Le trovi sulla spiaggia, quando sei davvero fortunato, pallidi residui della vita che era stata. Tonde e traforate, qualche volta, sempre con un fiore disegnato a cinque petali, più o meno a rilievo e al centro oppure no. Gli antichi credevano che fosse la valuta dei tritoni stessi di Nettuno, usata presumibilmente per comprare birra tra i locali alla barriera corallina. Di conchiglie assurte al ruolo di monete, del resto, la storia ne fu piena. Ma se resti concentrato, continuando a cercarle tutto attorno, alla fine ne potresti vedere addirittura una che…È ancora in grado di espletare. Strisciando, camminando, lievemente alla ricerca di piccoli cobepodi, alghe diatomee, larve di molluschi a altri detriti vari. Potrà non sembrarlo ma, questo dischetto deambulante dal diametro di 7 cm e mezzo, è in effetti uno spietato e inesorabile predatore. Che si sposta alla vertiginosa velocità di un metro l’ora di velocità, almeno quando ha particolarmente fretta di trovarsi in qualche luogo non esattamente definito. L’origine della metafora alla base del suo nome non è veramente, dopo tutto, così difficile da rintracciare: la maggior parte dei sand dollars, come vengono definiti in tutto il continente americano (potere della valuta forte) sono piatti e tondi, con proporzioni del tutto simili a quelle di una vecchia moneta d’argento. Il che non significa, ad ogni modo, che siano facili da notare. Questo perché dopo qualche millennio di evoluzione, a partire dai cassiduloidi del periodo Giurassico, hanno appreso i due segreti per sfuggire ai loro predatori dell’età adulta, soprattutto gabbiani, ma anche il pesce piatto Platichthys stellatus o la grande stella marina rosa, Pisaster brevispinus; il primo è muoversi davvero molto, molto poco, il secondo è non esporsi mai alla luce del sole. Persino quando, come capita praticamente tutti i giorni, la marea si ritira dalle acque basse in cui amano abitare, benché siano in grado di costituire colonie a profondità di fino a 90 metri. Perché allora, scoperti e vulnerabili, possono morire anche soltanto seccandosi, ghermiti da quei raggi che per noi sono la vita. Iniziano quindi, quasi subito, a scavare. Ma come, potrebbe chiedersi qualcuno, può infilarsi sotto la sabbia, un animale che è sostanzialmente un piccolo dischetto semovente, spinto innanzi da una forza niente affatto chiara? Il segreto sarà netto ai vostri occhi, se soltanto lo raccoglierete, per girarlo ed osservare la sua parte sottostante.
L’ordine dei Clypeasteroida, che comprende specie diffuse in America, Sud Africa ed Australia, appartiene al phylum degli echinodermi, lo stesso dei cetrioli di mare, i crinoidi, le stelle marine e soprattutto loro, i ricci di mare, con cui ha in comune la struttura fondamentale del carapace ed il sistema di locomozione, formato da innumerevoli sottili preminenze, ma non spinose, in questo caso, bensì ricoperte a loro volta da un migliaio di sottili zampe tubolari, dette cilia. Ed è questa, sostanzialmente, l’unica interfaccia della creaturina con il mondo, che la impiega per ogni sorta di mansione, inclusa quella di guidare sapientemente le piccole prede d’occasione verso il foro al centro del suo disco, che costituisce, neanche a dirlo, l’organo fondamentale della bocca. Può in effetti capitare di vederne un’intera colonia, nei periodi del giorno in cui sono sommersi, che si è disposta nella corrente in modo obliquo e trasversale, dozzine o centinaia di alettoni da tunnel del vento, posti a catturare e poi fagocitare tutti quei micro-organismi che, per loro sfortuna, si trovavano a passare di lì. E pensare che anche loro erano stati, nell’età giovanile, esattamente lo stesso tipo di creatura! Un dollaro di mare, infatti, nasce come larva della tipologia nekton, ossia in grado di nuotare in tre dimensioni, che attraversa vari stadi di metamorfosi, fino al formarsi del suo scheletro calcareo, abbastanza pesante da legarlo per il resto della vita al suolo e trasformandolo in benthos, creatura dei fondali. Ciò detto, persino in quello stato il Clypeasteroida medio è tutt’altro che indifeso, e può ricorrere ad un trucco estremamente funzionale…
Alcuni studi condotti nel 2008 dai laboratori della Friday Harbour nello stato del Pacifico di Washington hanno scoperto una dote estremamente particolare nelle larve delle monete di mare di quei luoghi, principalmente appartenenti alla specie degli Echinarachnius parma (dal nome dello scudo tondo usato dai romani). Quando minacciati dai predatori, infatti, gli esemplari giovani hanno l’abitudine di effettuare quella che potrebbe essere definita una sorta di mitosi, riproducendosi senza l’impiego di una compagna e creando a tutti gli effetti un clone di se stessi. A quel punto, la doppia versione più piccola dell’animale in età giovanile riesce in genere a trarre in inganno il pesce o la stella marina che lo minacciava, diventando essenzialmente invisibile ai loro occhi. Ma non a quelli dei crostacei in caccia sul fondale, ahimé: ogni stratagemma ha un costo, e chiaramente, l’invincibilità non è di questo mondo. Una volta cresciuti, tuttavia, questi echinodermi diventano talmente abili nel loro stile di vita, passivo e rilassato, che vengono mangiati alquanto raramente, raggiungendo il più delle volte l’età massima del loro ciclo vitale, che si aggira tra i 10 e gli 11 anni, come un cane di taglia grande. In questo, certamente, li aiuta il fatto che non siano considerati una delicatezza nella cucina di alcuna parte del mondo, benché probabilmente, qualcuno di sicuro, nel corso della lunga storia umana, QUALCUNO deve aver provato a mangiarli. Probabilmente, non avranno un buon sapore.
Nonostante questo, i sand dollars, nella particolare forma del loro carapace sbiancato dal sole (che in inglese viene chiamato test, come quello dei ricci di mare) affascinano gli umani da generazioni. Generalmente simmetrico, e traforato in alcune specie da una serie di pori, che nella creatura viva servono a filtrare l’acqua grazie all’uso di appositi e minuscoli arti specializzati, questi oggetti vengono spesso raccolti, collezionati ed usati per decorare in ogni sorta di contesto. Qualcuno, ricoprendo i più piccoli di brillantini o pietre colorate, li usa addirittura per fabbricare dei curiosi orecchini.
Ma un aspetto particolarmente simbolico, e quasi misterioso, della moneta di mare è quello che si scopre rompendo il suo scheletro, per scoprirne l’improbabile contenuto, come per l’appunto fatto qui sopra da Michael Woodworth, l’autore del romanzo filosofico ed esistenzialista The Sand Dollar. Una volta compiuto il misfatto, infatti, il disco si separa esattamente in cinque segmenti, corrispondenti ai petali del petalidium, la figura che compare sulla sommità. A quel punto, da ciascun frammento fuoriesce un improbabile oggetto osseo, con la forma esatta di una colomba in volo. Il significato di un simile prodigio è stato variabilmente interpretato: secondo i missionari cristiani, che per primi effettuarono uno studio approfondito di questi animali, ciò rappresentava soltanto l’ennesimo segno della divina provvidenza, in grado di nascondere dovunque i propri segni, a beneficio di chi avesse voglia di cercarli. Nel racconto qui citato, ciascun “uccello” diventa un simbolico rappresentante, o messaggero, delle trascorse guerre combattute tra il mare e il Sole, la Luna, il Vento e le Montagne, fino al raggiungimento di finale stato di Equilibrio, simboleggiato dalla vita stessa del sand dollar, così prossimo, aggiungerei, alla buddhità, vista la sua totale assenza di ego e desiderio. Mentre dal punto di vista scientifico, come spesso capita, la spiegazione si fa molto più prosaica e semplicistica: quegli oggetti sono, sostanzialmente, i denti del riccio di mare.
La struttura della bocca degli echinodermi, a cui si conforma anche questa del nostro amato dollaro, ha una forma estremamente riconoscibile e complessa, che ingigantita alle dimensioni di un carnivoro terrestre avrebbe subito suscitato, in noi semplici umani, un sentimento d’istintiva diffidenza e latente terrore. Il primo a descriverla, assieme ad innumerevoli altri aspetti del mondo della filosofia naturale, fu Aristotele nel suo Τῶν περὶ τὰ ζῷα ἱστοριῶν (Studi sugli animali – quarto secolo a.C.) che scelse la metafora di una lanterna. La forma poligonale dell’organo, infatti, gli ricordò particolarmente da vicino la tipica luminaria usata a suo tempo, ed in effetti anche molto successivamente alla civiltà greca del mondo antico, costituita da un’involucro racchiuso in cinque pannelli di corno lucidato, traslucido ma in grado di fermare il vento. Gli anglosassoni medievali usavano chiamarla, in un’interessante commistione lessicale, lanthorn (lantern+horn). L’intuizione di colui che venne prima fu però talmente valida, e condivisibile, che ancora oggi per riferirsi in ambito scientifico a questa meraviglia dell’anatomia viene impiegata la locuzione “lanterna di Archimede”, per lo meno quando non si decida di prefigurarsi l’esperienza di esserne risucchiati. Perché allora, inesorabilmente fatti rotolare senza scampo sulle innumerevoli zampette tubolari, mentre il dollaro non accenna ad arrestare la sua marcia verso il futuro, non potremo che intravederne per un attimo l’angusta eppur vasta profondità. Soltanto per comprendere, sul sopraggiungere del buio finale, il vero significato del termine “iper-inflazione”.