La potenza del fucile elettronico anti-drone

Dronedefender

In questo nuovo video del Battelle Memorial Institute, fondazione scientifica statunitense, si può osservare l’effetto di un innovativo tipo di arma, concepito come contromisura alla minaccia di un piccolo velivolo a radiocomando. In esso una guardia di sicurezza, spronata improvvisamente all’azione, nota l’avvicinarsi di un piccolo aeromobile non autorizzato. Senza un attimo di esitazione, quindi, estrae e gli punta contro un fucile che sembra uscito direttamente da Star Wars, premendo subito quello che dovrebbe essere il grilletto secondario. A quel punto, ennesima sorpresa tra le molte altre, nessun raggio della morte disegna archi pericolosi nell’azzurro cielo, né le microonde fondono la batteria, portando ad una repentina quanto indesiderabile esplosione. Il drone, piuttosto, sembra immobilizzarsi per un secondo o due, poi inizia lentamente ad atterrare, obbediente. L’agente continua intanto a bersagliarlo, in maniera comparabile a quanto facevano i protagonisti del film Ghost Busters, poco prima di procedere all’intrappolamento dei loro nemici sovrannaturali.
Un concetto relativamente nuovo, eppure sempre più diffuso, questo secondo cui dovremmo scrutare i cieli, preoccupati non tanto per i residui ectoplasmici dell’altro mondo, ma da un più concreto tipo di avversari; dunque, pensateci! Un quadricottero professionale, liberamente venduto nei negozi oppure online, può facilmente trasportare un carico di 900 grammi volando ad una velocità di 50-60 Km/h e un’altitudine di fino a 6.000 metri. Non è poi così remoto immaginarlo mentre piomba su obiettivi sensibili, arrecando un qualche tipo di danno difficilmente prevedibile, nonché impossibile da prevenire tramite mezzi convenzionali. A quel punto cosa fai, gli spari? E se invece, proprio questa fosse stata la condizione auspicata dal malintenzionato, che l’aveva caricato con un’arma chimica o batteriologica? E se manchi il colpo dopo che hai sentito quel ronzio insistente, quanti secondi hai per tentare di nuovo, 3 o 4…Prima che l’oggetto, grazie alla precisione giroscopica del suo sistema di volo, sia troppo vicino per tentare ancora… Ciò senza contare, poi, la problematica accessoria: un attacco simile non mette direttamente in pericolo gli esecutori, che possono quindi agire con una ragionevole certezza dell’impunità. Chiunque, anche soltanto per una sorta di perverso gioco, potrebbe trasformarsi da un momento all’altro nell’attentatore col telecomando. Lo scorso aprile, fece notizia il caso in Giappone di un quadricottero che era stato fatto atterrare sopra l’ufficio del primo ministro, con a bordo una bottiglia piena di un fluido lievemente radioattivo. Non è tutt’ora chiaro se l’obiettivo fosse mettere in atto una sorta di anonima protesta, o nuocere alla salute del politico in quello che potrebbe definirsi l’attentato lesionante più lento del mondo. Già in precedenza, a gennaio, un velivolo del tutto similare si era schiantato sul prato della Casa Bianca, con intenzioni ad oggi ignote.
E le forze dell’ordine, nella maggior parte dei casi, intervengono soltanto sul fatto compiuto. Un po’ perché c’è ancora questa concezione largamente immotivata, secondo cui un “giocattolo” ad uso civile non può arrecare veri danni a cose o persone, ma soprattutto per l’assenza di attrezzature o contromisure specifiche, che come dicevamo, sono largamente necessarie nell’effettuare un intervento risolutivo. Enters quivi, la succitata fondazione (non a scopo di lucro) con sede operativa nell’Ohio, fondata negli anni ’20 grazie all’eredità del ricco industriale Gordon Battelle, oggi attiva nel campo dello sviluppo tecnologico, biomedicale e della ricerca di energie alternative. Un colosso largamente sconosciuto all’opinione pubblica europea, nonostante abbia oltre 22.000 dipendenti, dislocati nei suoi 60 stabilimenti in giro per il mondo. L’approccio, in questo caso, è largamente non violento. Convincere, letteralmente, i sistemi informatici del drone, che è giunto il momento di atterrare. Ecco come funziona…

Johhny Dronehunter
“Perché fermare un drone, quando puoi letteralmente, distruggerlo?” Questo pareva chiederci la strana pubblicità prodotta dalla SilencerCo nel corso del 2014, a vantaggio del loro nuovo silenziatore per fucili a canna liscia. Con uno spettacolo pirotecnico ai danni di alcuni ronzanti esploratori, inspiegabilmente sperduti in mezzo al deserto. È chiaro che un approccio tanto distruttivo sarebbe inconcepibile nella maggior parte dei casi, soprattutto in situazioni urbane.

Si tratta di un sistema con due antenne di disturbo, montate rispettivamente sotto e sopra la canna di una comune arma da fuoco. Il peso complessivo dichiarato ammonta a 10 libbre (4,5 Kg circa) quindi abbastanza da costituire un ingombro, ma non di molto superiore a quello di altri accessori tecnologici per i fucili, come torce multi-uso o caricatori con capienza migliorata. La prima delle due apparecchiature di trasmissione si occupa di disturbare, con estrema mancanza di discrezione, tutte le onde radio ad uso civile in uno spazio conico dall’angolazione di 30°, impedendo di fatto l’invio di nuovi segnali al drone bersagliato dall’operatore. Ma il vero colpo di grazia viene dato, nel frattempo, dalla sua compagna, un sistema che invia dei falsi segnali GPS all’obiettivo. La maggior parte dei quadricotteri moderni commerciali sono infatti dotati di un sistema di sicurezza definito del “ritorno a casa” che li porta, in assenza di segnali dal radiocomando, a impostare automaticamente una rotta che li porti nuovamente al punto di partenza. Purché siano in grado di capire esattamente dove si trovano; altrimenti, cercheranno semplicemente, con estrema calma e rilassatezza, di toccare terra lì, dove si trovano al momento. Simili situazioni sono alla base dei diversi video, estremamente popolari su YouTube, in cui un innocente proprietario di drone si lancia per salvare il suo costoso beniamino, prima che questo si tuffi allegramente nelle acque fosche di un laghetto, bagnasciuga o qualsivoglia fiume. Si può facilmente comprendere, condierando tali scene ed altre similari, l’utilità di un meccanismo come il DroneDefender, in grado d’indurre tale riflesso in situazioni d’emergenza, ogni qual volta se ne presenti la necessità.

Drone Falcon Shield
Lo scenario catastrofista della bomba nello stadio ricorda vagamente il romanzo di Tom Clancy, Al vertice della tensione, da cui è stratto tratto l’omonimo film con Ben Affleck del 2002.

L’aspetto originale di un tale apparecchio resta esclusivamente la sua inerente maneggevolezza, sopratutto quando si considera come diverse compagnie, sia americane che europee, avessero già effettuato esperimenti simili con armi di rilevamento e disturbo, per lo più automatizzate. Tra queste merita una breve trattazione la Falcon Shield Interface della Selex ES di Pomezia (fino al 2011 Finameccanica Consulting) probabilmente il principale contractor, militare o meno,  per le contromisure elettroniche sul territorio italiano. L’approccio, così efficacemente dimostrato dal breve video CG a corredo della press release, era in questo caso concepito per l’impiego fisso ed automatico, sfruttando un sistema ibrido di radar e telecamera ottica per l’identificazione della minaccia. Il passo successivo, quindi, a seconda dei casi, poteva essere un doppio raggio ICS/GPS, simile a quello del DroneShield, piuttosto che l’impiego diretto di quelli che per l’occasione vengono definiti in gergo degli “agenti cinetici” (si, sarebbero i proiettili). Un funzionamento simile, benché basato su tecnologie e brevetti differenti, è stato concepito e testato nel frattempo in Inghilterra, per l’AUDS (Anti UAV Defense System) creato da una joint venture delle compagnie Chess Dynamics, Blighter Surveillance Systems ed Enterprise Control Systems. Resta tuttavia un problema di tipo normativo, difficilmente aggirabile allo stato attuale delle cose. Nella maggior parte dei paesi in cui operano le compagnie citate, tra cui gli Stati Uniti che sono i più sensibili alla problematica, l’impiego di dispositivi per il disturbo delle trasmissioni radio resta totalmente illegale. Ergo, gli unici che potrebbero montare e far funzionare tali sistemi di protezione restano gli stati stessi, che allo stato attuale delle cose, ancora non ne sentono la necessità.
L’unico caso in cui i sistemi anti-drone sono stati usati su larga scala dall’epoca della loro recente invenzione è stato durante l’edizione 2015 della maratona di Boston, come ulteriore protezione dopo il tragico attentato del 2013. Il sistema impiegato in quel caso, nato da una campagna di crowdfunding online e basato su un semplice computer Raspberry Pi, aveva il nome di Droneshield, ed altro non faceva che riconoscere le potenziali minacce dalla loro traccia audio, confrontandole con un completo database dei droni attualmente in commercio. A 10 di questi dispositivi, forniti gratuitamente dalla compagnia produttrice con sede a Washington D.C, era stata abbinata una pattuglia specializzata, armata di dispoistivi lancia-rete concepiti per intrappolare gli eventuali UAV in arrivo. L’intera scena di un eventuale falso positivo, con conseguente fuoco di fila su un piccione di passaggio, fa portare alla mente immagini di paranoia collettiva. Eppure, eppure. Simili contromisure, di qui a poco, potrebbero trasformarsi nell’assoluta normalità.

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