All’interno di una coltura cellulare, in una scatoletta trasparente, qualcuno ha posto un labirinto. In esso albergano due cose, ben divise tra di loro: un singolo chicco d’avena e una certa quantità di materia giallo canarino, stranamente diseguale e filamentosa. Con in se il segreto della crescita smodata. Nel giro di qualche ora, la “creatura” perlustrerà tutti gli spazi disponibili, alla ricerca del suo cibo preferito. Come una serie di tentacoli, le sue escrescenze vagheranno per i corridoi, raggiungendo la massima estensione, nonostante le poche risorse di cui la natura l’ha dotata. Finché non troverà, finalmente, il nucleo e il cereale del potere. A quel punto, rigenerata nella mente e nella forza operativa, inizierà a spostarsi in massa, attraverso il più breve ed efficiente dei percorsi. Già pregustando l’attimo dell’agognato nutrimento.
Non è una bestia, non è una pianta, non è un fungo. Eppure si muove alla ricerca di cibo, vegeta quando necessario, fa le spore se ne ha voglia. Myxogastria, la chiamano, dal muco appiccicoso. O nello stile maggiormente descrittivo della lingua inglese, la slime mold. Gli amanti del cinema degli anni ’50 potrebbero arrivare, con un po’ di fantasia, a chiamarla The Blob, anche se non è un fluido e tanto meno uccide (cose più grandi lei). Fa parte di quel gruppo di esseri viventi che esulano dalla classificazione, in origine ignorati da Linneo e che soltanto successivamente, nel 1866, il biologo e naturalista Ernst Haeckel pensò d’inserire all’interno di una categoria delle “varie ed eventuali”, quella cosiddetta dei protisti. Un regno oggi considerato obsoleto e non scientificamente utile alla descrizione del sistema di correlazioni rilevanti, ma che tuttavia sembra derivare da una parte dei discendenti di una singola specie, e che per questo viene utilizzato ancora adesso per identificare una vasta e variegata serie di micro o macro organismi in grado di trarre sostentamento, a seconda dei casi, dalla luce o da sostanze chimiche trovate nell’ambiente. Tra cui le amebe unicellulari, dette Proteus animalcule. Ora, come si può facilmente desumere dall’antonomasia largamente utilizzata, in condizioni normali uno di questi esseri non risulta particolarmente sveglio né operativo: senza l’impiego di un sistema nervoso, organi di senso e cervello, tutto quello che può fare è fluttuare in un liquido attraverso l’uso dei suoi piccoli pseudopodi, alla ricerca di una vittima predestinata, da inglobare per crescere, allo scopo di raggiungere l’ora della splendida mitosi. Ah, gloria della pratica semplicità! la cellula che si divide, due nuclei all’improvviso dove ne permaneva uno soltanto, ciascuno poi che va per la sua strada. Mai e poi mai s’incontreranno, di nuovo? Forse. Possibile. Non sempre vero. Esiste infatti il caso di talune forme di vita, i dictyostelidi che vivono nel sottobosco marcescente, in grado di ricorrere a un particolare strategia di sopravvivenza. Quando la materia di sostentamento scarseggia, poco prima che un’intera colonia debba soccombere all’inclemenza delle condizioni naturali, i diversi elementi iniziano nella difficile ricerca dei loro simili. Una volta effettuato il contatto, quindi, le amebe si uniscono formando una lumaca, detta pseudoplasmodio, in grado di spostarsi a gran velocità. Trovato quindi un nuovo luogo utile alla proliferazione, detto essere si ferma e si trasforma in un corpo fruttifero, da cui le amebe fuoriescono di nuovo, in forma di spore. Ed è una tecnica mostruosamente efficace. Al punto che vi sono dei protisti, quelli forse più famosi e amati negli esperimenti, che di questo approccio ne hanno fatto un’arte, e piuttosto che ricorrervi soltanto in caso d’emergenza, l’hanno integrato nel loro processo di riproduzione. Tra questi, spicca per imponenza e proliferazione il Physarum polycephalum, letteralmente: muffa dalle molte teste. Una creatura giallognola e facilmente visibile ad occhio nudo, per lo meno attraverso la parte maggiormente significativa del suo ciclo vitale, che può arrivare a raggiungere diversi metri d’estensione, crescendo alla velocità davvero impressionante di un centimetro l’ora. Molto più di qualsiasi pianta o animale. Queste amebe, infatti, non sono scese a compromessi col concetto d’individuo, e tutto ciò che le compone e definisce è finalizzato alla creazione di un vero e proprio sciame cellulare, definito plasmodio (non più pseudo, quindi) in cui crollano le pareti cellulari, e tutti i nuclei fluttuano in un solo citoplasma. Sempre così terribilmente affamato di CONOSCENZA.
Il P.polycephalum, che qualche amante delle metafore fin troppo eloquenti ha un giorno ribattezzato volgarmente “muffa color vomito di cane” prospera nella maggior parte dei casi in luoghi ben distanti dalla civiltà, sopra uno strato di foglie o altra materia vegetale marcescente. Il cibo di cui si nutre in condizioni normali, tuttavia, non è costituito direttamente da questa tipologia di sostanze in via di disgregazione, bensì dai funghi unicellulari e i batteri che a loro volta se ne nutrono, inglobati e digeriti mano a mano sul percorso della crescita incontrollata. Un organismo appartenente a questa specie, in condizioni ideali, può facilmente raggiungere il metro o due, mentre in laboratorio è stato possibile fargli raggiungere addirittura i 5 metri d’estensione, nutrendolo con un chilo d’avena alla settimana per un periodo di diversi mesi. Tutto questo in una sola cellula, del tutto smisurata rispetto al concetto tradizionale di tali elementi, 10.000, 20.000 volte più grande di uno dei mattoncini che compongono gli altri esseri viventi. La maggior parte delle scene dei film di fantascienza in cui una creatura fugge per infestare mortalmente il territorio circostante, tra cui quello citato poco sopra, traggono ispirazione dall’osservazione di una piastra di Petri con dei Myxogastria dentro, che nel momento stesso in cui vengono posti in un luogo buio e silenzioso, iniziano a cercare vie di fuga. È una scena straordinariamente inquietante: il plasmodio, che si sposta attraverso il metodo del flusso citoplasmico, ovvero inviando in massa la materia cellulare verso quello che lui percepisce come il “davanti” è solito spostarsi in modo casuale, lasciando sul terreno una traccia impercettibile, come l’ombra del suo muco. Questo strato, invisibile a occhio nudo, gli permette tuttavia di sapere dove è già passato, e di evitare di perdere tempo nella sua ricerca. In questo modo la muffa, che dovrebbe essere incapace di risolvere i problemi (perché priva di pensiero) ha sviluppato invece una forma di memoria situazionale, più che sufficiente ad esempio per uscire dal classico labirinto d’apertura. Ma una simile scena non è nulla, rispetto alle dure prove che questo infaticabile protista si è dimostrato in grado di superare negli anni:
In un celebre esperimento del 2000 dei Prof. Nakagaki, Hiroyasu Yamada e Ágota Tóth dell’Università di Hokkaido, ad esempio, una maggiore quantità di plasmodio è stata posta in un labirinto più complesso e vasto, all’interno del quale si è riusciti a dimostrare la scalabilità del metodo impiegato dalle amebe per giungere a risoluzione. Trovato quindi ciascun chicco d’avena a portata, il polycephalum si è ritirato dai binari morti, stabilendo nei fatti la più breve connessione possibile tra i diversi punti d’interesse. L’osservazione a posteriori della scena può facilmente lasciare basiti: ecco una creatura teoricamente priva d’intelligenza, che ha creato una precisa linea gialla da un capo all’altro del dedalo. La sua saggezza è chiara ed immanente come, per lo meno in questo caso, il metodo impiegato per raggiungere il successo. Vi sono tuttavia casi in cui il suo comportamento ha superato le più sfrenate ipotesi pre-esistenti. In un successivo esperimento del team di Nakagaki, ad esempio, la creatura è stata sottoposta, ad intervalli regolari di circa mezz’ora, al flusso d’aria diretto di un ventilatore, un effetto sgradito e in grado di condizionare i suoi presupposti di crescita. Proprio per questo, ad ogni accensione la muffa si fermava, iniziando un processo di sclerotizzazione protettiva. Per poi partire nuovamente verso il cibo. Dopo la terza o quarta volta, tuttavia, il ventilatore non è stato acceso; nonostante questo, all’ora considerata pericolosa, l’ameba si è fermata lo stesso. In quali neuroni inesistenti avrebbe mai potuto immagazzinare tale cognizione? Di più, può fare ancora più di questo. Il gruppo di scienziati giapponesi, ancora non contenti di quanto osservato, ha quindi posto il Myxogastria giallino al centro di un piatto, assieme ad alcuni chicchi d’avena particolarmente invitanti. Ciascuno di essi, distanziato secondo uno schema ben preciso: l’area operativa doveva rappresentare, infatti, la vasta metropoli di Tokyo con i principali centri abitati circostanti. Mentre alcuni ostacoli creati con la luce (anch’essa invisa alla nostra eroina) riprendevano la posizione topografica di fiumi, massicci montuosi o altri ostacoli difficilmente valicabili da un treno umano. Ebbene, nel giro di alcune ore, la muffa aveva ricreato in scala quanto prodotto dal sistema delle ferrovie giapponesi, dopo anni di pianificazioni e rettifiche costose. In certi casi, addirittura migliorando il progetto degli umani! Di fronte a un tale risultato, è impossibile non chiedersi che cosa sia davvero l’intelligenza, dove tragga la sua origine remota…
È ovunque, può fare cose che risultano impossibili da giustificare. Da oltre 500 milioni di anni, la congrega delle amebe domina il pianeta assieme ai batteri, gli acari, persino le formiche. Nonostante quello che vorremmo pensare noi giganti pluricellulari, spronati dai successi della nostra labile filosofia, dell’inutile “arte” o della transiente “tecnologia”. Perché c’è una bellezza oggettiva, uno splendore cristallino, addirittura nell’essere che sembra vomito di cane. L’estasi che si palesa poco prima della morte, a cui segue una rinascita futura. Quando il protista ha esaurito tutto il suo cibo, e sa che non potrà trovar più nulla in tempo utile, allora smette di vagare. Concentra tutte le energie che gli rimangono nella formazione di una grande quantità di frutti sferoidali o bulbosi, definiti sporangia, formati da quegli stessi singoli individui che si erano sacrificati, donando il proprio nucleo cellulare al grande plasmodio semovente. Milioni, migliaia di miliardi di spore traslucide che volano nell’aere, pronte a colonizzare ogni angolo della città… Mentre noi starnutiamo, ancora e ancora, perché allergici alla VITA in quanto tale. Alla fine, quasi sempre, vince la semplicità. Se mai la civiltà principale di questo pianeta dovesse subire una brusca interruzione, per catastrofi o altri eventi inattesi, ricominceremo tutti sullo stesso piano. La propagazione riprenderebbe dall’anno zero. E allora le cose giungerebbero, forse, a una conclusione differente.