Questo robot sfiderà Valentino Rossi

Motobot

Ecco qui qualcosa che non ci saremmo aspettati di vedere: una Yamaha YZF-R1, il poderoso veicolo che la multinazionale giapponese schiera, in diversi allestimenti, nelle competizioni di MotoGp e Superbike, modificato per montare le rotelle stabilizzanti di una bici d’infanzia. Non è altro che l’ennesima improbabile visione di un mondo del marketing in cui nulla è definito dalla logica, mentre superare le aspettative è un qualcosa che viene fatto in via teorica, grazie all’entusiasmo contagioso di una voce narrante. Mentre il successo dell’operazione viene misurato, non tanto nel momento della sua riuscita, quanto piuttosto in funzione del numero dei click raggiunti, dal remoto giorno di quel rutilante annuncio digitale. Tesi: allo stato attuale delle cose, è possibile costruire automobili automatiche. Gli ultimi progressi nel campo dei servomeccanismi ed attuatori consentono, nel frattempo, la messa in opera di robot umanoidi, come ASIMO della Honda, che nonostante la camminata un po’ rigida ed innaturale, s’impegna da anni nel copiare la gestualità ed i manierismi degli umani. Non sarebbe dunque possibile, a fronte di un periodo di ricerca e sviluppo relativamente breve, creare una figura antropomorfa che, messa in sella ad una moto, possa guidarla con precisione e sovrannaturale agilità? In fondo, la verità è che la maggior parte dei robot, venendo costruiti specificamente per svolgere una singola mansione, riescono spesso a superare il potenziale dei loro predecessori in carne ed ossa. Quindi perché non, la moto…
Si tratta di un avveniristico progetto presentato al mondo in occasione del 44° Motor Show di Tokyo, al quale il colosso della città di Iwata ha deciso di esporre, con la denominazione di Technology Exhibit, questo suo particolare “figlio”, creato con lo scopo dichiarato di porlo a confronto, entro il 2017, con il più famoso pilota legato alle Yamaha, qui chiamato unicamente il Dottore. Il fatto poi che quest’ultimo, proprio in questi giorni, sia al centro della diatriba legata alla caduta di Márquez durante il GP di Malesia dello scorso 25 ottobre. è una mera coincidenza, che non ha influenzato in alcun modo la scelta d’impostare su di lui il presente video a corredo. O almeno, questo è ciò che vorrebbero farci pensare. Dopo tutto, a cosa potrebbe mai servire lo sport, dal loro punto di vista, se non può essere usato per agevolar l’immagine di marchi e sponsor di supporto! E poi c’è anche da dire che il prodotto finale, giudicato sui suoi semplici valori estetici (perché di specifiche, non è stata rilasciata alcuna) risulta certamente meritevole ed appassionante. MOTOBOT, questo è il suo nome, si rivolge a Rossi, mentre in sovraimpressione compaiono alcune fotografie dell’infanzia del campione italiano. L’intero intento della sequenza, con uno stilema robotico tipicamente giapponese, ha la finalità di stabilire un rapporto empatico tra lo spettatore e l’automa, che si esprime con la voce acuta di un bambino, modificata per farla sembrare in qualche modo artificiale. C’è anche da dire che l’effetto finale, almeno per chi è vulnerabile all’effetto della uncanny valley, potrebbe risultare vagamente inquietante. Ed anche questo fa parte dell’insolito show. Musica trionfale in sottofondo: “Io sto lavorando ogni giorno per migliorare le mie abilità.” Inizia il robot, poi aggiunge umilmente: “Eppure non avrei potuto batterti nemmeno quando avevi 5 anni. Però forse, se imparo tutto su di te, studio quello che sai fare e m’impegno ad emularti…Deve pur esserci qualcosa che soltanto IO so fare!” Inquadrature di tecnici orgogliosi, l’alba sullo spiazzo asfaltato, la creatura artificiale che corre rapida e lontana. Sembra quasi l’inizio di una saga televisiva degli anni ’80/90, quando il futuro, paradossalmente, appariva più poetico e vicino.

Per comprendere cosa sia, effettivamente, MOTOBOT, sono ben pochi gli strumenti che Yamaha ci mette a disposizione. Il sito ufficiale del progetto, creato in abbinamento al portale dedicato al Motorshow, parla di sei sistemi meccanici manovrati dal cervello informatizzato, che si occupano rispettivamente di: sterzo, acceleratore, freno anteriore, freno posteriore, frizione e cambio. Neanche mezza parola viene invece spesa sull’inevitabile sistema di dispositivi di comando inclusi nella creatura, che dovrebbero includere una quantità variabile di metodologie dirette e flessibili (un radar, un giroscopio e/o una telecamera a infrarossi) ed indirette (antenne GPS, trasmettitori su pista). Vengono inoltre definite tre date-obiettivo con relative linee guida, tra cui la prima, relativamente meno ambiziosa delle altre, è stata già raggiunta: far percorrere al robot un tratto di strada a 100 Km/h, per poi ottenere da parte sua il superamento (lontano dalle telecamere) di un percorso a slalom con i coni. A quanto pare, quanto ci viene mostrato non è che una parte degli obiettivi già portati a risoluzione, quello più semplice dal punto di vista tecnologico. Sufficiente, almeno nell’idea degli sviluppatori, a raggiungere entro il 2017 il punto in cui sia possibile approntare la disfida, e purché i problemi rimasti vengano risolti senza soluzione di continuità, a raggiungere “Superare i 200 Km/h durante un giro in pista, superando [in determinate condizioni] le convenzionali capacità degli umani.” Il che del resto, bisognerebbe che qualcuno lo facesse notare al team, non garantisce una vittoria, nemmeno in absentia, sull’intramontabile Dottore.
Il che comunque non prescinde il fatto che, se l’obiettivo fosse portato realmente a coronamento, costituirebbe un significativo avanzamento nel concetto di una moto in grado di guidarsi da sola, come esemplificato dai precedenti tentativi sul tema:

Ghostrider
Correre dietro al motorino impazzito: un’ottima esercitazione di podismo.

Era il 2004 quando Anthony Levandowski, al comando di un team di studenti dell’Università di Stanford, riuscì ad ottenere i finanziamenti per partecipare alla prima edizione della DARPA Grand Challenge, una gara indetta dalla compagnia statunitense che si occupa di sviluppare le tecnologie emergenti con finalità dichiaratamente militari. L’evento, da allora ripetuto più volte, aveva la finalità di mettere alla prova le capacità di guida automatica di un vasto ventaglio di mezzi, fatti produrre a varie istituzioni con l’attrattiva niente affatto trascurabile di un premio da due milioni di dollari. Per conseguire l’obiettivo, che consisteva nel concludere nel minor tempo possibile un tragitto di 240 km nel deserto del Mojave, il giovane inventore aveva concepito un l’approccio totalmente originale delle due ruote. Il suo ragionamento, in linea di principio assolutamente condivisibile, era che mentre le altre squadre si affannavano attorno a mezzi pesanti dalla notevole autonomia, ma poco manovrabili, il suo semplice apparato basato su una moto a quattro tempi da 125 cc sarebbe letteralmente volata sopra le dune, raggiungendo il traguardo tra lo stupore dei giudici e gli spettatori. Quanto possiamo qui osservare in un video del programma Beyond Tomorrow è sostanzialmente, l’effettivo fallimento del suo sogno.
Il mezzo infatti, che aveva nome Ghostrider, non ci mise molto a dimostrare l’ampio ventaglio di problematiche collegate al concetto, niente affatto scontato, di una moto che procede da sola lungo la sua strada. Il veicolo impiegava una serie completa di sensori utili a comprendere quando stesse per perdere l’equilibrio, ed era in grado di rettificare la sua corsa grazie al semplice impiego dello sterzo, sfruttando sostanzialmente un’inversione del principio di chi pedala senza mani; ovvero, non poteva muovere il suo peso da una parte all’altra, ma aveva tempi d’intervento estremamente brevi sull’angolazione della ruota anteriore. Così, in condizioni ideali e prive di vento, era in grado di alterare la sua corsa senza limiti di sorta, ma purtroppo bastava il minimo agente esterno, per mandarla fuori fase. Complice anche l’epoca ormai remota, in cui il concetto della guida automatica era ancora agli albori, il team di Levandowski riuscì a superare le prime selezioni per partecipare alla gara e migliorò sensibilmente la moto, ma fallì durante una prova generale su un circuito ad ostacoli creato ad-hoc presso l’autodromo del California Speedway, che costituiva l’ultima scrematura prima della linea di partenza. Poco male: quell’anno il partecipante di maggior successo riuscì a raggiungere appena gli 11,9 Km, risultando quindi ben lontano dall’aggiudicarsi l’agognato premio. L’anno successivo, i due milioni di dollari furono vinti proprio da Stanford, grazie alla costituzione di un secondo racing team, questa volta incline a seguire vie di minore resistenza ed anticonformismo. Non tutto il male viene per nuocere: oggi, da una rapida ricerca online, si scopre che il promettente ingegnere sta lavorando niente meno che al progetto di Google per l’automobile automatica, mettendo le proprie doti al servizio di una di quelle tecnologie che potrebbero effettivamente cambiare il mondo.

Bycicling robot
Nel campo dei robot in grado di mantenersi in equilibrio su due ruote, spicca il piccolo automa del prof. Masahiko Yamaguchi, in grado di pedalare e andare in bicicletta. La disinvoltura della sua programmazione risulta tale da permettergli di salutare addirittura il pubblico, tra una gimcana e l’altra.

Ma questo vale, in senso lato, per qualsiasi nuova tecnologia. Mentre raramente si verifica nel campo della semplice pubblicità. E c’è molta ricerca di immagine, nel video di presentazione del progetto Yamaha, benché resti inerente la presenza di un budget infinitamente superiore rispetto a quello del progetto di Levandowski, che per certi versi sembrava quasi l’opera di un “mero” appassionato (di fisica applicata, sistemi avanzati di robotica ed automatismo, aha! Ognuno si diverte come può…)
Il profilo aggressivo di MOTOBOT, la sua voce bambinesca e l’ambizione estrema dichiarata dai costruttori attraverso quell’eloquio metallico, in fin dei conti, non sono che una parte accessoria dell’intera equazione. La verità sarà sottoposta al nostro giudizio soltanto al prossimo rilascio di una press release più dettagliata, se non addirittura a distanza di anni da quest’oggi, come auspicato dallo stesso androide, nell’epico confronto in pista con l’antesignano biologico pre-esistente. Ovvero colui che questo mondo di sgommate lo respira a pieni polmoni, avendone da tempo estratto il fluido stesso della propria vicenda personale. Senza bisogno di ricorrere all’uso di un ingombrante caricabatterie.

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