Dalle profondità dei sotterranei del Museo Automobilistico di Lane, a Nashville, Tennessee, riemerge una creatura che l’intero mondo aveva già dimenticato: è la Hoffmann del ’51, questa che Jason Torchinsky del blog Jalopnik, parte del famoso network Gawker.com, ci dimostra nel primo episodio della sua nuova serie Jason Drives. E dopo che avrà portato a termine il suo giro di prova, bisogna riconoscerlo, nulla sarà ancora come prima. Nella comprensione di quante cose, davvero, possano andare per il verso sbagliato nella progettazione di un automobile. Nonché nell’attribuzione dei meriti di coloro che vennero subito dopo, Renzo Rivolta con la sua Iso di Milano, assieme ai progettisti Preti e Raggi. Perché in terra di Germania, come in Italia, Francia ed Inghilterra, nasceva in quegli anni del secondo dopoguerra un’esigenza nuova, di acquisire l’abilità di spostarsi su ruote senza scialacquare le proprie risorse finanziarie, sempre più scarse e preziose. E in molti, provenienti dagli strati sociali più diversi, tentarono di approcciarsi al problema con finalità di arricchimento personale, giungendo talvolta alla creazione di un prototipo, o una prima serie limitata di veicoli provenienti da qualche fabbrica in periferia, che poi piazzavano tra i propri vicini. Ma questa macchina, frutto della mente e delle mani operose dell’omonimo ingegnere di Monaco (di cui Internet conosce il solo cognome, oltre all’altra iniziale, M.) resta tuttavia diversa da ogni altra prodotta nel suo tempo ed in effetti, della storia.Tre sole ruote, di cui quella posteriore si occupa di sterzare, per appena 340 Kg di carrozzeria spiovente in alluminio, dalla coppia di vistose prese d’aria per il radiatore, ma il cui retro rassomiglia stranamente al casco di un supereroe. Una forma che Jason descrive come “inadatta al corpo umano” mentre si contorce faticosamente, per fluire fino al posto del guidatore, dove procede nell’illustrarci le fenomenali meraviglie del veicolo: finestrini sollevabili grazie all’impiego di una striscia di cuoio, che veniva bloccata a mezza altezza grazie a perni verso la metà della coppia di sportelli. Un serbatoio posto in alto e dietro, con il condotto della benzina che, inspiegabilmente, passa dentro l’abitacolo, che a causa delle guarnizioni vecchie e consumate, inonda quest’ultimo di esalazioni maleodoranti e irrespirabili. La leva del cambio, sequenziale, che prevedeva intenzionalmente, una posizione intermedia tra ciascuna coppia di marce, corrispondente al folle (1-F-2-F-3-F…) senza nessun tipo di risposta tattile al passaggio dall’una all’altra condizione. Con conseguenze sull’effettiva guidabilità che vi lascio facilmente immaginare: durante il suo faticoso ma breve giro per il parcheggio del museo di Lane, un ex panificio, l’improbabile pilota rischia quasi di scontrarsi ben due volte, per non parlare del pericolo costante di cappottamento.
Il grande progettista Hoffman aveva ben pensato, infatti, di posizionare le tre ruote della sua automobile piuttosto lontane dai paraurti, con quella posteriore, in modo particolare, che sembra più che altro messa al centro esatto del veicolo, mentre l’abitacolo prosegue per un metro abbondante. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più incredibile, alcuni pesanti componenti del motore si trovano montati su un’apposita parte del telaio che (per qualche ragione) sterza assieme alla ruota, inducendo un costante spostamento del baricentro da destra a sinistra, anche con il veicolo fermo. Alla fine, più che altro per appesantire il mezzo, l’inviato di Gawker finisce per fare il suo giro accompagnato da un addetto del museo, trasformatosi in zavorra umana per l’occasione, onde evitare conseguenze infauste quanto cupamente attese. Eppure questa strana creatura non fu probabilmente un pezzo unico, visto come da una rapida ricerca online se ne scopre almeno un altro esemplare al Microcar Museum di Madison, Georgia, oltre ad alcuni articoli che la confondono con un’altra trovata tedesca di quegli anni, la Hoffmann Auto-Kabine, in realtà l’opera di Jakob Oswald Hoffmann di Düsseldorf, che a questo àmbito dei trasporti ad uso personale scelse di dedicargli la vita e tutte le sue finanze, fino all’imprevisto finale del 1954. Ma ben prima che accadesse questo…
Fu un vero fulmine a ciel sereno, il successo spropositato di uno stabilimento quasi a conduzione famigliare, in grado di irrompere sulla scena internazionale, rivaleggiando per alcuni gloriosi anni contro un colosso nascente come la BMW. Subito dopo la guerra, J.O. Hoffmann spostò la sua fabbrica di biciclette nel quartiere Ratingen della città di Lintorf, nel Berg meridionale. Qui, reinvestendo sapientemente gli utili acquisiti, iniziò a produrre alcune motociclette di piccola cilindrata, di cui la storia non conserva la memoria. Finché il 9 agosto del 1949, in un accordo che avrebbe fatto la storia dei motori, non gli riescì di acquisire l’accordo in esclusiva per il territorio tedesco della Vespa Piaggio, quello stratosferico successo del design made in Italy che già stava rivoluzionando il mondo dei trasporti in mezza Europa. Naturalmente, lui ci aveva visto giusto, e gli affari effettuarono una brusca impennata: ingrandendo a dismisura il personale, in funzione dell’alta richiesta di questo prodotto per una volta sia accessibile che desiderabile, la Hoffmann avrebbe prodotto nel giro di quattro anni ben 60.000 motocicli, oggi altamente valutati dai collezionisti. Si dice infatti, a torto a ragione, che le Vespa costruite in Germania fossero migliori. Ma deve necessariamente trattarsi del solito campanilismo, giusto?
Particolarmente stimata dai posteri resta anche l’infruttuosa venture del 1951, quando il capitalista tedesco, guidato in massima parte dalle sue passioni personali, decise d’immettere sul mercato un’attraente moto dalla cilindrata di 250 cc, la Gouverneur, progettata dal celebre designer Richard Küchen. Hoffmann aveva già investito nello sviluppo e nella messa in commercio del suo capolavoro oltre un milione di marchi, quando all’improvviso si rese conto che il veicolo non avrebbe avuto il successo sperato: era semplicemente troppo costosa per il cliente finale, ed inoltre presentava alcune problematiche tecniche come la tendenza a surriscaldarsi. La sua unica speranza d’irrompere sul mercato delle moto vere e proprie, a quel punto, era produrre una versione più potente della Vespa, che fosse dotata di un motore comparabile alla Gouverneur. Dopo un breve confronto con la Piaggio, tuttavia, la situazione fu ben presto chiara: l’azienda italiana non avrebbe mai accettato modifiche al suo capolavoro, né che all’estero se ne vendesse una versione in qualche modo superiore. Tuttavia lui non era certamente tipo da lasciarsi scoraggiare, tanto che nel corso di quello stesso anno iniziò comunque la produzione, perdendo quasi subito la sua prestigiosa licenza, che venne trasferita alla Messerschmitt di Bamberga, si: proprio quella degli aerei della seconda guerra mondiale.
Privato della sua principale fonte d’introiti, Hoffmann si trovò quindi nella difficile condizione di chi doveva reinventarsi, o perire. Ma la sua mente simile ad una fucina non lasciò che fosse preso dal panico, avendo piuttosto già individuato un altro trend nascente di quegli anni, neanche a dirlo, anch’esso proveniente dall’Italia. E benché ci fossero stati alcuni fallimentari esperimenti nel suo paese, come l’improbabile automobile del suo quasi omonimo di Monaco, la situazione fu subito chiara: le micromacchine avrebbero invaso l’Europa. E per chi voleva arricchirsi, esisteva una sola possibilità: cavalcare saldamente l’onda.
La vettura monocilindro di maggior successo nella storia, naturalmente, dovremmo conoscerla già tutti: è l’Isetta della Iso, azienda fondata originariamente a Bolzaneto, poi trasferitasi nella più grande e celebre città del Nord Italia. Originariamente specializzata nella produzione di impianti per la refrigerazione industriale, poi attiva nel campo degli elettrodomestici, infine trasformatasi in un vero astro nascente dei trasporti, grazie alla collaborazione dei due ingegneri aeronautici citati in apertura, Pierluigi Raggi e Ermenegildo Preti. Già nel ’52, proprio l’anno di creazione della strana Hoffman a tre ruote, quest’ultimo personaggio in particolare aveva pensato di applicare in campo motoristico il progetto presentato per la sua tesi, di un abitacolo “a uovo” che si aprisse nella parte frontale, facilitando il parcheggio e riducendo il peso di una coppia di sportelli. L’automobilina impiegava inoltre una soluzione interessante per il retrotreno, che benché presentasse due ruote (la soluzione singola era stata giudicata insicura) le vedeva tanto ravvicinate da non richiedere l’impiego di un differenziale. Nel frattempo il telaio e la carrozzeria, progettati dal collega, erano stati sapientemente adattati alle esigenze meccaniche ed alla distribuzione del peso, un aspetto fondamentale in veicoli tanto ridotti fino all’osso, tendendo anche conto di quello del guidatore e dell’eventuale passeggero. Il modello definitivo fu presentato alla stampa nel ’53, per essere esposto poco dopo al presso il Salone dell’Automobile di Torino. Le congratulazioni e l’interesse del pubblico furono subito eccezionali, tanto che tutti capirono di essere innanzi ad un concetto destinato a fare molta strada (in senso assolutamente letterale).
Compreso Hoffmann, dalla terra di Germania. Che nel 1954, lavorando in autonomia, costruì il primo prototipo di quella che sarebbe diventata la sua celebre Auto-Kabine, praticamente una versione riveduta e corretta, in via del tutto abusiva, del grande successo della Iso Rivolta, con l’unica differenza intenzionale di un singolo sportello sul lato destro, invece della singola apertura frontale. Il veicolo in questione, ben lontano dalla sostanziale inutilizzabilità della mini-macchina a tre ruote del ’52, costituiva in effetti un’interessante variante sul tema, con un motore più potente dell’Isetta (300 cc invece che 236) e il vantaggio intrinseco di avere un vero e proprio cruscotto, con la strumentazione comparabile ad un qualsiasi veicolo dell’epoca, mentre l’italiana aveva solo un contachilometri montato sul volante. Originariamente, ne era stata prevista anche una versione con due sportelli, che tuttavia non ebbe mai modo di essere ultimata, perché nel frattempo la BMW, come fatto in precedenza da Hoffmann stesso con la Vespa Piaggio, aveva stretto il celebre accordo d’esclusiva per la produzione tedesca dell’originale, e difficilmente avrebbe tollerato una simile concorrenza sleale. Iniziò una breve ma dura battaglia, con Hoffmann che affermò a più riprese, pubblicamente e nelle sue pubblicità, prima che l’idea originale era stata la sua, mentre gli italiani erano venuti dopo (ah!) poi che l’intera questione nascesse unicamente dalla scelta accidentale di soluzioni simili, mirate alla risoluzione dello stesso problema: un’auto piccola, agile, poco costosa. Era davvero possibile, del resto, creare un’alternativa che fosse al tempo stesso radicalmente diversa, eppure altrettanto funzionale? Si potrebbe creare un interessante parallelo con il mondo degli smartphone moderni, che dall’introduzione del touch screen hanno preso tutti ad assomigliarsi, diventando dei rettangoli uguali a loro stessi.
Ma così certamente non la pensarono la BMW, né il tribunale chiamato per dirimere la questione, né la Deutsche Bank, principale creditrice di Hoffmann dopo il doppio passo falso della Gouverneur e della Vespa potenziata. Che avendo più fiducia nel marchio dal nome famoso, ritirò il suo prestito, costringendo la fabbrica di Lintorf-Ratingen ad un’immediata bancarotta. Si dice che i dirigenti della BMW, per indorare la pillola o forse girare il proverbiale coltello nella piaga, avessero quindi inviato al rivale sconfitto una fiammante 502 V8, gradita consolazione rispetto alle gravi conseguenze giudiziarie della sua follia, forse più adatta ad un mondo ante-guerra in cui il diritto d’autore non esisteva ancora, e ognuno potesse tentare la fortuna come meglio preferiva, a discapito di chi si azzardava a creare qualcosa di nuovo. Che in quel caso avesse vinto l’Isetta nostrana, in effetti, fu una grande fortuna per (quasi) tutti, incluso il gigante di Monaco di Baviera.