L’oceano in miniatura dell’Università di Edinburgo

Flowave

Pur facendo parte dell’ecosistema di un pianeta ricoperto al 71% d’acqua, gli umani conoscono questo elemento estremamente poco. Persino con l’assistenza di sofisticate simulazioni informatiche o sensori, tutt’ora vengono scoperti degli effetti di marea o correnti transcontinentali che semplicemente esulano da un qualsiasi tipo di approfondimento in grado di raggiungere il nucleo del problema. Perché nell’Atlantico del Sud c’è un flusso d’acqua dalle caratteristiche facilmente riconoscibili, che parte dall’Argentina e raggiunge il Sud Africa, per poi virare verso il Settentrione assumendo il nome di Benguela? E perché la corrente equatoriale del Pacifico, una volta aggirate le isole dell’Indonesia e delle Filippine, pare compiere una giravolta, sfiorando la punta meridionale del subcontinente indiano? Un mistero indefinito. Che sussiste perché, anche se sappiamo molto bene quali siano le cause situazionali di ciascuna singolarità, tra cui l’effetto Coriolis della rotazione planetaria, il cabbeling (separazione di un fluido sulla base del gradiente di densità) le disuguaglianze in materia di temperatura e/o salinità, l’attrazione del Sole e della Luna, non ci è davvero possibile tradurre in formule matematiche in che misura ciascuno di questi fattori colora e definisce le aree che circondano le nostre terre emerse. Tutto ciò che possiamo fare in-situ è osservare, prendendo qualche nota rilevante da mettere a confronto. Nel frattempo è pur vero che esiste un diverso approccio per conoscere una parte delle verità, recentemente reso accessibile dai moderni progressi della tecnica, che consiste nell’entità artificiale di un bacino idrico, di ampiezza e capienza variabili, concepito per dare sfogo a quell’istinto di chi si è formato come tutti con il gioco, ed oggi fa il ricercatore in prestigiose istituzioni: la simulazione. “Fare finta” di per se, nonostante lo stigma che permane in tale via d’accesso alla sapienza, può servire a molte cose. E se dovesse sembrarvi ridicolo il concetto di una piscina meccanizzata di forma circolare, fornita di 168 pale motorizzate ad assorbimento energetico tutto attorno, provate prima a considerarne le più valide implicazioni sperimentali. Oltre ai vantaggi ingegneristici abilitati dalla sua semplice esistenza.
Lo stabilimento denominato FloWave è una recente aggiunta completamente auto-finanziata e posseduta al 100% dall’università più nota della Scozia, costruita sotto la supervisione del suo Istituto rilevante, all’avanguardia nel settore dello studio di mezzi alternativi per produrre e immagazzinare l’energia. È stato inaugurato il 5 agosto del 2014. Oggi, oltre che nella creazione di video dal notevole interesse visuale come quello di apertura, il sistema viene posto, caso per caso, al servizio di progetti potenzialmente utili nell’immediato e diversi tipi di esperimenti, anche di natura particolarmente inusuale. Si tratta dopo tutto di uno dei piccoli oceani artificiali più avanzati al mondo, creato sfruttando alcuni espedienti estremamente interessanti. Le molteplici “dita” poste ai confini del suo spazio circolare dal diametro di esattamente 30 metri, contenente 2,4 milioni di litri di acqua, possono generare ogni sorta di onda secante o monocromatica, facendole scontrare sulla base del bisogno dato da un particolare esperimento. Inoltre, quando ritenuto necessario, hanno la capacità di adeguare le loro oscillazioni al moto sincronico della piscina, fermando di fatto, nel giro di pochi secondi, quasi qualsiasi onda precedentemente generata. Ed è forse proprio questo l’aspetto più affascinante ed unico del dispositivo, che se anche non viene messo in mostra nel video qui riportato o nell’altro simile risalente al 2014, è un tratto che permette una notevole semplificazione del processo di utilizzo, aumentando esponenzialmente le opportunità di test per ciascuna singola sessione. La piscina è inoltre dotata di alcune eliche con flusso parallelo al suolo, impiegabili per la generazione di una corrente costante non dissimile a quelle già citate, mentre l’acqua, una volta raggiunto il bordo dello spazio a disposizione, viene risucchiata da appositi bocchettoni, poi spinta grazie alla pressione in uno spazio sottostante e separato, dal quale potrà fuoriuscire all’altro capo del Flowave. Tale semplice espediente si rivela utile, nei fatti, ad eliminare la necessità delle ulteriori piscine normalmente usate in simili installazioni, come quella lunga e stretta del towing tank (usato per trainare i modellini) e il tunnel di cavitazione, una versione idrodinamica e sommersa di quello usato per testare le automobili, dedicato ai propulsori della navi. Proprio così: il concetto che qui vediamo messo in atto con una simile semplicità progettuale esiste, nei fatti, almeno dai tempi della seconda guerra mondiale, benché la precisione e la varietà delle turbolenze utilizzabili fosse naturalmente assai inferiore. E il suo impiego originario trovasse sfogo, neanche a dirlo, nel campo della tecnologia applicata agli armamenti.

Il primo ingegnere a tentare di intrappolare in carta e calcoli il moto selvaggio degli oceani in movimento fu l’inglese William Froude, negli anni ’60 del secolo XIX. L’ammiragliato della regina Vittoria, a quei tempi, era costantemente alla ricerca di un metodo per acquisire superiorità rispetto ai molti rivali coloniali della nazione, e il concetto che si potesse, in qualche maniera, adeguare la forma di uno scafo marittimo alle effettive condizioni di un particolare teatro di battaglia colpì subito la mente di coloro che seguivano le ultime innovazioni. Così ben presto, a seguito di una sua pubblicazione relativa all’omonimo numero di Froude, impiegato per trasferire i risultati di un esperimento in scala alle esigenze di un natante a dimensione effettiva, il buon dottore ricevette un ingente finanziamento, più che adeguato per provvedere alla costruzione del primo bacino di manovra artificiale al mondo, presso la sua casa di Torquay. Qui, attraverso l’impiego di una serie di modellini in scala crescente, riuscì a dimostrare la scalabilità progressiva di quanto precedentemente teorizzato, creando un approccio alla progettazione dei natanti che viene impiegata ancora adesso. In installazioni di ben altra sofisticazione:

MASK
Il MASK della marina statunitense offre una soluzione completa di prototipazione marittima, inclusa una fabbrica di modellini realistici tramite l’impiego di stampanti tridimensionali.

Il bacino idrodinamico più vasto al mondo appartiene probabilmente agli americani, e si trova presso il Centro della Guerra Navale di Superficie a Carderock, nel Maryland. Qui, all’interno di una piscina di 73×109 metri, ricolma di circa 45 milioni di litri d’acqua, la marina militare mette alla prova i suoi ultimi progetti ingegneristici, in un’ampia serie di condizioni simulate, grazie all’impiego di sistemi di generazione d’onda di vario tipo. Pur risalendo all’ormai remoto 1962, l’installazione ha in seguito ricevuto diversi potenziamenti tecnici, tra cui l’aggiunta di un sistema di 216 pale a controllo remoto non dissimili da quelle del più recente FloWave scozzese, benché la forma rettangolare del bacino qui ne limiti in qualche maniera l’utilizzo. Ma nel video qui riportato si può facilmente notare l’orgoglio patriottico dei suoi operatori, che ben sanno come il disporre di un simile ausilio alla progettazione possa configurarsi come un vantaggio strategico sugli avversari niente affatto indifferente. Il punto è che per testare un prototipo in condizioni reali al 100%, normalmente, ci si dovrebbe recare nel luogo del suo successivo utilizzo, con un investimento di risorse e tempo niente affatto indifferente. Mentre uno spazio di questo tipo, in cui l’acqua diventa come una tela trasparente a disposizione dei suoi controllori ed osservatori, permette di disporre istantaneamente di condizioni comparabili a quelle dei freddi oceani del nord, piuttosto che delle correnti equatoriali. Le configurazioni variabili delle diverse pale generatrici possono inoltre ricreare l’effetto suolo di ogni tratto di costa rilevante, ed è addirittura prevista la possibilità di testare navi rompighiaccio in scala, attraverso l’impiego di un processo di miniaturizzazione dei cristalli in fase di raffreddamento.
Simili esperimenti hanno già portato all’altro lato dell’Atlantico, nel corso dell’ultimo anno, ad un miglioramento sensibile delle caratteristiche di resistenza e stabilità di alcuni sistemi per la generazione di energia a partire dal moto delle onde o le maree, persino nelle condizioni estreme mostrate a scopo dimostrativo in questi video di YouTube. Ma lo spettatore a questo punto potrebbe chiedersi: e se mi tuffassi in mezzo a tutto ciò? Che cosa starei a quel punto, nei fatti, simulando?

Tank wave man
Praticamente, una sorta di lap dance

Più che Godzilla, Poseidone. Questo è Peter Gleeson, aspirante polimata leonardesco dello YouTube contemporaneo, performer sperimentale, cantante armonico, suonatore di molti strumenti musicali e autore di singolari exploit creativi, quali questa bizzarra iniziativa risalente ad aprile del 2013. In cui lui stesso, calatosi all’interno di un serbatoio circolare per l’immagazzinamento dell’acqua piovana, con tanto di pneumatico al seguito, ha iniziato a saltare su e giù aggrappato ad un palo di sostegno centrale, usando il galleggiamento di quest’ultimo come forza motrice di sostegno a quella muscolare. Finendo per alzare i sedimenti sul fondo del serbatoio, dandogli un aspetto non propriamente invitante (benché fosse meno inquinato di ciò che potrebbe sembrare). Un’attività apparentemente senza senso, che tuttavia ha costituito la dimostrazione di un principio simile a quello del sistema FloWave, in cui le onde rimbalzano contro le sponde e tendono a tornare in centro dove, in assenza di un sistema di smorzamento dinamico, tendono ad assumere l’aspetto di una sorta di geyser, in questo caso con tanto di aspirante surfista sull’apice del caos da frullatore. L’associazione è affascinante, anche se vagamente sovversiva: potrebbe mai un tale eclettico individuo, intento nelle sue peregrinazioni del pensiero, scoprire una nuova legge deterministica tra quelle che coinvolgono il moto ignoto degli oceani? E se dovesse verificarsi quel magnifico caso, riuscirà poi a metterla in parole? Quegli strumenti semantici fin troppo spesso inadeguati, soprattutto nel descrivere le forze che controllano la natura… Equazioni migliori: ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Per progettare navi, senza comprenderne la mistica ragione. Spostarsi senza muoversi, non arrivare mai. È questo il viaggio che conduce al sobbalzante bulbo acquoso del Progresso.

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