Nel quartiere Chiyoda di Tokyo, in prossimità di un triangolo ideale che include gli edifici della Dieta nazionale (l’equivalente del nostro parlamento) la stazione di Nagatachō e lo stesso palazzo dell’Imperatore, la torre svettava maestosa, avveniristica ed ormai, del tutto priva di speranza. Frutto significativo di un periodo d’espansione economica incontrollata, gli anni ’80 della piena bolla economica giapponese, quando i soldi erano pressoché infiniti e chiaramente, i prezzi aumentavano di conseguenza. Soprattutto quelli degli immobili, l’oro preferito degli investitori. Così poteva succedere, improvvisamente, che il prestigioso Kitashirakawa Palace, l’hotel fondato all’interno di una residenza che una cinquantina d’anni prima era stata di Yi Un, principe in esilio di Corea, disponesse di risorse tali, ed un terreno sufficientemente spazioso, da iniziare a trasformarsi in grattacielo. Ma non uno come tutti gli altri, cubico e indefesso: bensì un edificio degno di lasciare il segno, progettato da niente meno che Kenzō Tange, uno dei massimi architetti dell’ultimo secolo trascorso. Il quale, già avviato verso gli ultimi anni della sua lunga carriera (al completamento, ne avrebbe avuti ben 79) appose la sua firma sul progetto di un palazzo certamente insolito, non particolarmente amato dagli amanti della tradizione: 40 piani con una pianta a doppia onda seghettata, con una forma grossomodo a V. Il suo nome: Grand Prince Hotel Akasaka. Edificio costruito rispettando i migliori crismi tecnici dell’epoca, ma che ormai, come capita pressoché ovunque, ci appare inefficiente nel suo isolamento termico, con i soffitti troppo bassi, gli spazi insufficienti per accomodare le infrastrutture tecnologiche e una copertura in alluminio parzialmente rovinata, la cui sostituzione costerebbe cifre niente affatto indifferenti. Ora, se fossimo a New York, Chicago o San Francisco, non è difficile immaginare quello che succederebbe: come per l’Empire State Building, interamente rinnovato più volte, questa vecchia vista cittadina andrebbe preservata, a perenne memento di un’epoca di gloria, ormai trascorsa eppure mai dimenticata. Qualche piccolo sacrificio, da parte dei suoi occupanti quotidiani, sarebbe giustificato con il “fascino” e il “pathos” della sua esistenza. Ma nella terra dell’antico santuario di Ise, il grande tempio shintoista in legno che ogni 20 anni viene fatto a pezzi e poi ricostruito, tra le due alture antistanti nella prefettura di Mie, nulla è fatto per durare più di una, al massimo due generazioni. Iniziò quindi a palesarsi un chiaro sentimento, nella mente degli abitanti del quartiere, dei visitatori di passaggio, dei turisti e delle schiere dei diligenti salaryman con il colletto bianco. Il suo nome: Mono no aware. Il senso [dell’impermanenza] delle cose, fondamento di un’antica strada filosofica dell’Est del mondo. Utile, nel presente caso, a comprendere come quel grosso ingombro cittadino, per quanto riconoscibile e talvolta idealizzato, aveva ormai fatto il suo tempo.
Il che porta a tutta una serie di problemi accessori, tra cui quello principale: come demolire un simile gigante, per di più posto al centro di un quartiere di rappresentanza, circondato da altri palazzi non di molto più piccoli né in alcun modo corazzati? Le moderne tecniche d’implosione, basate sull’uso di esplosivi attentamente calibrati e posti nei punti deboli della struttura, possono ottenere dei risultati davvero encomiabili: tutti hanno visto quella popolare tipologia di video, in cui reliquie dall’imponenza comparabile all’Akasaka tremano d’un tratto, poi iniziano immediatamente a ripiegarsi su se stessi. Una perfetta esecuzione del piano operativo, generalmente, permette di rimuovere qualsiasi colossale monumento all’espansione in verticale, senza compromettere la solidità dei suoi vicini più immediati. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa contare su tali metodi in più che una minima percentuale di casi. Perché gli errori, ingegneristici o d’altro tipo, capitano, e prima di procedere con la detonazione occorre chiedere lo sgombero degli edifici circostanti, per lunghe e gravose ore a danno dell’industria. Una strada difficilmente percorribile, in zone topiche come Manhattan o Chiyoda. Ed a questo va anche aggiunto il notevole inquinamento, dovuto alle polveri che si liberano nell’atmosfera. Ma la necessità, da sempre, genera i progressi tecnici del mondo…
L’approccio scelto è stato una notevole invenzione della Taisei Corporation, azienda sul cui sito ufficiale campeggia un personaggio dei cartoni animati in stile pseudo-realistico, a rappresentare la rutilante pubblicità di 30 secondi in cui un tale giovane protagonista idealizzato passa dalla costruzione di case vista mare con tecniche di falegnameria tradizionale nello stile sukiya-daiku alla direzione dei lavori in ciò che potrebbe essere un gigantesco terminal aeroportuale. Uno stile dialettico e valori estetici che in qualche modo devono aver colpito la proprietà della vasta catena Prince Hotels, che a partire dal 1982 aveva amministrato il palazzo di Kenzō Tange e che giunse a chiuderlo nel marzo del 2011, in cerca di più validi investimenti per le sue considerevoli risorse. Dando l’ok a procedere; perché nessuno mai, in Giappone come altrove, avrebbe acquistato un simile grattacielo, vecchio per concezioni e funzionalità. Così, all’inizio del 2013 è partita una demolizione che funziona, in parole povere, così: piuttosto che liberarsi, come prima cosa, del tetto dell’ultimo piano, lo si è attrezzato con dei poderosi pistoni idraulici, in grado di sostenerlo e ribassarlo mano a mano. Quindi, al tutto è stata sovrapposta una finta facciata in materiale plastico, sufficiente per nascondere completamente quello che stava succedendo negli ultimi 3-4 piani, con tanto di raffigurazione fotografica di quello che fino a poco tempo prima costituiva la cima dell’Akasaka. Soltanto sotto la protezione di un simile scudo, quindi, è iniziata l’opera di smantellamento. Un pezzo alla volta, al ritmo di due piani ogni dieci giorni, il palazzo è stato smontato, portando giù i detriti e caricandoli sui mezzi deputati. Ogni volta che si rendeva necessario, i pistoni idraulici venivano spostati più in basso. All’occhio di chi non fosse stato informato sui fatti, l’intera operazione avrebbe avuto un aspetto totalmente surreale: ecco qui un palazzo, all’apparenza immobile ed intonso, che ogni giorno appariva un po’ più basso, sempre meno preminente nello skyline cittadino. L’opera si sarebbe conclusa, incredibilmente, soltanto nel giro di sei mesi e mezzo, con un frastuono smorzato di 20 decibel rispetto a quello usuale, ed una produzione di polveri inferiore del 90%. Dati che stanno portando a rivolgere verso Oriente lo sguardo degli scettici del settore, che ora pianificano simili soluzioni per l’imminente, inevitabile necessità di liberarsi dei più vecchi e meno utili grattacieli degli Stati Uniti.
Nel frattempo, le dirette competitors della Taisei tutto hanno fatto, tranne che restare passivamente a guardare. Appartiene infatti alla Kajima Corp, un’altra azienda edilizia operativa principalmente a Tokyo, la concezione di un metodo che potrebbe dirsi l’esatto inverso di quello usato per l’Akasaka: una demolizione che parte, letteralmente, dal basso e che prende il nome di daruma-otoshi, da un gioco giapponese per bambini che potrebbe essere paragonato al nostro Jenga, ma impiega le tradizionali bamboline ovoidali del più famoso monaco buddhista, Bodhidarma. Per prendere atto del suo funzionamento, basta osservare il video soprastante, che mostra l’opera di disfacimento di un non meglio definito “palazzo d’uffici” ripubblicata all’epoca (luglio del 2008) da uno dei migliori blog sul Giappone di allora, l’indimenticato Pink Tentacle. Viene offerta anche una spiegazione in inglese presso il sito dell’azienda, che descrive come, per procedere alla rimozione, si applichino per prima cosa dei pistoni, simili a quelli della Taisei, ma poggianti direttamente a terra e usati per mantenere sollevato l’intero edificio, dal primo piano in su. Si interviene quindi con ruspe e bulldozer, per rimuovere ogni elemento strutturale di sostegno, poi si abbassa gradualmente il palazzo, per ricominciare da capo con il livello soprastante. I vantaggi della soluzione sono molteplici, e derivano soprattutto dal superamento dell’esigenza di portare i macchinari fino all’ultimo piano, evitando un notevole dispendio d’energie e tempo. Benché ci siano dubbi sull’effettiva applicabilità del metodo per edifici al di sopra di un certo peso complessivo, e permanga lo spettro aleggiante del pericolo tellurico: cosa accadrebbe, ipoteticamente, se la terra iniziasse a tremare con violenza mentre il palazzo si trova in uno stato tanto precario? La Kajima ha pensato anche a questo: prima di iniziare ciascun progetto, viene edificata una struttura d’acciaio al centro del palazzo, che si estende in verticale per diversi piani. Proprio questa dovrebbe, in caso di necessità, impedire un eccessivo spostamento lungo l’asse orizzontale, con conseguente caduta rovinosa dell’edificio. Funzionerà? Speriamo di non scoprirlo mai.
Distruggere le cose fatte per durare. Decidere, dopo poco più di 30 anni, che il grande palazzo, un tempo orgoglio cittadino, sia già pronto da buttare via. Potrebbe sembrare assurdo, quando non si pensa alla particolare concezione nipponica degli spazi architettonici, che li vede come un qualcosa di mutevole, transitorio come ogni altra cosa a questo mondo. Nel Giappone contemporaneo, ovvero successivo al decadimento della bolla economica, il valore delle proprietà immobiliari è per di più precipitato fino a un punto tale, che raramente le case vengono vendute da una famiglia all’altra. E quando questo succede, normalmente, si distrugge la struttura pre-esistente, per costruirne una totalmente nuova. Che rispecchi totalmente i gusti dei nuovi inquilini. Che sia priva del karma aleggiante e degli spiriti residui, come il santuario di Ise, ricostruito per il prossimo ventennio a seguito della cerimonia sacra dell’Okihiki. Una notevole opera dogmatica, nonché di falegnameria. La fine letterale di un’epoca, a cui nulla sopravvive, tranne la sapienza.