Passare sotto lo sguardo vigile di questa figura in bronzo alta 46 metri…. Che non potrà mai essere soltanto 27 tonnellate di rame, 113 di acciaio poggiate su di un grosso plinto marmoreo con la forma di una stella, ma rappresenta piuttosto lo spirito di una generazione ed un pregevole ideale, teoricamente costruito mano a mano, attraverso il senso di responsabilità dei popoli di tutto il mondo. E che costituisce pure, nella fantasia popolare, l’insolita figura di un’antica dea romana, perennemente impegnata a sollevare la pesante torcia della luce del Domani. Il che, oltre ad essere fisicamente stancante, potrebbe lasciare insorgere nel passar dei giorni un senso vago di fastidio e noia. Le luci distanti della città, perennemente in festa. Le barche che procedono lungo le onde della baia. Qualche fortunato aereo, fulmine d’acciaio, che traccia scie di fumo tra le nubi newyorkesi. Non è forse probabile che la vecchia (ma pur sempre giovanile) Lady Liberty, talvolta, desideri scrutare coi suoi occhi l’occasione di uno svago differente? L’improvviso palesarsi di una situazione in grado di farle esclamare: “Ah, però. Chi l’avrebbe mai detto!” Che un lontano discendente della generazione Frédéric Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel, gli uomini che applicarono la loro sapienza tecnica alla costruzione di lei stessa, alta e magnifica, potesse infine librarsi, libero nell’aria come un ponderoso, eppure splendido, gabbiano! L’evento appare tanto maggiormente significativo, quando se ne apprezzano le implicazioni. Il segreto del successo qui conseguito da David Maymand, imprenditore australiano, risiede infatti nell’aver finalmente un sogno antichissimo dell’uomo, che fin da quando rivolse per la prima volta il proprio sguardo verso il cielo non aveva PROPRIAMENTE sognato un qualche cosa di simile a: “Vorrei assicurare alla mia schiena due bottiglie di perossido e un catalizzatore utile a far aumentare di massa quel gas volatile di 5000 volte in un istante, vestirmi di una tuta ignifuga e librarmi per un tempo massimo di 20-30 secondi, un’eternità soggettiva, trascorsa nella speranza di non trasformarmi nella versione tecnologica del supereroe la Torcia Umana.” Perché questo erano stati essenzialmente, fino ad oggi, gli strumenti del “Jet” Pack, lo zaino volante. I quali, nonostante il nome, erano fondati su un qualcosa di radicalmente diverso dall’effettivo motore di un aereo a reazione, risultando più simili ad una versione indossabile del tipico razzo ad uso militare. E non è affatto un caso, se proprio quello fu l’ambiente in cui furono infine realizzati in chiave grossomodo funzionale, attorno agli anni ’60 e con lo scopo dichiarato di permettere ai soldati degli Stati Uniti di superare ostacoli paesaggistici, giungere dall’alto sul nemico, oppure balzare con estrema leggiadria oltre il pericolo di un campo minato. Un progetto in ultima analisi abbandonato, per problematiche logistiche difficili da superare.
Ma ciò che abbiamo descritto fino ad ora, perfettamente esemplificato dalla celebre Rocket Belt della Bell (usata nel film di 007 di Thunderball e per le cerimonie d’apertura delle Olimpiadi del 1984 e del ’96) dimostra ben pochi punti di contatto con il nuovo JB-9 costruito dalla Jetpack Aviation di Van Nuys, California. Anzi, direi che i due approcci sono assolutamente privi di somiglianze, al di là dell’obiettivo fondamentale di staccarsi dal suolo. Perché proprio questo nuovo dispositivo costituisce nei fatti, il primo vero e proprio aereo portatile, inteso come uno zaino che possa essere trasportato con praticità sulla schiena, eppure contiene due vere turbine, in grado di mantenere in volo una persona per un tempo massimo di 10 minuti. Impiegando, tra l’altro, un carburante dal prezzo decisamente più contenuto del sempre più raro e complesso perossido d’idrogeno. I risultati si possono osservare nel ricco canale YouTube dell’azienda, capitanata dal già citato investitore proveniente dal settore minerario e del marketing online, nonché rocketeer d’occasione, insieme alla figura di Nelson Tyler, l’inventore di Hollywood, premiato con tre Academy Awards per l’eccellenza tecnica, che nel 1969 aveva costruito la prima riproduzione ad uso civile della cintura-razzo della Bell. Nel corso dell’ultima settimana, i due hanno pubblicato letteralmente un video al giorno, tra vecchie immagini di repertorio e varie prove tecniche del JB-9, tra cui spicca per durata un’altra effettuata il 19 luglio scorso, presso “un lago in California”. Chiunque, tra le persone informate sul funzionamento limitato dell’originario jetpack, avesse assistito ad un simile exploit, sarebbe stato pronto a sollevare in alto il braccio in segno d’esultanza, esattamente come quello della Statua della Libertà.
Intendiamoci: non è che David Mayman, con questo ineccepibile stunt pubblicitario, sia stato il primo uomo sulla Terra a pensare d’indossare un’apparato dotato di motori a jet. C’era anzi stato fin dal 1965 un progetto dell’agenzia della difesa statunitense DARPA condotto in collaborazione con la Bell, che giunse nel giro di quattro anni alla produzione di un prototipo di quella che era stata definita la Jet Belt. La quale costituiva, nei fatti, un’apparato del tutto simile ad un mini aeromobile, con tanto di ali, che poteva decollare in verticale e volare per un tempo teorico di fino a 25 minuti. Il suo peso e l’ingombro, tuttavia, risultavano notevoli e difficilmente questo si sarebbe potuto definire un pratico “zaino” come prevedeva l’idea originaria del soldato volante. Così, con la morte improvvisa del capo del progetto Wendell Moore, per un attacco di cuore sopraggiunto nel 1969, il progetto venne accantonato per mancanza di fondi. Ma il sogno non finì, ovviamente, così.
In molti avrete assistito alle imprese, già trattate in questo blog, dell’uomo razzo francese Yves Rossy con il suo allievo svizzero Vince Reffet, che hanno dimostrato il reiterato coraggio di lanciarsi da un aereo in volo con un paio d’ali dalla larghezza di 2,4 metri, fornite di versioni maggiorate delle migliori turbine usate negli aerei radiocomandati. E certamente si sta realizzando, sopra alcune delle location più spettacolari del mondo, il mito dell’uomo volante, così come fu definito a partire dall’epoca di Icaro con la sua cera molto sfortunata. Ma il punto del “vero” jetpack, in origine, era del tutto differente. Non doveva trattarsi di un qualcosa di estremo e straordinario, ma di uno di quei progressi tecnologici in grado di fare la differenza su larga scala, utilizzabile da chiunque e in ogni situazione, dopo appena un breve periodo di addestramento. In questo senso, forse il produttore più universale e democratico di tale apparato resta il messicano Juan Manuel Gallegos, che dalla sua azienda della regione di Morelos (capoluogo Cuernavaca) costruisce una fedele riproduzione del Rocket Belt ad uso civile di Nelson Tyler, ridefinito per l’occasione il Tecaeromex. La sua tecnologia restava ancora, dunque, basata sul principio del perossido d’idrogeno.
Ce ne sono state diverse reinterpretazioni, negli anni, ciascuna altrettanto valida nel modo di applicare tale volatile tecnologia. Il concetto di applicare degli effettivi motori da jet ad un dispositivo semplice e compatto, tuttavia, non poteva giungere prima di questo momento storico, in cui la componentistica di supporto si è ridotta in modo esponenziale. E non sto parlando soltanto della parte relativa al motore, ma anche di tutta la strumentazione tecnica di contorno, che deve necessariamente includere un sistema elettrico di accensione e altri strumenti basati sull’impiego di una batteria, che naturalmente aumenta il peso dello zaino in modo significativo. Costruire un jet pack veramente funzionale è tutta una questione di equilibrio. E non soltanto ingegneristico, ma anche da parte del pilota stesso, che dovrà imparare ad agire sulle manopole di comando in modo estremamente delicato, coordinandosi col moto del suo corpo. Come ampiamente dimostrato da Bill Suitor, il più famoso ed attivo pilota di questi veicoli, nonché colui che in prima persona volò ai giochi olimpici del 1984, il modo migliore di intervenire sui comandi è farlo molto delicatamente, tenendo le gambe rigide e perpendicolari al suolo. L’attività deve essere in effetti molto meno pericolosa di quanto sembri, quando si considera gli oltre 1200 voli all’attivo effettuati da questa personalità del settore, già coinvolta da Maymand e Tyler almeno in un progetto precedente della loro azienda, il film intitolato Rocket Compulsion, nonché un probabile consulente nella costruzione del nuovo jet-pack. La Rocket Belt originaria prevedeva l’uso duplice di una manopola di comando, usata per direzionare gli ugelli delle bombole di gas, oltre a due maniglie parallele, usate per riorientare il motore stesso in base alle necessità del momento. Nel JB-9 invece, almeno a giudicare dalle immagini divulgate fino ad ora, l’intero onere dei controlli dovrebbe idealmente ricadere su una coppia di cloche parallele, in grado di controllare potenza, rotazione e traslazione laterale. Dopo il primo periodo di addestramento assicurati al cavo di sicurezza, soltanto i piloti di jetpack più inesperti tentando di usare il proprio peso per dirigere il proprio veicolo. O almeno, questo è quello che si dice!
Ma siamo sicuri che la soluzione migliore sia l’uso di un motore a reazione? Ultimamente sta facendo notizia questo dispositivo della Martin Aircraft Company Limited, definito in modo alquanto privo di fantasia, il “Jetpack”. Che ancora una volta, non presenta la benché minima traccia di turboventola o turbogetto, ma due moderne ed efficienti eliche intubate, per la costruzione di un sistema tanto pesante che molto difficilmente si potrebbe definire un mero “zaino”. Si tratta più di una specie di mini-elicottero, in grado di raggiungere i 3.000 piedi di altitudine. I vantaggi dell’approccio scelto in questo caso sono molto significativi: l’aeromobile dimostra un’autonomia di fino a 30 minuti e una velocità di 56 Km/h. Inoltre, elimina la gravosa problematica della dissipazione del calore, che seppur ridotta nell’approccio della Jetpack Aviation californiana, continuerà pur sempre a costituire un problema e potenziale rischio per il pilota, tanto più sarà ridotto lo zaino da lui impiegato. In particolare, questa azienda neozelandese può vantare di aver recentemente concluso un accordo con Sua Altezza lo Sceicco Hamdan, principe di Dubai, per un ordine di fino a 20 jetpack e due simulatori virtuali per l’addestramento, da integrare nell’ottica di un rinnovamento dei servizi di emergenza della città. Il vantaggio di poter disporre di aeromobili tanto compatti, in grado di volare tra i palazzi e raggiungere anche i piani più alti dei colossali grattacieli locali, potrebbe teoricamente fare la differenza in caso di incendi, attentati, o altre situazioni impreviste e dalle conseguenze potenzialmente lesive.
Che l’uomo riesca un giorno, finalmente, a librarsi senza stringenti limiti temporali né l’ambiente claustrofobico di una cabina attorno, resta tutto da dimostrare. Gli ultimi progressi nel campo della tecnica, sicuramente, fanno ben sperare. Ma la vera domanda resta: quante persone si dimostreranno pronte a fare questa esperienza, nel momento prossimo della futura verità? Di certo esistono, e continueranno ad esistere, passatempi dalle applicazioni più immediate a questo mondo. Molto più accessibili e tranquillizzanti. Ma come chiaramente esemplificato dal gesto trionfale dell’antico dono della Francia agli Stati Uniti, esistono due tipi di Libertà. Una è dentro al libro, pur sempre assicurata alle catene della gravità. Per trovare l’altra, occorre andare nella direzione della fiamma posta in alto. Su, su.