Puoi andare da qualsiasi parte, puoi fare qualunque cosa. Guarda questo spazio sconfinato, d’erba commestibile, dove gli antenati hanno vissuto per generazioni. All’orizzonte, non c’è nessuna barriera, tranne il cielo che divide il mondo percorribile dal Sole incandescente. Ma libertà vuol dire solitudine, e questa strada non è percorribile per loro, il popolo degli ungulati. Così è ben nota, fin dalla notte dei tempi, l’abitudine che hanno di formare gruppi simili a tribù, con qualche dozzina di esemplare ciascuno, per vagare alla ricerca di un momento ed un incontro, il giorno della verità. È uno spettacolo che non ha pari a questo mondo: decine di migliaia di Saiga tatarica, le particolari antilopi che vivono nella regione che si estende tra i Carpazi ed il Caucaso, spingendosi talvolta fino in Mongolia, si radunano in un vasto spazio tra gli spazi, un punto di partenza per la grande migrazione. Quindi, al palesarsi di un segnale a noi del tutto sconosciuto, iniziano la lunga marcia che le porterà, durante i primi mesi dell’inverno, fino ai semi-deserti del distante meridione, dove disperdersi di nuovo, in piccoli gruppetti di esemplari pronti a correre dai predatori, quando necessario. Con il trascorrere dei mesi, quindi, una volta che il loro manto è passato dal marrone a una tonalità biancastra, utile a nascondersi tra i ghiacci dalle aquile e dai lupi, ricominciano a pensare ai grandi pascoli del Nord, dove le attende cibo a profusione e la stagione degli accoppiamenti, in primavera. Così ritornano, ma questa volta senza sentire la necessità di unirsi per formare il grande branco. Ciò perché già sussistono le divisioni e la rivalità tra i maschi alpha, che di lì a poco dovranno competere per il diritto a riprodursi, una cornata dopo l’altro. A discapito di altri, contro l’inclemenza delle circostanze. Perché l’antilope saiga, un tempo considerata tra gli animali più prolifici, è dall’epoca della fine dell’Unione Sovietica che sta andando incontro ad un progressivo processo di spopolamento, tale da ridursi del 95% a partire dalla fine degli anni ’90. Un processo letteralmente inaudito in precedenza, che oggi viene considerato la più veloce via per l’estinzione mai sperimentata da un mammifero del pianeta Terra.
Prima di analizzarne le ragioni, che sono più d’una, sarà opportuno parlare brevemente di questo animale, il cui aspetto estremamente caratteristico, se non proprio grazioso, è valso l’iscrizione ufficiosa al club degli animali bandiera, ovvero quel gruppo di specie a rischio scelte dalle istituzioni ecologiste come testimonial per le proprie raccolte fondi. La saiga è un’abitante atipica della regione eurasiatica, che si conforma nello stile di vita al tipico erbivoro cornuto del continente africano, da cui prende la denominazione di antilope, benché il ceppo evolutivo della sua provenienza, si ritiene oggi, sia del tutto differente. È infatti più piccola, con un’altezza al garrese massima di 0,8 metri e un peso che si aggira sui 50 Kg, come quello di una pecora. Inoltre presenta la caratteristica evolutiva di un grande naso simile a una proboscide, con le narici nella parte anteriore, che si ritiene abbia lo scopo di filtrare la polvere d’estate, riscaldando invece l’aria durante il corso dell’inverno, prima che questa possa raggiungere i polmoni dell’animale. La sua genìa migratoria, che esiste fin dall’epoca del Pleistocene e che ricorda da vicino, nell’aspetto vagamente chimerico, alcune illustrazioni sugli animali preistorici successivi all’ultima glaciazione, si spingeva un tempo fino all’area dell’attuale stretto di Bering, varcandola per giungere nel continente nordamericano. Ma di quegli anni di gloria e grandi esplorazioni, oggi resta molto poco.
La vita delle saiga, in condizioni ideali, è piuttosto tranquilla e serena. Le antilopi in questione sono infatti in grado di occupare una nicchia ecologica letteralmente libera di concorrenza, cibandosi di vegetali che risultano del tutto incommestibili per gli altri abitanti delle steppe, persino velenosi. La loro capacità di trovare l’acqua è leggendaria, e nel corso delle loro lunghe migrazioni, restano sempre in prossimità dei radi fiumi e laghi della steppa, andando talvolta in cerca di depositi di sale naturale, che usano per integrare la propria dieta. Con il sopraggiungere della primavera, quando i maschi iniziano ad emettere un forte odore muschiato, iniziano le battaglie per il predominio sul branco. E non è affatto insolito che a seguito di queste, un singolo vincitore si ritrovi con al seguito anche 40-50 femmine, che difenderà fieramente dai concorrenti e dai predatori per l’intera stagione. Secondo una diceria popolare delle genti di questi luoghi, quindi, egli si accoppierà con fino a 20 di seguito in un solo giorno, dopo il quale resterà in stato pressoché comatoso per un tempo esatto di 24 ore. La sua unica speranza, a quel punto, sarà andare alla ricerca di una particolare erba, in grado di restituirgli a pieno le forze. Questa strana storia fu riportata da niente meno che Peter Simon Pallas (1741-1811) il grande naturalista tedesco. Ad ogni modo, una cosa è certa: a seguito dell’evento, ciascuna femmina partorirà almeno due piccoli, in quanto l’animale risulta naturalmente predisposto al parto gemellare.
Al di fuori dei suoi rapporti con gli altri maschi e i predatori che si trovano in diretta concorrenza, tuttavia, la saiga è tutt’altro che indomita e/o formidabile. Parte del suo problema di fondo, infatti, è proprio la naturale mansuetudine, che lo rende essenzialmente incapace di temere l’uomo. Quando a ciò si aggiungono le presunte doti guaritrici delle sue corna, secondo gli universalmente problematici crismi della medicina cinese, si può facilmente immaginare il seguito di questa storia…
È in effetti estremamente facile, persino ovvio, parlare di conservazione ecologica dalla comodità delle nostre moderne quanto accessoriate case. Le popolazioni umane che vivono nell’areale delle saiga si sono sempre affidate, fin dall’epoca delle origini, al sua quasi letterale onnipresenza, che la rendeva una vista estremamente comune verso l’orizzonte della steppa sconfinata. Come il bisonte americano prima delle venuta dei grandi cacciatori europei, l’antilope era ovunque. Perché mai si sarebbe dovuto rinunciare alle sue carni, o al guadagno che portava l’esportazione delle corna? Così, l’eliminazione continuava. Pensate che addirittura esiste un documento degli anni ’50, che Wikipedia attribuisce al World Wildlife Fund, il quale auspicava una divulgazione dei metodi migliori per la caccia all’antilope, nella speranza che l’uso medicinale delle sue corna superasse per disponibilità e presunta efficacia quello del rinoceronte africano e di Sumatra, la cui estinzione appariva sempre più drammaticamente vicina. Tali strane iniziative non sono che una delle strane conseguenze che nascono dall’elezione di una o più specie bandiera, i cui interessi di sopravvivenza si trovano talvolta in concorrenza tra di loro. Ma naturalmente, la superstizione non poteva essere fermata. E nemmeno il desiderio di acquisizione di risorse finanziarie degli umani, che con l’aumentare dei problemi economici della regione, incrementarono la cattura senza mai pensare di ricorrere all’allevamento. Benché la saiga, in effetti, sia piuttosto facile da addestrare, e risulti in grado di riconoscere il padrone, ritornando spontaneamente da lui, anche dopo essersi mescolata alle sue simili selvagge. Ma il pregiato corno, usato anche per la fabbricazione di lanterne tradizionali, resta un attributo unicamente maschile, un fattore che ha portato a un progressivo esacerbarsi della disparità tra i sessi. Con conseguenti problematiche di ripopolamento.
Eppure, il peggio doveva ancora venire. Il più fulminante dramma vissuto in epoca recente dall’antilope delle steppe si è infatti verificato intorno al maggio del 2015, con il diffondersi improvviso e repentino di un virus epizootico in Kazakistan, evolutosi a partire dal batterio inoffensivo Pasteurella multocida serotipo B, naturalmente presente nell’apparato respiratorio dell’antilope, portando a una mortalità spaventosamente prossima al 100% degli animali contagiati. La ragione di questa letale mutazione, ad oggi, resta estremamente poco chiara, anche se si ipotizza sia in qualche modo collegata ai mutamenti climatici della regione, che avrebbero indebolito il sistema immunitario delle antilopi nel momento più delicato, ovvero quello dell’incontro con finalità riproduttive. Considerate che al termine dell’epidemia, sono state ritrovate nell’area un numero approssimativo di 148.800 antilopi morte, ovvero la metà di quelle esistenti alla stima pregressa. Oggi, ne rimangono altrettante. In bilico sui fili d’erba, come quello del rasoio delle circostanze.