Come altrettanti missili o siluri, sei pesci che irrompono selvaggiamente in mezzo al branco di sardine. Zero esitazioni, tattiche o particolari strategie. Un piccolo squalo da una parte, perplesso, che osserva e impara: “Ah, allora è COSÌ, che si fa!” Siamo alle Maldive. L’ignobile carango (Caranx ignobilis) o come lo chiamano da quelle parti, giant trevally, è un pesce predatore che occasionalmente sceglie di affidarsi soprattutto alla sua forza, resistenza e velocità, per lasciare un segno indelebile nei numerosi ecosistemi in cui costituisce il vertice della piramide, la bocca che divora tutto il resto. Eppure tende, come i famosi pesci piranha sudamericani, a cacciare in branco, dando la genesi di scene come questa: lupi famelici che si lanciano tra un gregge pinnuto, sapendo con certezza che potranno aggiudicarsi almeno due, quattro vittime ciascuno. Il GT, come viene talvolta amichevolmente definito, mangia: i pesci appartenenti alle famiglie Scaridae e Labridae, anguille, seppie, polipi, aragoste, gamberi, stomatopodi, granchi, altri caranghi più piccoli, persino cuccioli di tartaruga o delfino. Nonostante la varietà della sua dieta, non è generalmente un pericolo per l’uomo, soprattutto per la sua stazza che difficilmente supera gli 80 Kg per 170 cm di lunghezza, insufficiente per giustificare la cattura di una “preda” tanto grande. Vengono però raccontati casi di bagnanti che sono stati colpiti accidentalmente da uno di questi pesci di passaggio, riportando lividi o lesioni anche più gravi.
I video reperibili su Internet a proposito di questo lupo pinnuto sono essenzialmente di due tipi: la creatura in caccia, che dimostra le sue doti di assaltatore niente affatto indifferenti, oppure il pescatore orgoglioso, che ne ha trascinato uno faticosamente sull’imbarcazione, dopo ore di ricerca ed una strenua lotta. Non esiste, in effetti, in tutto il suo areale che si estende dal Sudafrica alle Hawaii e dal Giappone all’Australia, un pesce più stimato dai virtuosi della canna e il mulinello, con interi business turistici fondati attorno all’esperienza di prenderlo e poi rilasciarlo quasi subito, in osservanza delle leggi di conservazione dei diversi territori. Il carango gigante, del resto, benché occasionalmente apprezzato sulle tavole di mezzo mondo, andrebbe consumato solo quando preso in ambienti attentamente controllati, poiché spesso tossico per il fenomeno della biomagnificazione, ovvero l’accumulo nel suo organismo di microbi potenzialmente dannosi per l’uomo, nello specifico i dinoflagellati della ciguatera. I sintomi possono includere problemi all’apparato digerente, mal di testa, rigidezza muscolare ed allucinazioni. Forse proprio da ciò ha origine l’apposizione nel nome latino del pesce, quell’aggettivo “ignobile” che ben poco di buono lasciava presagire. Inoltre il carango non viene allevato da nessuna parte, poiché il cibo che consuma giornalmente avrebbe un costo superiore al guadagno offerto dalle sue carni. Così, la malattia continua ad essere diffusa soprattutto nelle Filippine e sulle coste della Cina, dove non è insolito che pescatori locali catturino degli esemplari particolarmente ben pasciuti, scegliendo di venderli come una prelibatezza rara.
Il parallelo col piranha, scientificamente niente affatto imparentato col carango, può tuttavia continuare nell’analisi della sua morfologia. Il qui presente predatore oceanico, infatti, ha una forma analogamente stretta e compressa, con un profilo dorsale più convesso di quello ventrale, soprattutto nella parte anteriore. La bocca è relativamente piccola ma molto efficiente, con una serie di canini affilati nella parte superiore e denti più piccoli in corrispondenza della mandibola, usati per ghermire e sminuzzare. Dinnanzi al proposito di finire dentro a un tale tritacarne, diventa comprensibile la fuga precipitosa delle sardine maldiviane, così famosamente riprese in quel video dell’italiano Luca Ghinelli. Ma anche i caranghi stessi, se ne hanno l’occasione, possono dimostrare ottimi propositi di frenesia…
La lotta per la sopravvivenza: una costante di ogni specie sulla Terra, che non soltanto deve competere con le sue potenziali prede, riuscendo a superarle in prestanza fisica o furbizia, ma anche con i suoi diretti concorrenti, i simili che tendono a nutrirsi nelle stesse circostanze. In questa interessante scena ripresa da Wayne Osborne, durante le sue recenti vacanze alle Seychelles, una squadra (non si può davvero parlare di “branco”) di caranghi giganti si era avvicinata fino a riva, forse per montare un’assalto a qualche massa di piccoli nuotatori pinnuti, analoghi a quello del video di apertura. Per trovare, con indubitabile sorpresa, qualcosa di ancor più desiderabile: dei terricoli rappresentanti del genere Homo, con merenda al seguito, più che mai disposti a lanciarne qualche pezzettino in mezzo al vasto mare, tanto per vedere che potesse succedere nell’immediato. Ora, io non so se questi protagonisti fuori dall’inquadratura, di cui si odono lievemente le voci, avessero la cognizione effettiva di quel che potesse derivare da un simile gesto. Se conoscessero le abitudini nutritive ed i comportamenti del carango; ma è indubbio che dal nostro punto di vista possibilmente inesperto, il risultato sia piuttosto impressionante. Ecco un gruppo di pesci, ciascuno del peso abbondantemente superiore ai 10 Kg, che si estrinsecano in quella che convenzionalmente viene definita feeding frenzy, ovvero la follia momentanea dell’animale che desidera mangiare tutto e subito, tagliando la strada a chicchessia. Le increspature dell’acqua si sovrappongono, mentre pinne idrodinamiche si aggirano con fare minaccioso, non dissimile da quelle degli squali. Anche se nessuno ha mai lanciato una carcassa di mucca in mezzo a un gruppo di caranghi affamati, analogamente a quanto viene spesso esemplificato nella parabola stereotipica del piranha, non è difficile immaginare un risultato comparabile ed in scala decisamente superiore, vista la differenza delle masse coinvolte nell’operazione scarnificatoria.
Considerare il carango gigante come un bruto senza cervello, ad ogni modo, sarebbe un errore. Esso costituisce, anzi, uno dei pesci di stazza media in grado d’impiegare tecniche di caccia più complesse. Quando una squadra attacca un branco di prede in condizioni che non siano già decise dalla prossimità della riva, si possono osservare tattiche di diversione per gettare lo scompiglio tra le schiere, colpendo e stordendo come capita, finché uno o più pesci piccoli, nel caos dei loro simili ormai presi dal panico, non si separano momentaneamente dal grande flusso. A quel punto, il loro destino è segnato.
Ogni gruppo predatorio poi, comandato da un esemplare alpha esattamente come avviene per i lupi, può impiegare approcci personali e talvolta, addirittura creativi. Un’abitudine piuttosto diffusa tra i caranghi, soprattutto alle Hawaii, è quella di “scortare” una foca monaca, aspettando il momento in cui questa si ferma per procacciarsi il cibo. A quel punto i pesci si posizionano di fronte alla bocca del mammifero, per divorare qualsiasi piccola preda che potesse tentare di fuggire da quest’ultimo. Così facendo, il gran divoratore si guadagna il pane quotidiano. Questa relazione non giova in alcun modo alla foca, che tuttavia non può fare nulla per porgli fine, poiché ogni giorno i pesci tornano, indipendentemente dal luogo e le circostanze del suo divenire. Qualcosa di analogo può capitare, occasionalmente, a piccoli esemplari di squalo, che si vedono seguìti costantemente da simili ombre minacciose, sempre pronte a fare un pasto delle circostanze più propizie. Una situazione, questa qui citata, probabilmente conforme a quanto stava avvenendo nel video di apertura alle Maldive. Tra le altre abilità speciali di questi pesci, c’è quella di assalire con successo le aragoste in posizione difensiva, normalmente in grado di scacciare i predatori usando le proprie forti chele. In tali casi, prima ancora che inizi la battaglia, il cacciatore gira intorno al crostaceo corazzato, poi con un singolo morso gli stacca di netto la testa. Quindi mangia, se gli riesce di trovarle, anche le sacche con le uova ben nascoste sul fondale. La natura non è crudele, soltanto brutalmente efficiente. Ed il carango, assieme a lei.
Squalo, barracuda, grouper fish. Belve sotto i riflettori, costantemente paragonate a lupi, orsi e leoni per il ruolo che rivestono tra i flutti verde-azzurri: rispetto a queste prime donne dei documentari sensazionalistici, il GT è posto in subordine, citato assai di rado. La sua voracità non è altamente scenografica, ma piuttosto discrezionale ed utile a uno scopo. Come quella dei piranha che spolpano bistecche lanciate dai turisti sghignazzanti di paura, lungo il corso dello splendido Orinoco.