La zucca ripescata dal baratro dell’estinzione

Cool Old Squash

Una storia…Possibile. Aprire l’equivalente americano di una tomba etrusca, nei territori di un’antica riserva, e ritrovare in mezzo ai resti un piccolo vaso di ceramica, attentamente sigillato e risalente al tempo trascurabile di circa 800 anni fa. Per poi scuoterlo, e sentire che al suo interno c’era qualcosa. Che si muove-va. Certo, di fronte all’ampia corsa delle ruota dei secoli e millenni, un simile intervallo cronologico inferiore a un soffio di drago può sembrare relativamente poco significativo, ma pensate a quante specie di animali e piante, in un simile periodo, hanno trovato il modo per estinguersi, privandoci per sempre della loro vista e/o sapore. A fronte di simili considerazioni, quale sarebbe la cosa migliore da trovare dentro a un tale misterioso recipiente, se non semi, semi belli grossi e ancora pronti a fare quello per cui erano nati. Esattamente come il giorno della loro sepoltura, all’altro lato di una siepe metaforica così tremendamente alta, quanto ardua da potare.
Nella serie di romanzi e film Jurassic Park, gli scienziati ricreavano gli antichi mostri preistorici a partire da minuscole quantità di sangue, ritrovate all’interno dell’ambra assieme alle zanzare. Ora, questo approccio nella realtà dei fatti non potrebbe funzionare, per diverse quanto valide ragioni. Punto primo: alla morte di una cellula, questa inizia a disgregarsi. Microbi ed enzimi, lavorando alacremente, si assicurano che ogni minima parte costituente venga riciclata nella progressione naturale delle cose, lasciando ben poco di integro ed utilizzabile per una clonazione. Punto secondo: anche se si riuscisse nell’improbabile impresa, resterebbe il problema di far sviluppare l’embrione all’interno di un uovo, le cui caratteristiche biologiche restano tutt’ora largamente ignote. Non è certamente percorribile, ad esempio, la strada del trapiantare un embrione di coccodrillo all’interno di un guscio di gallina, o viceversa; troppo diversi risultano, nei fatti, i nutrienti contenuti all’interno delle rispettive micro-camere d’incubazione. A meno di praticare l’alchimia, ottenendo qualche chimerica creatura, che forse sarebbe stato meglio riservare alle cronache e i bestiari risalenti al Medioevo. Morire, ibernarsi e prepararsi a superare i secoli, attraverso l’impiego di una forma simile ad un minerale. Per tornare, un giorno, a popolare le distese erbose del pianeta? Non importa quanto sia affascinante in teoria un simile proposito, le forme di vita appartenenti al regno animale (e superiori a qualche micron di stazza) semplicemente, non funzionano così. Il che implica inevitabilmente, leggendo tra le righe, che nel caso in cui dovesse sopraggiungere un qualche tipo di nuova catastrofe ecologica planetaria, le uniche creature che potremo portare con noi oltre la soglia dell’apocalisse saranno quelle in grado di sopravvivere contando sulle proprie forze, ovvero tutte quelle risorse passive che vengono guadagnate grazie al succulento frutto dell’evoluzione. Lungamente, faticosamente maturato, esattamente come quello della Cucurbita Maxima, una pianta che noi definiamo, nella sua versione per così dire addomesticata, con il termine generico di “zucca”. Ma ce n’erano di molti tipi, prima che le leggi del mercato imponessero la sopravvivenza di soltanto quelle particolari varianti in grado di dimostrarsi più gustose, resilienti e prolifiche nei campi. In particolare questo nobile vegetale, che proviene dalla Cucurbita andreana del Sudamerica, fu trasportato in epoca pre-colombiana attraverso molteplici scambi commerciali, fino a giungere nei territori degli odierni Stati Uniti e Canada. Dove le diverse tribù native, tra cui gli Arikara del North Dakota, i Naticoke del Delaware, i Menominee del Wisconsin… Ne selezionarono particolari esemplari, ottenendone nei rispettivi territori una versione specifica e personalizzata per i propri gusti e le necessità locali. Ma mentre l’erba cresce, i contesti mutano i propri presupposti, e quelle che erano delle tribù del tutto indipendenti finiscono per integrarsi, dando vita a nuove stratificate realtà sociali. Il che può dirsi spesso positivo, tranne che per un piccolissimo dettaglio: a tendenza delle rispettive zucche ad ibridarsi tra di loro, se soltanto i coltivatori dimostrano l’ardire, o l’impudenza, di piantarle a meno di un chilometro di distanza. Poco male? Come si dice, panta rei: tutto scorre. Ma è indubbio che se in un luogo un tempo c’erano due piante, e adesso sopravvive unicamente la risultanza del loro accoppiamento, qualche cosa è andato irrimediabilmente perso. A meno che non si verifichi un mirabolante colpo di fortuna…

Cool Old Squash 2
Owen Taylor ci descrive e mostra la sua grossa zucca Gete-Okosomin. Per chi volesse solo assistere al momento dell’azione gastronomica, il bello inizia intorno al minuto 6:50.

Sembra una di quelle leggende metropolitane, che rimbalzano da una parte all’altra del web senza nessun occhio di riguardo alla realtà dei fatti. In parte, sono responsabili anche alcuni dei divulgatori della storia, che propongono vicende contrastanti e più o meno probabili, come antefatto alla straordinaria “zucca storica” un frutto indubbiamente notevole, quanto esteticamente dissimile da quelli che comunemente abbiamo modo di trovare sopra gli scaffali dei supermercati. Tutti concordano, tuttavia, almeno su di un fatto molto significativo, ovvero il nome: Gete-Okosomin, un binomio nella lingua algonchina degli Anishinaabe che dovrebbe significare, sempre secondo i dati disponibili online, “Cool old squash” (vecchia bella zucca, o per usare un termine più informale nonché fedele, la vecchia zucca ganza). Nell’immagine più diffusa di questo vegetale, recentemente diffusa tramite il portale Reddit, compare una Okosomin sopra il banco di quello potrebbe essere un mercato locale, con un cartellino che riporta per sommi capi l’eccezionale storia citata in apertura, di un vaso ritrovato in una tomba presso Winnipeg in Canada, nel pieno territorio degli antichi Menominee, e poi trasportato presso un’importante istituzione locale di conservazione ecologica, il White Earth Land Recovery Project. Questi semi quindi sarebbero stati piantati e poi, almeno stando al racconto di chi attualmente possiede la zucca, la loro seconda generazione trasportata in tour per il paese, durante un giro di conferenze di Winona LaDuke, rappresentante dell’organizzazione nonché, cito il testo della foto recante la firma di un certo Roger Smith: “Ferma sostenitrice del mantenimento di tradizioni alimentari locali”. Questa versione della vicenda, incidentalmente, è anche quella narrata da Owen Taylor, il giovane appassionato ed enfatico che compare nel secondo video, pronto ad affascinarci aprendo e cucinando di fronte alle telecamere un simile augusto vegetale.

Old squash
Via

Ma c’è almeno una pagina, online, che ci presenta una storia radicalmente diversa della Okosomin, tanto da far pensare che la pianta sia stata resuscitata in concomitanza da gruppi che hanno operato in parallelo. Pensare solo per un fugace attimo, ad ogni modo, visto come uno dei primi paragrafi riportati dalla Canadian Mennonite University (CMU – un luogo di studi di matrice religiosa anabattista) si preoccupi di smentire esplicitamente la versione riportata da Reddit.com, definendola l’unione inesatta di due fatti in realtà totalmente scollegati: il primo relativo al ritrovamento, da parte del professore emerito dell’università del Wisconsin David Wrone, di alcuni antichi semi all’interno di una caverna del Kentucky, che tuttavia si rivelarono latòri di un frutto alquanto piccolo e insapore. Mentre la vera fonte della “zucca storica” la vedrebbe legata ad una filiera ben meno inusuale, ovvero la coltivazione continuativa da parte di una famiglia di etnia Métis nello stato nativo dei Miami dell’Indiana, tra i discendenti diretti delle genti Menominee, che un tempo avevano creato una tale meraviglia alimentare. I semi sarebbero quindi stati selezionati da Caroline Chartrand, una donna Métis che viene definita in modo vagamente melodrammatico come “La conservatrice di semi senza più una terra” e poi piantati presso la fattoria della CMU a Winnipeg, impiegata dal 1870 per mettere in atto progetti collaborativi tra studenti canadesi e le locali etnie native americane. Le risultanze del primo raccolto, quindi, sarebbero state distribuite tra le diverse organizzazioni votate alla conservazione del patrimonio ecologico vegetale, tra cui il White Earth Land Recovery di Winona LaDuke. E benché l’ultima parola resti non detta per lo meno su Internet, visto come manchino dei veri articoli scientifici sull’argomento, c’è da dire che questa seconda versione sembra decisamente più plausibile, senza comunque perdere il suo fascino fondamentale.
Anzi dopo tutto, il concetto stesso di una singola specie vegetale, preservata nella sua purezza genetica attraverso le generazioni, per secoli e millenni, è forse ancora più incredibile di un vaso sigillato e messo sottoterra – in parola povere, la stessa differenza che c’è tra un dinosauro clonato dal sangue-di-zanzara, e l’antico mito del Mondo Perduto dei romanzi di Arthur Conan Doyle, in cui le bestie di altre epoche ancora camminerebbero, mangiandosi tra loro. Ma forse il possesso della verità ultima, rimane un attributo esclusivo di tutti coloro che hanno toccato quel sapore arancione, dalla forma dolce ed il profumo lievemente curvo, conturbante. Se soltanto si potessero comprare semi simili, per piantarli nel proprio giardino…

Giant Pumpkin
Un’assoluta verità del mondo moderno: i vegetali, come gli animali, sopravvivono se sono utili all’umanità. E per quanto possa essere insolita e gustosa, viene da chiedersi se la Gete-Okosomin possa mai raggiungere le dimensioni titaniche di alcune Cucurbita Maxima, come questa di John Muller, coltivatore californiano.

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