La prima cosa che noti è il rumore. Non proprio un rombo che sale, quanto piuttosto il sibilo di un compressore, che spinto nel vortice gassoso dell’ossigeno e dell’aria, accelera, ancora e ancora, fino a 20/30.000 giri al minuto. Come un aspirapolvere gigante, o per meglio dire, un aeroplano a reazione, praticamente fermo sul posto. Il secondo punto degno di nota: l’estetica. Quest’auto del 1968, di cui furono prodotti soli tre esemplari, ha il fascino curvilineo della seconda Batmobile, con una presa d’aria e fari tondi sul retro con protezione ad Y, così conformi al gusto vagamente retrò di certe super-macchine dei nostri giorni. La presa d’aria sul tetto, invece, ricorda nello specifico certi modelli contemporanei della TVR. La Howmet, dopo tutto, fu disegnata e messa assieme praticamente da un solo uomo, l’ormai leggendario Bob McKee della McKee Engineering, l’uomo che afferma nel presente video: “Costruire qualcosa a 30 anni e vederla girare su pista ad 80, queste sono le soddisfazioni della vita!” Osservando il quale, gradualmente, si comprendono le prestazioni ed i vantaggi di questa particolare soluzione tecnica, che pur essendo molto in voga nel secondo dopo guerra, ed ancor maggiormente a seguito di alcuni prototipi costruiti dalle grandi aziende motoristiche negli anni ’50 e ’60, finì per essere subordinata al classico motore coi pistoni, più semplice da integrare negli chassis, soprattutto se ad alte prestazioni, maggiormente familiare al mondo della meccanica, e diciamo la verità: nella maggior parte delle situazioni, decisamente meno assetato di benzina. Eppure, se soltanto le cose fossero andate in modo leggermente diverso….
La Howmet TX (Turbine eXperimental) nacque da un’idea del pilota Ray Heppenstall, che trovò terreno fertile presso il suo sponsor principale, l’azienda metallurgica Howmet Castings, in quegli anni alla ricerca di un metodo per colpire la fantasia del grande pubblico. Non si trattava, ad ogni modo, di un progetto totalmente nuovo. Già nel 1954 la nostra Fiat, presso la pista del Lingotto a Torino, aveva sperimentato soluzioni comparabili con una concept car denominata Fiat Turbina, in grado di raggiungere i 250 Km/h. Nel frattempo la Chrysler, all’altro lato dell’Atlantico, preparava un progetto ambizioso per giungere a produrre una berlina di serie con questa tecnologia, che avrebbe avuto dei vantaggi significativi sulla concorrenza: una necessità d’interventi tecnici decisamente minori, una vita del motore più lunga, l’80% di componenti in meno per ciascun veicolo, l’immediata partenza in qualsiasi condizione climatica senza alcun tempo di riscaldamento e un peso notevolmente inferiore. Ne furono prodotte in totale 55 unità, di cui 5 prototipi e 50 “auto di prova” fatte avere ai loro clienti di fiducia, per una prova a lungo termine su strada, durante la quale molti rimasero colpiti dall’estrema efficienza del mezzo, benché fosse frequente l’errore di premere l’acceleratore troppo presto dopo l’accensione, inondando il motore di carburante e ottenendo quindi un effetto contrario al desiderato. Nel giro di qualche anno, tuttavia, il governo degli Stati Uniti cambiò i regolamenti in materia di emissioni d’azoto nel 1963, rendendo di fatto l’intero progetto obsoleto. La Chrysler richiamò i veicoli e li smonto pezzo per pezzo, quasi dal primo all’ultimo: attualmente, soltanto 6 di queste automobili sopravvivono, all’interno di musei e collezioni private. Un tale evento, se possibile, rese ancor più chiaro quello che in molti avevano iniziato a pensare: se le turbine automobilistiche avevano un futuro, sarebbe stato nel campo delle gare su pista, dove il costo per singolo esemplare conta poco, e soprattutto ai quei tempi, era possibile sfidare l’immaginazione con trovate inusuali ed impreviste, senza la necessità di adeguarsi a norme eccessivamente stringenti. Nel corso della prima metà degli anni ’60, quindi, i team Rover e BRM unirono le forze per costruire alcune auto a turbina, che parteciparono alla prestigiosa 24 di Le Mans, senza tuttavia riuscire ad ottenere dei risultati particolarmente degni di nota. Il primo grande (quasi) successo ebbe quindi a verificarsi nel 1967, con una particolare vicenda che sarebbe rimasta scritta a lettere di fuoco nella storia dell’automobilismo americano.
La STP-Paxton Turbocar fu una monoposto asimmetrica impiegata dal team di corse formula Indy dell’omonima compagnia petrolifera e progettata dalla sua divisione Paxton di Santa Monica, sotto la supervisione diretta di Andy Granatelli, al tempo stesso CEO e direttore tecnico dell’intera venture commerciale. Il motore del veicolo, posto alla sinistra del guidatore, era un Pratt & Whitney Canada PT6, tra i più diffusi propulsori per aeroplano degli Stati Uniti, la cui erogazione di potenza(550 cavalli) assieme al peso complessivo di appena 793 Kg, poco sopra il minimo previsto dal regolamento, avrebbero dovuto permettere all’auto di trionfare incontrastata. In origine, l’automobile avrebbe dovuto gareggiare per la prima volta nell’Indianapolis 500 del 1966, ma l’eccessivo calore aveva danneggiato gravemente la carrozzeria di alluminio durante alcuni test, costringendo il team correre soltanto l’anno successivo. Granatelli, rendendosi conto di dover tentare il tutto per tutto, contattò quindi uno dei migliori piloti dell’epoca, Parnelli Jones, che accettò di partecipare al progetto a patto che ricevesse il 50% del premio della gara, oltre a 100.000 dollari sicuri all’accettazione della proposta. E così fu. La scattante monoposto con il fulmine al volante, dopo essersi guadagnata un deludente sesto posto ai tempi di qualifica, riuscì invece a distanziare i suoi avversari in gara, ottenendo un vantaggio estremamente significativo. Finché, verso la fine della gara, con soli 12 Km rimanenti (tre giri dell’ovale) non cedette un cuscinetto a sfera della trasmissione, facendo fallire i propositi di vittoria sull’asfalto duro ed inclemente delle aspettative. Due anni dopo, tentando nuovamente la fortuna ad Indianapolis, la Turbocar finì invece per schiantarsi contro un muro durante le qualifiche, a causa di un errore del pilota Joe Leonard. Non avrebbe gareggiato mai più.
E tutto sarebbe finito lì, se non fosse che nel frattempo, tra il primo ed il secondo exploit, era stata concepita quella Howmet di cui sopra, un veicolo che si sarebbe rivelato in grado di far muovere le acque in modo davvero, estremamente significativo. Tanto per cominciare, vincendo ben due volte, nel corso del campionato prototipi riconosciuto dalla FIA del 1968, ad Huntsville, Alabama e Marlboro, nel Maryland. Circuiti che potrebbero sembrare ben poco prestigiosi, finché non si considera che tra i rivali in pista erano presenti anche auto come la Porsche 907 e la Ford GT40, vere e proprie gigantesse nella storia dei motori. Mentre il team Hoxton, relativamente nuovo in questo mondo, aveva risorse così ridotte da aver dovuto ricorrere, ad esempio, ad un contratto in leasing sui motori da elicottero impiegati nelle sue due auto, delle turbine TS325-1 della Continental Aviation & Engineering, dalla cilindrata nominale 2,960 (benché non sia ovviamente misurabile secondo i crismi della FIA di allora) e quindi appena al di sotto del limite di 3.000 per rientrare nel gruppo 6. Alcuni affermano, malignamente, che il regolamento fosse stato manovrato dai progettisti a loro vantaggio, e che l’auto non era conforme agli standard di gara. Ma ancor prima di queste polemiche, e i diversi ritiri per guasti meccanici, la Howmet aveva fatto notizia, per la sua estetica particolare e il particolare metodo impiegato dal team per farla partire, all’inizio del giro di riscaldamento: l’automobile impiegava infatti un sistema per restare sempre su di giri, definito in gergo valvola di wastegate, che riduceva di fatto il consumo di carburante e rendeva più immediata la risposta all’acceleratore, senza dover attendere che il motore raggiungesse l’altissimo numero di giri del suo regime. Il veicolo veniva dunque sollevato da terra nella parte posteriore, e il guidatore accelerava fino all’apertura automatica dell’apposito sportellino, che con un vistoso sbuffo di fumo lasciava sfogare l’energia termica in eccesso, senza tuttavia far cessare la continua rotazione della turbina. Il problema principale di questi motori infatti, come aveva scoperto anche la Chrysler, era il grande dispendio di carburante necessario per il semplice stop & go, una manovra più che mai frequente nell’impiego su strada, in mezzo al traffico delle città. Un problema che, comunque, condizionava ben poco l’impiego con finalità sportive dello stesso meccanismo. La Howmet inoltre, a causa della particolare continuità di erogazione della turbina, non aveva una scatola del cambio, ed era nei fatti un veicolo monomarcia. Soltanto l’aggiunta di un motorino elettrico, caricato dal propulsore principale, poteva permettergli di spostarsi in senso inverso, come considerato necessario dal regolamento di gara.
Le TX del team Howmet, successivamente alle due vittorie del ’68, non avrebbero più conosciuto gli allori di un primo posto. Iscritte alla 6 Ore di Watkins Glen, partirono ottava e nona, e successivamente, a causa di alcuni incidenti delle Porsche in corso di gara, riuscirono a guadagnarsi dei rispettabili quarto e terzo posto. Pochi mesi dopo, parteciparono quindi alla 24 Ore di Le Mans, dove tuttavia dimostrarono il limite fondamentale del proprio motore: pur sviluppando una coppia estremamente significativa, infatti, la turbina TS325-1 non raggiungeva velocità in rettilineo che fossero in pari coi più potenti modelli convenzionali. E considerati i lunghi rettilinei del Circuit de la Sarthe, dove era tenuta la gara, ciò le relegò a partire nelle ultime file, con dei tempi di qualifica superiori alla ventesima posizione. Durante la gara, poi, una delle auto subì un incidente, mentre l’altra ebbe un guasto all’impianto di erogazione del carburante e dovette anch’essa ritirarsi. Un fallimento, quindi, su tutta la linea, proprio durante la prima uscita internazionale del mezzo. Al termine della stagione, i dirigenti della Howmet Castings decisero che il progetto non si stava rivelando sufficientemente proficuo in termini di immagine, e le auto vennero quindi accantonate. E la storia sarebbe finita lì, se non fosse stato per un’idea del progettista originario che si rese conto di come, per un caso fortuito, il peso dell’auto fosse quasi pari alla singola tonnellata, il valore distintivo tra due diverse categorie di record di velocità su strada per i motori a turbina. Così, tramite l’aggiunta e la rimozione di una zavorra, una versione modificata della seconda Howmet, con l’aggiunta di un tetto apribile, se ne accaparrò ben sei (a seconda della lunghezza del tratto di misurazione) prima di essere vendute ingloriosamente, al prezzo simbolico di un dollaro, proprio a quell’Heppenstall che le aveva create, in origine assieme all’ingegnere McKee del video di apertura. Le auto, a quel punto, erano prive di motore, a causa del completamento del periodo di leasing con la Continental Aviation & Engineering, e passarono più volte da una collezione all’altra. Il primo dei due chassis, acquistato da Jim Brucker, rimase per anni nel suo garage, guarnito con una riproduzione non funzionante della turbina originaria, finché un nuovo proprietario, Bruce Linsmeyer, non ebbe l’idea di restaurarla totalmente nel 2007, usandola per vincere il Concours d’Elegance di Amelia Island, in Florida. La seconda (quella usata per i record di velocità) è stata ripristinata allo stato originario del ’67, meno il motore Continental sostituito da un Allison 250C18, dallo stesso McKee e per il nuovo proprietario Chuck Haines, chee sta recentemente partecipando a numerosi eventi internazionali, tra cui il prestigioso Goodwood Festival of Speed di Lord March. E questa è probabilmente l’auto che vediamo all’opera nel video, benché ne sia in effetti stata prodotta una terza nel 2000, sempre di proprietà di Haines, con alcune significative differenze progettuali.
La turbina stradale era una tecnologia che sembrò, per un breve e fugace momento, segnare il passo del futuro. Ma il problema fondamentale, per tutti gli approcci innovativi all’automobilismo, è che un cambiamento radicale richiede l’adozione in massa, affinché si diffondano i servizi e la particolare “benzina” necessaria a far funzionare il proprio veicolo. E ben poche pompe sul territorio, allora come adesso, possono vantare la disponibilità del carburante per aeroplani, nonostante i vantaggi funzionali del motore che sarebbe in grado di sfruttarlo. Stanno invece avendo un certo successo, almeno a livello teorico, le cosiddette mini-turbine, dispositivi che potrebbero trovare l’impiego a supporto delle auto elettriche, assumendosi l’incarico di ricaricarne a comando le batterie. Qualsiasi mente creativa, del resto, trova il suo sfogo nel calore in eccesso della fervida invenzione. Ciò che serve è solamente un meccanismo di ricircolo, affinché quel vasto potenziale non finisca per disperdersi, nell’aria del mattino.