Mentre premi l’acceleratore e pensi: si, sono un veicolo che traccia la sua linea nello spazio definito da un percorso, che conduce da A a B. Un’entità continuativa, nel tempo e nello spazio, connotata dal procedimento umano di far funzionar le cose in un modo che possa definirsi vantaggioso. Perché ciò che si sposta, inerentemente produce (movimento? Sentimento?) Ed è in questa visualizzazione geometrica, l’astrazione a fondamento della stessa civiltà. Perché nella realtà dei fatti, non esistono disposizioni longilinee di un conglomerato di materia. Non importa che siano atomi, metri quadri d’asfalto, oppure singoli granelli di una spiaggia senza fine, tutti gli elementi materiali dello spazio misurabile sono essenzialmente questo: una serie disordinata di punti. Che dovranno singolarmente ospitare gli pneumatici di un’automobile soltanto per una manciata d’istanti, qualche secondo al massimo, prima che questa bruci carburante sufficiente a ritrovarsi altrove. Perché, allora, disseminare i nostri preziosi spazi di strutture permanenti, brutture grigiastre che permangono, anche trascorso quel momento della verità? La ragione è in realtà di tipo puramente pratico: nella maggior parte dei casi, non è possibile fare altrimenti. Ancora non esiste un tipo di strada che può “arrotolarsi” o “sprofondare” dopo l’utilizzo, restituendo la campagna ai suricati ed ai cerbiatti della germanica Schwarzwald. Mentre nel caso specifico del ponte, ecco…
Fucine fiammeggianti spinte a funzionare con la forza delle fiamme e del vapore, torreggianti ciminiere che tracciano pennacchi deleteri; verso la fine dell’800, l’intera Europa stava attraversando un periodo di tremendi cambiamenti. Per la prima volta, da che l’umanità era esistita, l’entità del lavoro svolto non era più direttamente proporzionale al numero di persone coinvolte in un’opera civile (volontariamente o meno) ma una risultanza della quantità di materiali e risorse immese dentro quelle fabbriche del mondo. Bastava, così, che un uomo giungesse a corte con un sogno sufficientemente convincente, perché il progetto ricevesse la firma corretta, e gli ingranaggi cominciassero a girare. Individuo fortunato costui che, in questo nostro ennesimo caso, aveva il nome di Alberto Palacio ed almeno un punto estremamente positivo sul curriculum, l’aver studiato a lungo in qualità di discepolo, alle dipendenze del celebre architetto Alexandre Gustave Eiffel. Che giusto pochi anni prima, in un epico 1889, aveva portato a termine quella torre, costruita con finalità del tutto temporanee, che di lì a poco si sarebbe trasformata in simbolo di tutti i francesi.
Che fare, dunque, da amministratori di una delle regioni più importanti per i commerci marittimi di allora, la Biscaglia della Spagna settentrionale? Ingenti risorse finanziarie + il bisogno di costruire infrastrutture nuove = urge un telegramma al costruttore più in voga, o in alternativa, la figura più simile a disposizione. Ovvero, guarda caso, proprio Palacio. L’oggetto e il contenuto di questa saliente comunicazione, a quanto possiamo facilmente immaginare, evidenziava la necessaria messa in opera di un nuovo ponte sul fiume Nervión, che attraversando la città di Bilbao finiva per agire più a valle come anti-economica divisione tra le due comunità contrapposte di Portugalete e Las Arenas. Ma un simile tributario dell’Oceano Atlantico, fondamentale via di transito per i natanti, non poteva certo essere bloccata con una struttura statica, a meno che fosse in qualche modo in grado di lasciar passare le navi. E si era ancora ben lontani dal disporre degli approcci, oggi dati per scontati, dei ponti mobili a sollevamento azionati da varie tipologie di argano. Così il sapiente ingenere, aiutato da un collega francese di nome Joseph Arnodin, decise per l’occasione di rendere finalmente reale il progetto che aveva aleggiato, da un periodo di circa vent’anni, tra i diversi municipi europei soggetti a simili necessità. Oggi si ritiene che il primo a concepirlo fosse stato l’inglese Charles Smith, che l’aveva proposto per le città di Hartlepool, Middlesbrough e Glasgow, ottenendo sempre una risposta negativa. Tutto è più difficile, quando non si dispone di una fama conclamata. Si trattava di quello che oggi viene definito un ponte trasportatore, o in alternativa, del cosiddetto traghetto volante. Che poi sono due modi per dire che c’era una gondola, ovvero un letterale tratto di strada sradicata da terra, sospeso con dei cavi di metallo (o pali di sostegno) e fatto transitare, grazie all’uso di un motore, da un lato all’altro di un binario posto in alto. Con sopra tutto il carico di gente, veicoli e/o animali eletti al ruolo di attraversatori. Certo, a noi moderni, vedendo una simile complessa soluzione, potrebbe venire da esclamare: “Bello, ma quanto potrà mai essere efficiente, da un punto di vista economico?!” Molto più di quanto si potrebbe credere, questa è la risposta.
Il ponte di Vizcaya, questo il nome scelto per la nuova costruzione, fu un successo immediatamente misurabile che dimostrò al mondo la fattibilità dell’idea. La struttura, lunga 164 metri, poteva trasportare sei gondole con diverse dozzine di passeggeri ciascuna, che raggiungevano la riva opposta in appena un minuto e mezzo. Si stima che il servizio, ancora in uso ai giorni nostri dopo una sostanziale ricostruzione avvenuta a seguito della guerra civile spagnola, quando la cima del ponte fu fatta saltare con la dinamite, abbia raggiunto la media ragguardevole di quattro milioni di utilizzatori l’anno. E neppure un ritardo per le navi che attraversano il suo stesso, prezioso spazio! Inoltre oggi, tramite l’impiego di ascensori, è possibile salire sulla cima della piattaforma superiore, godendosi dall’altezza di 50 metri una vista notevole del verdeggiante paesaggio circostante. Anche per questo, il ponte costituisce un’attrazione turistica estremamente significativa, al punto da essere stato iscritta, a partire dal 2006, nella lista dei patrimoni dell’UNESCO. Si tratta dell’unico bene sito nei paesi Baschi ad aver ricevuto lo stimato onore.
In breve tempo, la voce si sparse nell’Europa dell’epoca Vittoriana: Alberto Palacio c’era riuscito e il ponte, nonostante quanto paventato dai suoi detrattori e nemici professionali, non era precipitato nel fiume rovinosamente, dopo appena qualche giorno di utilizzo. Gli ordini per strutture simili iniziarono ad arrivare dalla Francia, dalla Germania e dall’Inghilterra.
A questo punto la storia prende una piega inaspettata, perché non fu tanto l’ingegnere basco a cogliere i frutti monetari di simili corpose commissioni, ma il suo aiutante di quei giorni di fuoco, il francese Joseph Arnodin. Tanto che fu di fatto il suo nome, negli anni successivi, a diventare il sostanziale sinonimo di questo approccio all’attraversamento dei fiumi. Tra il 1905 ed il 1915, furono costruiti nove ponti trasportatori in qualche modo riconducibili a lui, di cui soltanto due (oltre al ponte di Vicaya) risultano ancora in uso: il Rochefort-Martrou e il ponte di Newport, in Inghilterra. Nel frattempo, le compagnie concorrenti furono più che mai pronte a riprendere l’idea, conducendo alla creazione di altre grandi opere, come il ponte trasportatore di Middlesbrough (180 metri), della Sir William Arrol & Co. Quest’ultimo, che era costruito mediante l’impiego di soluzioni progettuali differenti, tra cui un uso minore dei cavi di tensione, finiva per utilizzare una quantità di materiali molto superiori all’alternativa ufficiale, raggiungendo le 2.600 tonnellate imperiali contro le appena 1.400 dell’altrettanto celebere concorrente nazionale di Arnodin, il quale tra l’altro era più lungo di 23 metri. Nonostante la relativa inefficienza, il ponte fu inaugurato nel 1911 con tutti gli onori da niente meno che il principe di Connaught, alla presenza di un grande numero di imparruccati rappresentanti dell’elite locale.
Tra gli altri ponti trasportatori degni di nota figura il Rendsburger Hochbrücke del 1913 sulla linea di Neumünster–Flensburg, che vanta l’utilità aggiunta di far transitare un treno sulle rotaie incluse nella sua sovrastruttura, mentre le gondole inferiori possono muoversi liberamente senza impedimenti di sorta. Altri validi esempi, come l’Aerial Lift Bridge di Duluth, in Minnesota (1905 – 120 metri) furono successivamente convertiti per diventare dei ponti a sollevamento, considerati soluzioni più moderne ed efficienti. Gli Stati Uniti, in particolare, non credettero mai eccessivamente nell’idea del ponte trasportatore, tranne che in un caso: la costruzione dell’eclatante Sky Ride, edificato per la fiera mondiale di Chicago del 1933. Il massiccio ponte, che misurava ben 564 metri di lunghezza e si trovava in corrispondenza dell’attuale piccolo aeroporto di Meigs Field, non rispondeva in reltà ad alcuna esigenza reale, costituendo solo un metodo conturbante per osservare l’esposizione dall’alto, meravigliandosi dei vertici raggiunti dall’ingegneria umana. Al termine della fiera, complici anche i costi che avrebbe comportato una suo mantenimento in stato funzionale, il ponte fu smontato e i sui materiali impiegati nei progetti più diversi. Ma il ponte trasportatore più lungo della storia fu costuito in effetti dai sovietici nel 1955, presso l’attuale città di Volgograd (ex Stalingrado). Il gigante misurava, prima di essere demolito per far spazio a strutture più moderne, ben 874 metri. La sua rimozione fu la fine di un’epoca, e in un certo senso il definitivo superamento di quel particolare spirito d’inventiva che era alla base dell’ingegneria vittoriana, surclassato ai nostri giorni dalla ricerca di approcci al problema sempre più semplici e diretti, perché nell’architettura, come nel mondo naturale, non sempre la voglia di distinguersi è sinonimo di funzionalità.
E questo potrebbe sembrare l’epilogo della storia, se non fosse che in effetti, in questo preciso momento, la città di Londra sta riservando uno spazio nel suo budget per costruire un nuovo ponte trasportatore. Si, proprio così: una gondola semovente, che verrà montata sotto la struttura del ponte pedonale del Royal Victoria Dock sopra il Tamigi, come dalla vecchia ipotesi progettuale del 1998. Il veicolo, simile a una teleferica trasparente, dovrà costituire nei fatti soprattutto un’attrazione turistica, da aggiungersi alle molte altre meraviglie di cui è stata adornata negli ultimi secoli la Vecchia Fumatrice. E cos’altro potremo fare noi, tranne timbrare con entusiasmo quel biglietto, per navigare ancora una volta tra gli invisibili flutti che sovrastano quel fiume? Disegnando, un punto dopo l’altro, la linea che collega i due estremi del progresso. Che non è una retta, perché ha un inizio definito. Ma chissà quando giungerà la fine…