenland, è un concentrato straordinario di sapienza ingegneristica pratica, precisione costruttiva e mistica sapienza proveniente dagli spiriti degli antenati. E per rendersene conto, in questo preciso istante, non c’è niente di meglio che guardare il presente video prodotto nel 1949 dall’ente nazionale cinematografico canadese, in cui viene mostrata l’opera di due nativi di ritorno da un’escursione di ricerca del cibo tra le nevi eterne, che prima di dirigersi verso territori più accoglienti decidono di fare sosta presto un punto di scambio, a poca distanza da alcuni edifici costruiti con i metodi convenzionali. “I nativi ammirano ed invidiano le costruzioni dell’uomo bianco.” Si preoccupa di specificare la voce fuori campo del narratore Doug Wilkinson, alimentando una narrativa più che largamente data per scontata all’epoca, come del resto per alcuni lo è anche adesso. Quindi prosegue, con tono enfatico e convinto: “Tuttavia, essi sono anche nomadi e amano spostarsi. Se la caccia si rivela insoddisfacente, quando la casa appare vecchia e consunta…Allora non esiteranno a costruirne una completamente nuova.” E a giudicare dall’efficienza e rapidità con cui i protagonisti giungono al prodotto completo, nel giro di appena un’ora e mezza, non è difficile credere a una simile affermazione: tra di noi, c’è chi impiega un tempo superiore per montare la sua tenda!
Dopo un breve scorcio del prodotto completo, offerto dalla regia con finalità di dichiarazione d’intenti, si passa subito a uno schema disegnato, che rappresenta l’ordine in cui vengono effettivamente posti i blocchi l’uno sopra l’altro, che diversamente da quanto si potrebbe forse pesare, segue lo schema specifico di una spirale inclinata. Le pareti dell’iglù, in effetti, non derivano da una serie di strati sovrapposti l’uno all’altro come dei mattoni, ma da un’unica rampa che ritorna su se stessa, a partire da un prima serie ascendente di elementi, appositamente tagliati tramite l’impiego di un grosso coltello in avorio di tricheco (o più semplice acciaio) incidentalmente, l’unico attrezzo necessario per la costruzione. Questa linea edificata girerà normalmente in senso orario, ma talvolta all’opposto, nel caso in cui il suo costruttore sia in effetti mancino. Wilkinson a questo punto spiega come possano esistere diversi tipi di iglù, sostanzialmente suddivisi in base all’utilizzo ritenuto più probabile: un rifugio temporaneo, come questo, potrà vedere l’impiego di blocchi tagliati in modo relativamente impreciso, al fine di velocizzare l’implementazione. Mentre per un’abitazione familiare, facente parte di un villaggio che dovrà restare abitato per l’intero inverno, ciascuno di essi viene ponderato molto a lungo, misurato e qualche volta accantonato, onde ricercare una maggiore perfezione. In entrambi i casi, tuttavia, sarà essenziale scegliere il punto giusto per dare l’inizio all’impresa, soprattutto visto come il materiale usato per la struttura sia normalmente proveniente dal suo stesso spazio interno, che proprio in funzione di ciò si troverà più in basso del livello del terreno. Ciò è considerato particolarmente desiderabile, perché permette, assicurandosi che rimanga una zona per dormire sopraelevata, di intrappolare tutto il calore all’interno dell’abitazione, rendendola in massima parte ciò che veramente è: un luogo vivibile nel territorio maggiormente inospitale del pianeta. Da -40° a fino a +15 gradi Celsius, grazie a uno strato di appena una trentina di cm di neve compattata, divisa dall’esterno grazie ad una o più pelli d’animali. Non è incredibile? Ed a questo punto potreste chiedervi, alquanto giustamente, che cosa in effetti garantisca una simile escursione termica. La risposta, naturalmente, può essere soltanto una: il fuoco. Ma persino questo semplice elemento, affinché possa esistere in un luogo simile, necessità di particolari approcci alla necessità di fondo…
Il cuore stesso di un’iglù, così come il processore per un computer, o il naso rosso e lampeggiante della renna Rudolph per la slitta di Babbo Natale, si trova in corrispondenza di un particolare oggetto, anch’esso frutto di sapienza tramandata dai popoli degli Inuit da generazioni senza tempo. Il suo nome, in una delle molte traslitterazioni possibili dal complesso alfabeto sillabico della lingua Inuktitut, è qulliq, un termine che può essere tradotto come “lampada ad olio”. Ma sarebbe certamente riduttivo pensare a un simile caposaldo della dotazione artica come un mero ausilio all’illuminazione, quando in effetti ciascun singolo pezzo di pietra ollare concava (steatite) a forma di mezzaluna, dotato di sostegni costruiti con legno di recupero spesso trasportato dalle onde, possa assolvere a numerose finalità, ivi incluso il riscaldamento, la cottura del cibo, l’asciugatura degli indumenti a seguito di una lunga e faticosa traversata…E tutto mediante un’approccio tecnico al tempo stesso semplice, nonché geniale: la riempitura del recipiente di una certa quantità di grasso di foca o balena, all’interno del quale viene posto uno stoppino fabbricato con il muschio artico o gli steli intrecciati delle piante Eriophorum (ingl. cottongrass). L’impiego di un apposito bastone, definito taqqut, può permettere di spingere più a fondo quest’ultimo nel grasso, qualora si ritenga necessario accrescere l’entità della fiamma. L’immagazzinamento e preparazione del grasso è di per se piuttosto interessante, con gli Inuit che tradizionalmente dispongono la sostanza all’interno di un recipiente sopra l’ingresso dell’iglù, dove il clima severo dell’Artico si occuperà di congelarlo totalmente. Quindi, man mano che se ne presenta la necessità, lo colpiscono ripetutamente con un martello, affinché diventi carburante per qulliq.
L’accensione di una fiamma all’interno dell’iglù garantisce, oltre che una temperatura idonea al soggiorno dei suoi abitanti, anche una maggiore solidità strutturale, visto come la neve compattata, sciogliendosi parzialmente, tenda a calare di volume, sprofondando ulteriormente all’interno della linee guida strutturali concepite al momento della sua edificazione. Da un punto di vista matematico, in effetti, l’iglù non ha affatto la forma di una cupola, ma di un catenoide, ovvero la forma che si ottiene dalla rotazione sull’asse X di una curva catenaria, superficialmente equivalente a quella di una catena sospesa tra due punti. Ciò gli consente di avere una distribuzione ideale tra altezza e diametro, diventando estremamente resistente. Una iglù ideale, solidificata dall’effetto del vento, con le intercapedini riempite da neve fresca usata a mò di calce e l’interno ricongelatasi, dopo l’effetto suagliante del qulliq, può facilmente sostenere il peso di una singola persona sdraiata al centro del suo tetto, e a seconda dei casi, anche molto più di questo. Ma riuscire nell’impresa di costruirla idoneamente, per chi non è nato in tali climi e ambienti culturali giungendo alla sapienza per osmosi, è un’impresa tutt’altro che semplice da portare a compimento.
Lo dimostrano gli innumerevoli video presenti su YouTube, in cui la maggior parte dei prodotti architettonici rilevanti proposti al pubblico risultano in effetti appartenere alla categoria ben più accessibile del quinzhee, una parola di origine athabaska che si riferisce alla pratica di creare un cumulo di neve sufficientemente grande, quindi scavare il suo interno ed adibirlo a luogo della propria abitazione. Tale tipo di rifugio, nel suo ambiente d’origine, non sarebbe che una risorsa rigorosamente temporanea, visto come per quanto possa essere compatta la neve utilizzata, raramente potrà resistere più a lungo di qualche giorno o al più una settimana. I quinzhee (o forti di neve, come vengono definiti nella loro accezione più giocosa) inoltre hanno la pessima abitudine di crollare su se stessi nelle condizioni climatiche particolarmente avverse, ovvero proprio quelle circostanze in cui risulterebbero maggiormente necessari. La loro costruzione, tuttavia, risulta molto meno ostica per un principiante. Ciò che stupisce particolarmente, nella costruzione del vero iglù, è il momento in cui ci si trova in prossimità della cima, quando i blocchi che devono essere disposti, rigorosamente dall’interno, assumono un angolo più acuto, venendo fatti aderire ai loro predecessori in un modo che parrebbe sfidare le leggi stesse della gravità. Ed è particolarmente difficile superare un tale preconcetto d’impossibilità, proprio perché noi uomini del vasto sud tendiamo a interpretare i blocchi costruiti dagli Inuit come un’approssimazione del concetto di mattoni, ovvero oggetti dalla forma di un parallelepipedo e ciascuno uguale all’altro. Quando in effetti, la neve dell’iglù viene compattata in una vasta varietà di forme, che vanno da quella stereotipica al trapezio, il triangolo, persino la piramide. Ciascuna superficie, inoltre, non è affatto definita da una linea retta, ma semi-curva con la gibbosità rivolta verso l’alto. Ciò significa, in parole povere, che quando si va ad incastrare un blocco degli strati superiori, le sue estremità letteralmente abbracciano il suo predecessore sottostante, creando un tutt’uno estremamente solido e difficile da separare. Una volta raggiunta la sommità, quindi, l’apposizione del tappo finale agisce come la chiave di volta di un arco, donando un’estrema solidità alla struttura. Ad opera completata, l’Inuit che si trova all’interno, essendosi costruito la casa tutto attorno, dovrà tagliare una porta tramite l’impiego dell’inseparabile coltello.
Una costruzione architettonica come quella dell’iglù colpisce la fantasia della collettività distante, per il semplice fatto che è la più perfetta rappresentazione di un ambiente unico al mondo e il popolo che ha scelto di viverci, attraverso incomparabili tribolazioni. Osserva: un edificio che nasce in assenza di legna, pietra, calce, marmo, ferro, chiodi, qualsiasi altra cosa…Privo di tutto, per il semplice fatto che lì, non c’era nulla. Tranne spazi senza limiti, ove l’occhio possa perdersi nel grande bianco. Il che vuol significa, ribaltando i presupposti, che in effetti c’era tutto quello che serviva: la neve, il desiderio. Una volta terminata la sua utilità, l’iglù si trasforma in igloovigak (casa abbandonata) dopo un certo tempo tenderà a disgregarsi, sciogliendosi completamente nella natura. Della sua presenza, non resterà segno alcuno. Se non nella memoria dei sapienti costruttori, eternamente pronti a riprodurla, per i propri figli e i loro figli ancora. Almeno che non scelgano una vita maggiormente orientata alle comodità moderne, come del resto, sarebbe loro imprescindibile prerogativa.