Un suono di violini distanti irrompe nel silenzio della notte oscura. “Reimu Hakurei, sei pronta a fare la tua parte?” La ragazza siede nel centro della Grande Sala del suo tempio, il piccolo jinja shintoista sul confine orientale di Gensokyo, il Regno delle Illusioni. Qualche lanterna diffonde un tenue accenno di luce, appena sufficiente a scorgere il rosso delle travi e del torii antistante. Di fronte a lei, una serie di piedistalli sovrapposti rappresentano gli stati successivi della crescita interiore. Ogni scalino di quella struttura ospita un ricordo delle sue vittorie precedenti: una spada luminosa, un piccolo bonsai di pino e una coppia di komainu in bronzo, i cani leone delle antiche storie popolari. In cima al costrutto, come a coronamento della scena, trova posto uno scrigno rettangolare in legno riccamente lavorato, col sigillo del taijitu nella parte anteriore: un cerchio suddiviso in due segmenti sinuosi che si abbracciano tra loro. Si dice che l’uno non possa esistere senza quell’altro, poiché non c’è bianco, senza nero. E viceversa. A quel punto il pianoforte irrompe prepotente, risuonando l’eco di generazioni! L’emblema è stato ricavato dalla sezione latitudinale di un semplice ramo di gelso, fatto crescere attraverso le generazioni e poi spietatamente sezionato, a dimostrazione dell’impermanenza della vita. “C-Chi ha parlato?” Fece la fanciulla dai graziosi lineamenti, balzando in piedi di scatto. Nella mano destra, già impugnava il lungo scettro del gohei, con i festoni di carta che ondeggiavano pericolosamente. Qualcuno l’avrebbe definita in quel momento d’ansia, non senza un tocco d’ironia, assolutamente, totalmente conforme all’estetica del moe. Ritornello: si ode la voce melodiosa del flauto, che dialoga col sottofondo musicale. “Siamo noi, le Onmyou-dama. Sfere del potere. Oh Tohou, fanciulla del destino d’Oriente. Dovresti comprendere la situazione. Oggi è il settimo giorno del settimo mese del settimo anno della settima Era. Ci sarebbe la piccola questione della profezia…” Un silenzio prolungato, mentre il nume tutelare nella scatola, duplice Kami del tempio, aspetta un qualche tipo di reazione. Infine, Reimu sussurra, tra se e se: “Io…Si, credo di…Poterlo fare.” Lentamente, rialza lo sguardo che aveva indirizzato al suolo. Soltanto per restare, all’improvviso, totalmente senza fiato. Sviluppo e riesposizione della sinfonia: un’arcana melodia già prende vita, tra ottoni, arpe, percussioni enfatiche ed appassionate. La parete posteriore della Sala dei suoi antenati scompare in uno sbuffo di fumo, mentre di fronte a lei si estende un territorio sconosciuto. Distanti picchi montani, con alcune stelle distanti a fargli da cornice. Luci distanti di un vasto insediamento cittadino. Il vento che soffia ed agita i capelli, mentre il suolo si allontana sotto i piedi: “BENE, ALLORA COMINCIAMO!” Ora, naturalmente la questione del volo non è del tutto nuova agli abitanti di Gensokyo. Chiunque abbia un controllo anche insignificante del suo karma, può sconfiggere la forza gravitazionale. Ma la situazione già iniziava a farsi preoccupante. Perché gli astri all’orizzonte, lungi dal restare nel distante firmamento, già parevano vicini, sempre più vicini. Nella mente di Reimu, a quel punto ritornò l’antico mantra: “Nel settimo giorno del settimo…Il sigillo sarà infranto, e si ritornerà a combattere, per ristabilire l’ordine nel regno degli yokai.” Demoni, ecco cos’erano le luci. Le loro sagome iperboree, cariche dell’odio nato da un milione di anni d’imprigionamento, e quel che è ancora peggio: i loro dardi fiammeggianti. Milioni di proiettili volanti. Un’inferno, che soffia il caos verso le deboli e tremanti case degli umani. Chi potrebbe mai proteggerle, se non…Con un gesto imperioso, la ragazza ordina alle sfere divine di disporsi in formazione. Impugna saldamente lo scettro coi festoni. Al bordo dell’inquadratura, già compare un contatore con la strana e incomprensibile dicitura: SCORE – 0000000000.
È una questione che noi conosciamo molto bene, per lo meno da un punto di vista puramente intuitivo: con l’aumentar delle tribolazioni, quando la situazione si fa complessa e incomprensibile, di fronte all’anima si aprono due strade contrapposte, l’una in alto, l’altra parallela al suolo. La seconda consiste nel dire, mentre già il vento delle cose ci sospinge in direzioni contrapposte: “Io sono il masso in mezzo al fiume. Nulla può smuovermi, nemmeno il grande flusso.” Ed è questa la scelta che compiono, sia chiaro, tutte le persone responsabili, nel mondo delle cose materiali. Oppure, lentamente, perdere il controllo per lasciarsi andare, verso una risoluzione che potrebbe giungere, se siamo per lo meno, parzialmente fortunati. E sarebbe ben difficile, nonché problematico, affidarsi a un tale presupposto nei momenti avversi della vita. Tutto quello che rimane per elevarsi in puro spirito, dunque, è il mondo dell’arte, pura e in quanto tale. Dove cento, diecimila pennellate, altro non diventano che un tutto unico, l’immagine voluta da un artista del momento. E così, del resto, la musica che nasce da un miliardo di elettroni. È una storia complicata. Tutto iniziò, tanto per cambiare, da una mela, anche se stavolta priva di una forma fisica, perché presente, unicamente, all’interno del nome della composizione. “Bad Apple!!” era infatti il titolo del brano più famoso di ZUN, l’unico autore, per lo meno nel primo decennio, della lunga serie videoludica auto-prodotta di Tohou, all’origine di una visione destinata a lasciare un segno indelebile nel genere degli sparatutto vecchio-stile. Non che creare, quasi incidentalmente, uno dei più assurdi ed improbabili micro-generi musicali: il black MIDI, anche detto lo spartito nero.
Nota: il pezzo linkato in apertura è “Bad apple 4.6 MILLION!” di TheSuperMarioBros2
Chiunque abbia provato a vivere, per lo meno limitatamente, le avventure volanti di Reimu e Marisa Kirisame, la sua amica strega dei boschi, conserverà certamente la memoria di un’interessante colonna sonora, notoriamente costruita tramite l’impiego di un comune sintetizzatore digitale. Per il mondo delle mega-produzioni odierne, in cui un’orchestra non si rifiuta neanche all’ultimo Assassino, sarebbe semplicemente impossibile affidare l’intero aspetto aurale di un videogioco a un singolo individuo, che si occupi di creare un accompagnamento alla vicenda interattiva sulle sue sole risorse, senza l’uso di alcun tipo di strumento fisico e reale. Usando, piuttosto il Musical Instrument Digital Interface (MIDI), un formato di file in cui la musica viene memorizzata come una serie di momenti temporali, mentre poi è il computer stesso a generarla ogni volta, mano a mano che si rende necessaria. Un sistema che non dovrebbe teoricamente permettere proposte particolarmente complesse e stratificate, il quale risulta ormai largamente superato dai moderni formati di memorizzazione, che permettono di registrare direttamente un’esecuzione dal vivo. Eppure esistono, allo stato attuale dei fatti, un numero stimato di circa 5.000 remix delle composizioni di ZUN, che si sono diventate a partire dal primo episodio del 1996 un vero e proprio sinonimo di musica da videogioco, soprattutto negli ambienti degli appassionati giapponesi. E tra queste versioni alternative, ne spiccano alcune create sulla base di un approccio estremamente originale, che consiste nell’aggiungere alla melodia più e più note, possibilmente senza comprometterne la riconoscibilità; fino alla creazione di un vero e proprio torrente sonoro, talmente denso, che se mai dovesse essere annotato tramite l’impiego dei vecchi metodi su di una partitura a pentagramma, questo non apparirebbe come una serie di punti, ma semplicemente a guisa di un grande rettangolo nero. È una strana scelta creativa. Che restituisce dei risultati non sempre orecchiabili e/o meritevoli, benché ci siano alcuni autori estremamente capaci, e il cui scopo diventa quindi, più che altro, stupire. Sia le orecchie, che gli occhi dello spettatore:
La prima attestazione del genere, stando al wiki semi-ufficiale, si ha sul portale video giapponese Nico Nico Douga nel 2009, con il brano U.N. Owen was Her? (sempre estratto da Touhou) riveduto e corretto da un utente dal nome di “Shirasagi Yukki @ Kuro Yuki Gohan”. Proprio sua fu la trovata, destinata a durare nel tempo, di mostrare l’opera anche visivamente, attraverso l’impiego di un programma educativo per imparare a suonare il pianoforte. Oggi nel campo del Black MIDI, di software simili ne sono usati diversi, da FruityLoops Studio a Synthfont, da Domino a Piano from Above. Ma il più amato dai creatori, soprattutto per la grazia estetica della sua interfaccia, resta il videogioco Synthesia, una sorta di Guitar Hero divulgativo prodotto nella Repubblica Ceca e venduto al prezzo ragionevole di 29 dollari. Nella visualizzazione che produce, la composizione musicale appare come una serie di puntini e barre, che cadono verso il fondo dello schermo fino ai tasti di un pianoforte stilizzato. Ogni qual volta una di tali forme giunge a colpire uno di quei tasti, quindi, quest’ultimo produce la sua nota. Ma il punto è proprio che le note di tali remix risultano talmente numerose, brevi e caotiche all’apparenza, che l’intera sequenza diventa una sorta di manifestazione metaforica della tipica sessione di Touhou, dove manca soltanto la sagoma vista dall’alto di Reimu o Marisa che s’industriano per evitare i proiettili degli yokai. Non a caso, i loro giochi vengono ritenuti gli iniziatori del genere danmaku, ovvero, della cortina di fuoco, in cui lo schermo viene letteralmente riempito dagli ammassi dei pixel multicolori da evitare, mentre soltanto l’impiego di tecniche particolari, da parte di un giocatore decisamente esperto, possono consentire di completare i livelli e proseguire nella storia. Ora, basta rimpiazzare tali dardi con delle note, per comprendere esattamente di cosa stiamo parlando… Negli ultimi cinque anni, il particolare stile realizzativo di questo approccio all’intrattenimento musicale ha poi trovato applicazioni alternative, con autori che producono versioni “annerite” (così si dice in gergo) di canzoni Pop famose, sigle dei cartoni animati o persino pezzi di musica classica. A quel punto, lo scopo diventa suscitare un qualche tipo di reazione nostalgica o il brivido del riconoscimento. Generalmente, lo spettacolo comincia con la parte più famosa del pezzo che si esaurisce in qualche minuto, mentre già prende forma la tempesta apocalittica a seguire. Ma un simile metodo di interpretare la cosa, in effetti, non trovava origine nella versione originale del Black MIDI:
Questo è lo Studio per pianoforte n. 37, del musicista di origini americane Conlon Nancarrow (1912 – 1997). L’autore, che fu un guerrigliero dalla parte della Seconda Repubblica durante la guerra civile spagnola, ebbe una vita travagliata che lo portò anche ad un lungo soggiorno in un campo di concentramento nazionalista, dopo il quale gli venne vietato di tornare negli Stati Uniti, a meno che firmasse un documento in cui rinnegava i suoi trascorsi comunisti. Cosa che lui si rifiutò di fare. Quindi, vivendo il suo esilio in Messico, si fece un nome componendo dei brani talmente complessi da restare purtroppo frustrato, per l’incapacità, propria ed altrui, di rendere giustizia alla sua visione. Nel 1947, a seguito di un breve viaggio clandestino a New York, si procurò una macchina per produrre schede musicali perforate, che gli fornì la perfetta soluzione: far suonare la musica agognata a dei pianoforti meccanici di sua speciale concezione, migliorati nella gestione dell’intensità sonora mediante l’impiego di martelletti ricoperti di cuoio e/o metallo.
Perché il punto di creare simili composizioni, digitali o meno, resta quello di una musica che l’uomo può comprendere e apprezzare, ma mai e poi mai, nemmeno con l’assistenza di un divino Kami, potrebbe giungere a produrre con le proprie mani. Attraverso questo metodo innaturale, si ricerca un modo per elevarsi dai pressanti crismi della dura quotidianità. Ecco perché un altro elemento comparativo valido alla comprensione del Black MIDI si trova nel famoso nonsense musicale di un altro creativo americano largamente sottovalutato, per lo meno nel corso della sua vita, John Stump (1944 – 2006) l’autore di Faerie’s aire and death waltz (L’aria delle fate e il valtzer della morte). Una coppia di spartiti nei quali un susseguirsi spesso insensato di note rincorre se stesso sul foglio, accompagnato da vaghe indicazioni sull’esecuzione come “Go fast” (gotta go fast) oppure “[A questo punto…] Liberate i pinguini!” E sarebbe molto difficile immaginarne l’esecuzione reale, se non fosse che nel 2009 la CSMTA (Colorado State Music Teachers Association) ne ha messo in scena una bizzarra quanto giocosa esecuzione, completa di cartelli, versi d’anatra, grida, fisarmoniche impazzite…Ora, non è facile comprendere se questa sia una giusta rappresentazione dello spirito alla base del creativo. O ancor meno, un’effettiva base per la corrente estremo-orientale del Black MIDI. Però un qualcosa di quello spirito diabolico immanente, nonché degli spiriti luminescenti che fluttuano sui confini di Gensokyo, a mio parere, c’è.