Tra le prime immagini, ce n’è una particolarmente significativa: un piccolo cairn, o cumulo di pietre, costruito da qualcuno per marcare il suo passaggio, in prossimità di uno dei molti sentieri alpini che circondano quel grande picco solitario. La struttura messa in posizione dalla mano umana, senza l’uso di cemento o pozzolana ma soltanto grazie a un certo grado di equilibrio, si staglia su un fondale azzurro cielo, tra le nubi vorticanti tipiche dello spartiacque principale alpino. Quando a un tratto, d’improvviso, dalla foschia emerge una famosa sagoma, che s’innalza netta contro il nulla; è netta eppure frastagliata; la sua punta pende da una parte; nel complesso è come una piramide, o la lama del coltello. Ma è allora che, per un gioco della prospettiva, avviene l’imprevisto e l’impossibile. Perché le due cose, il macro e il micro, l’incommensurabile maestosità della natura e il giocoso gesto di un passante occasionale, vengono inquadrate l’una innanzi all’altra, in una giustapposizione che dimostra la loro apparente somiglianza. E sarebbe davvero difficile da biasimare, chiunque si sia messo, in un pomeriggio d’estate, a raccogliere ed ammonticchiare tutti quei macigni, andando a modificare artificialmente un paesaggio immutato da millenni. Perché è assolutamente condivisibile un simile gesto, di chi vedendo il bello smisurato, tenta di ridurlo a dimensioni comprensibili, per gioco e accrescimento spirituale. Poi di lì a poco, l’inquadratura si allarga: di cairns, qui ce ne sono almeno una dozzina, nient’altro che una minima parte di quelli disposti lungo i sentieri usati per raggiungere una vetta tale, estremamente tecnica e complessa, che nonostante questo viene annoverata tra le più celebri ed iconiche dell’alpinismo internazionale. Vivere l’esperienza, respirare quell’aria rarefatta, piantando la propria piccozza lungo le fessure in pietra metamorfica del brullo monte, fino all’esperienza del trionfo finale, a seguito del quale si alzano le braccia verso il cielo! Sicuri per un attimo di essere in cima al mondo, nonostante la logica ci dica di essere soltanto sulla sesta delle montagne delle Alpi per altezza, ad appena 4478 metri dal livello del mare. Già, ma come sarebbe mai possibile descrivere una tale sensazione a chi non l’ha mai provata…Offrire, tramite uno schermo digitale, uno scorcio credibile di cosa voglia dire superare totalmente il senso di vertigine, per concludere un pellegrinaggio verso il cielo?
L’ultimo a provarci, con questo video realizzato la scorsa estate ma diffuso tra il grande pubblico del web esattamente un giorno fa, è stato Tyler Fairbank della Light Owl Productions di New York City, fotografo e regista viaggiatore, che si è messo in mostra all’improvviso col rilascio in rapida sequenza di due video, questo, intitolato semplicemente Matterhorn dal nome del versante svizzero della montagna ed uno ambientato in Sud Africa, tra elefanti, giraffe e tutto il resto dell’allegra compagnia bestiale (SAFARI South Africa – è anch’esso molto bello). L’approccio di queste sue creazioni è molto interessante, proprio perché potrebbe dirsi la versione registica del gesto del costruttore di quel cumulo di pietre non a caso evidenziato, che in qualche maniera riduceva ciò che aveva intenzione di onorare, non certo per sminuirlo, bensì allo scopo di creare una feconda giustapposizione. Il che significa, in una creazione artistica orientata sul montaggio progressivo, come per l’appunto è un qualunque video, rimpicciolire l’asse del tempo, creando quella che viene comunemente definita una sequenza di time-lapse. Ma qui in effetti, viene compiuto pure il passo successivo…
I video migliori di questo autore appartengono evidentemente a un sottogenere dall’origine piuttosto recente, perché inerentemente associato allo strumento tecnico delle foto e videocamere digitali. Si tratta in poche parole, per usare il termine coniato nel 2012 dall’autore di un qualcosa di simile incentrato sulla città di Berlino, Shahab Gabriel Behzumi, di una sequenza in hyperlapse. Quel settore creativo, per la prima volta messo in pratica attorno al 2010 dal regista americano Dan Eckert, che consiste nel puntare la telecamera in un punto fisso, spostandosi a intervalli regolari per creare l’illusione del movimento. Occasionalmente, come da usanza del particolare àmbito, si impiega un potente zoom per dare risalto a qualcosa di mobile e distante, come un passante o un animale, improvvisamente portato in primo piano come se lo spettatore si fosse, in qualche maniera, reincarnato. Ed è forse proprio per avere una maggiore quantità di simili soggetti, che l’ambientazione più sfruttata dagli hyperlapse è quella di tipo urbano, spesso in associazione e col supporto di particolari organi istituzionali al servizio del turismo. Si osservi, per comparazione e magari attraverso il mio stesso articolo di qualche tempo fa, l’opera di un altro famoso autore e chiara ispirazione del qui presente alpinista, quel pluripremiato JT Singh che occasionalmente assurge di nuovo alle cronache, per alla messa in opera di un altro sguardo atipico su qualche celebre città del mondo. L’ultima volta, ad esempio, capitò in occasione della sua visita presso il più improbabile degli ambienti situazionali: la capitale nordcoreana di Pyongyang. Ciascuno di questi video da pochi minuti, normalmente, è il frutto di mesi interi di lavorazione, con spostamenti in location scelte ad arte, escursioni investigative e l’occasionale sfruttamento di sistemi per la registrazione aerea, Viz. droni.
Eppure, forse proprio perché la tecnologia si associa normalmente alla modernità, fra tutti questi nomi di primo piano nel settore del montaggio iperveloce e mobile, nessuno aveva mai pensato a una realizzazione come quella di Fairbank, fondata, nella sua parte principale, unicamente sulla forza estetica della natura. Tranne che per i citati cumuli di pietre, e un altro momento notevole sul finale, in cui compaiono una serie di luci lampeggianti sul versante svizzero della montagna, riprese direttamente da un’altura sopra il paese di Zermatt, nel Canton Vallese. L’origine di una tale occasione, tanto insolita quanto affascinante, può costituire in se stessa una storia degna di essere citata.
Nella storia dell’alpinismo moderno, non c’è forse un singolo altro picco che sia stato in grado di lasciare un segno tanto significativo quanto quello del Cervino, un monte posto dinnanzi agli occhi della nostra civilizzazione fin dall’epoca di Augusta Prætoria Salassorum (l’odierna Aosta) quando, in funzione di un clima comparabilmente più mite di quello odierno, proprio alla sua ombra sorgevano innumerevoli e fruttuose fattorie. E talmente fertile, era quel suolo ed anche quello della stessa montagna, che gli antichi la chiamavano Mons Silvanus, ovvero la Cima Boscosa. Proprio da questo termine, attraverso la mutazione lessicale francese, si è giunti quindi all’appellativo di Servin, erroneamente associato a partire dal XVIII secolo al concetto dell’animale cervo, principalmente per un errore di trascrizione di Horace-Bénédict de Saussure, cartografo del Regno di Sardegna. Dal 1800 in poi, quindi, in concomitanza la nascita del movimento internazionale dell’alpinismo, furono effettuati i primi tentativi di scalata, tutti più o meno fallimentari. La caratteristica composizione geologica di questo monte, infatti, lo rendeva particolarmente ostico persino per gli scalatori esperti, e i primi a giungere relativamente vicino alla cima nel corso di quella prima generazione furono Jean-Jacques e Jean-Antoine Carrel, dovendo tornare indietro da poco più di 4000 metri dalla parte del versante italiano, nel 1861. Contemporaneamente a tale episodio, tuttavia, stava imponendosi la figura di un giovane scalatore inglese di appena 25 anni, Edward Whymper, che nel corso dell’estate successiva avrebbe tentato di salire sulla vetta ben 5 volte, talvolta anche in solitaria, ritrovandosi sempre costretto a ritornare indietro. Nel corso dell’inverno del 1864-65, quindi, l’aspirante primatista studiò approfonditamente la composizione geologica della montagna, scoprendo come, contrariamente a quanto fosse stato ritenuto fino ad allora, il versante più adatto a salire sulla vetta non era quello dalla parte del paese italiano di Cervinia ma la sua controparte svizzera, poiché la particolare inclinazione del monte offriva da quel verso una serie di appigli naturali, simili a scalini. Così, il 18 luglio del 1865, questa volta accompagnato da due compatrioti e tre guide locali, Whymper partì ancora per la vetta. Nel frattempo lo stesso rivale Carrel, dalla parte del versante italiano, stava nuovamente tentando di arrivare in cima a sua volta, assieme ad una comitiva di alpinisti italiani guidati dal politico e studioso Quintino Sella. Il gruppo degli italiani, che si sentiva sicuro di poter ottenere il primato per il semplice fatto che il versante svizzero veniva ritenuto impossibile, furono tuttavia sconfitti in velocità, e ad un certo punto, riuscendo a scorgere gli inglesi già in prossimità della cima, scelsero di ritornare indietro. Ed è così, che la vetta del Cervino fu finalmente conquistata, per l’opera e la visione di un alpinista inglese.
Purtroppo, l’epilogo della vicenda è particolarmente triste e sfortunato: nel corso della discesa Whymper e i suoi, stanchi per l’opera compiuta, iniziarono ben presto a trovarsi in difficoltà. Al punto che il membro meno esperto della spedizione, Douglas Robert Hadow, mise un piede in fallo e iniziò a cadere verso valle da un tremendo precipizio, urtando una delle guide, Michael Croz. Il peso dei due, quindi, che erano legati al resto della cordata, trascinò verso la rovina anche uno dei loro compagni, il reverendo Charles Hudson, prima che la corda, purtroppo o per fortuna, si rompesse di netto. È chiaro che le attrezzature di allora, così come le procedure di sicurezza di una disciplina nascente come l’alpinismo, non fossero efficaci e sicure come quelle dei nostri più moderni giorni. Così da quella terribile avventura fecero ritorno solo tre persone: le guide Taugwalder (padre e figlio) e Whymper stesso, che in seguito sarebbe diventato una figura di primo piano nel mondo delle scalate. Ci fu anche un indagine ufficiale, per determinare se l’incidente fosse stato evitabile, o se addirittura la corda non fosse stata tagliata intenzionalmente per avere salva la vita da parte dei superstiti, e l’intera questione ebbe una rilevanza tale, sui giornali dell’epoca, da portare qualcuno a suggerire che l’alpinismo fosse subito vietato, perché chiaramente troppo pericoloso. Fra tutte le discussioni e i propositi nati sulla storia di questa montagna, forse la più assurda ed improbabile. Da che l’uomo esiste, ha sempre messo in bilico le pietre, una sopra l’altra. E chi potrebbe mai essere il suo modello, se non l’alto massiccio innanzi a lui? Non si può guardare una simile cosa, senza pensare, prima o poi: “Vorrei essere lì sopra, prima o poi.” E tutto il resto, sono semplici dettagli. Addirittura il tempo sembra accelerare!
Mai stato sul Monte Cervino.