Un roboante cigolìo, il tetto che pare oscillare per qualche momento delicato. Le bandiere col sigillo del clan, la svastica di Buddha (non certo quell’altra, invertita nel significato e nella forma) che oscillano nel vento, mentre gli uccelli si alzano in volo dalle tegole del maestoso edificio, del peso approssimativo di 400 tonnellate. La gente presente allo svolgersi di questa scena, più unica che rara, si lancia in un grido spontaneo d’entusiasmo, mentre l’edificio compie il primo passo del suo viaggio, destinato a dislocarlo dall’antica sede per un periodo stimato di 20 anni. Ma i castelli viaggiatori, ce lo insegna Miyazaki, hanno questa strana abitudine di dimenticare loro stessi, e perdersi in mezzo alle pieghe del possibile o diverso. Come petali che fluttuano nel vento.
Cosa potrebbe mai aver ispirato i fieri samurai dell’epoca delle guerre civili del Giappone, costruttori di simili meraviglie architettoniche, se non il fiore rosa di ciliegio… Che ogni anno, tra aprile e maggio, cessa di crescere, lasciando l’albero per colorare il suolo. Ma il suo sacrificio torna utile alla collettività. Perché il tronco, nuovamente rafforzato, si prepara ad affrontare le secchezze dell’estate, il gelo dell’inverno e poi tornare, al sorgere del nuovo sole stagionale, a stupirci con la sua bellezza trascendente. O almeno così devono pensarla le decine di migliaia di visitatori, che ogni anno si recano in tale occasione presso il famoso parco di Hirosaki nell’omonima e fiorente cittadina, non distante dalla metropoli di Aomori sita nel nord dello Honshu, l’isola più grande del Giappone. Luogo che ospita diverse meraviglie: l’albero di ciliegio piangente (Prunus spachiana) più antico del paese, dell’età di 120 anni, reso celebre da alcune stampe dell’artista Shiko Munakata (1903-1975) assieme a 2600 dei suoi ben più tipici fratelli coi rami rivolti verso l’alto, ciascuno di essi un significativo contributore di quello che è una delle hanami (feste dell’osservazione dei fiori) più note del paese, in grado di attrarre turisti e curiosi da ogni parte del mondo. Ma soprattutto i tre svettanti piani del castello omonimo al centro abitato, antico seggio del clan feudale degli Tsugaru, discendenti da un ramo periferico dell’antica famiglia degli shogun Minamoto (dinastia – 1192,1333) prerogativa che tendevano a vantare quasi tutti i grandi samurai, ai tempi del Sengoku (paese in guerra – 1478, 1605). E del resto questo non era certamente insolito, in un paese in cui lo stesso Imperatore attuale può tutt’ora provare di discendere direttamente dal mitico fondatore Jimmu Tenno (regno – 660,585 a.C.) e ancor prima di lui, dalla dea del Sole Amaterasu, presente alla creazione stessa dell’unica Terra emersa sacra per gli shintoisti.
E benché Oura Tamenobu, il primo daymio (signore feudale) appartenente a quest’ennesima genìa di seguaci ed attendenti, in teoria, spietati dominatori, nei fatti, fosse nato “soltanto” nel 1550 la sua opera fu più che sufficiente a dare origine ad un altro resistente filo, che riuscì ad estendersi fino all’abolizione del sistema feudale a seguito della Restaurazione Meiji del 1869. Questo perché costui, oltre che un abile condottiero, seppe dimostrarsi un valido interprete del ruolo del ciliegio, che resiste ai terremoti, alle inondazioni, alle tempeste. Per tornare sempre nuovamente a rifiorire, più limpido e resistente di com’era prima. La prima volta nel 1590 quando, ancora al servizio del signore di Nanbu e tramite lui del taiko Hideyoshi Toyotomi, seppe distinguersi durante l’assedio del castello di Odawara, sconfiggendo assieme ai suoi fedeli soldati le ultime salde rimanenze dell’antico clan degli Hojo. Annientato senza remore, dopo secoli di storia, in quel tempo e luogo ben precisi, come del resto lo sarebbe stato, a sua volta nel 1600, la stessa coalizione al servizio nominale dell’unico erede dello stesso Hideyoshi, Hideyori Toyotomi, a seguito dell’epocale battaglia di Sekigahara. Occasione, questa, che avrebbe dato inizio alla lunga epoca di pace sotto l’egida dei Tokugawa, nel corso della quale, nuovamente il primo signore di Hirosaki seppe gravitare dalla parte dei vincenti, abbandonando il suo vecchio signore in cambio di una rendita di 100,000 koku. Uno stipendio tanto significativo, da giustificare la creazione di un nuovo clan, gli Tsugaru, e con loro di un supremo bene immanente, una fortezza che avrebbe eternamente legato questo nome a un luogo; immutabile, inamovibile, per sempre saldamente collocata. Almeno nell’idea di origine. Ma il tempo ha questa strana abitudine, di mutare i presupposti e i condizionamenti…
Così, di terremoti abbiamo già parlato, ed in effetti come tutti sanno quell’evento ambientale particolarmente sgradito è tra le principali prerogative del paese posto a oriente della Cina e la Corea. Qui, dove i draghi del mondo si agitano senza posa, e neanche un flusso ininterrotto di preghiere può portare alla salvezza di un paese, di certo furono molti i fieri castelli abbattuti da un sommovimento, ridotti in macerie senza remore dall’ira degli dei. Mentre l’Hirosaki, dal canto suo, nacque con un diverso tipo di sfortuna. Costruito originariamente attorno ad un torrione (tenshu) di ben cinque piani, fu colpito da un fulmine soltanto 16 anni dopo il suo completamento, nel 1627, ed esplose letteralmente quando le fiamme raggiunsero il magazzino della polvere da sparo. Da qui iniziò un lungo periodo di abbandono, che sarebbe durato fino 1810, quando il nono daimyo del clan, Tsugaru Yasuchika (1765-1833) arricchitosi grazie alla sua mansione di magistrato delle isole Kurili, finalmente dispose di risorse sufficienti per ricostruirlo, benché più piccolo (“soli” tre piani) e privo delle sue mansioni prevalentemente belliche dell’epoca feudale. La nuova torre principale dell’Hirosaki era più che altro un simbolo, la rappresentazione di un ideale battagliero ormai rinfoderato, eppure ancora vivido nella memoria dei suoi discendenti. Nel 1937, quindi, il castello venne inserito nel catalogo dei beni nazionali, status che non bastò a salvarlo dalla sottrazione del bronzo usato nelle sue decorazioni, requisito dall’esercito imperiale per farne armi ed aeroplani. Nel 1950, sopravvissuto persino a tali dure prove il castello fu infine donato al governo dai discendenti dell’ultimo signore feudale degli Tsugaru, affinché ne fosse tratto un parco d’interesse culturale. In questo stato, il sito sopravvive ancora.
Ma il più grande problema del castello, paradossalmente, sarebbe stata l’avidità degli uomini, o la furia della natura, bensì la sua stessa collocazione. Collocato da secoli in prossimità di un caratteristico fossato, il suo peso ha gravato su di un terrapieno rinforzato, fino al punto che, senza un qualche tipo d’intervento, il suo destino pareva diventare l’equivalente giapponese della nostrana torre di Pisa. Finché all’amministrazione comunale non venne l’idea…
SPOSTARE un castello? Possibile? Tutto lo è… Non si tratta certamente di un concetto totalmente nuovo. La storia dell’architettura è piena di episodi simili, con ricchi industriali o imprenditori che acquistano a prezzo salato qualche rudere dismesso della vecchia Europa, quindi, come ulteriore dimostrazione d’opulenza, lo fanno smontare mattone per mattone, al fine di spostarlo nelle proprie proprietà d’oltralpe, oltremanica, quando non addirittura, oltroceano. Mentre la caratteristica particolare di quest’impresa meno distruttiva è il mantenimento dell’intero edificio integro, durante l’intero corso dell’operazione. Il castello, dunque, sarà spostato di ben 79 metri, attraverso un sistema di cric pneumatici e rotaie, presso un sito dove rimarrà, secondo i programmi, fino al 2021. Viene da chiedersi, a tale proposito, quali complessi interventi abbiano intenzione di compiere a sostegno delle antiche fondamenta in un periodo tanto lungo, o se piuttosto, la scelta di allungare i tempi sia più strategica che funzionale. Un castello “spostato” soprattutto con l’attenzione internazionale che sta attraendo l’impresa, attira certamente più curiosi, che contribuiranno così alla principale risorsa della cittadina di Hirosaki, il turismo. Particolarmente famosa, ancor più nella sua accezione della vicina capitale di prefettura Aomori, è ad esempio la festa annuale del Neputa, durante la quale vengono fatti trainati a braccia per le strade cittadine alcuni grandi carri allegorici vivacemente illuminati, raffiguranti gli antichi guerrieri di questa regione. O che dovrebbero rappresentare in alternativa, soprattutto secondo nell’accezione locale, la personificazione ingigantita delle lanterne galleggianti di 400 anni fa, che gli agricoltori locali rilasciavano lungo il corso dei fiumi d’estate, per un rituale ritenuto utile ad allontanare la stanchezza.
Ed è interessante notare come permanga un qualcosa di questa tradizionale visione operativa, a misura d’individuo, persino nella grande impresa tecnica di spostare un carico potenzialmente instabile di 400 tonnellate.
Tutto è iniziato a metà dello scorso agosto, con una cerimonia tenutasi alla presenza del sindaco, in abito tradizionale, e un gruppo di bambini in festa, ciascuno doverosamente fornito di un ventaglio con la figura di una qualche mascotte da cartone animato, come si confà ad una qualunque prefettura giapponese che si rispetti. Da una rapida ricerca, il pupazzetto in questione non sembrerebbe conformarsi all’estetica della fatina tondeggiante Ikubee, il simbolo di Aomori, benché simili creature, come quelle reali, siano soggette a numerose evoluzioni e metamorfosi, quindi tutto è possibile. Completata la danza propiziatoria, il castello è stato quindi sollevato dalle fondamenta tramite l’impiego di un sistema sincronizzato di jacks (versioni maggiorate dell’attrezzo che noi impieghiamo per cambiare una ruota all’auto) e l’aggiunta progressiva di cribs, ovvero uno strato di materiali sovrapposti, generalmente di legno, simili a quelli impiegati per lo spostamento delle case prefabbricate statunitensi, come mostrato a più riprese nel popolare programma Tv dell’History Channel, Mega Movers. La scelta di una sostanza così relativamente poco resistente rispetto, ad esempio, a uno spessore in travature d’acciaio, è dovuta non soltanto alla maggiore maneggevolezza, ma anche al rumore udibile di un eventuale cedimento, con la finalità di sostituire il singolo “mattoncino” prima del verificarsi di un irrecuperabile disastro. Il metallo trova invece impiego nella creazione delle vere e proprie rotaie costruite per spostare il castello, dinnanzi alle quali potranno porsi, verso la seconda metà di settembre, alcuni cittadini, sorteggiati tra i paganti della tassa comunale, che potranno contribuire a tirare delle corde dando il loro contributo allo spostamento, che verrà portato a termine verso la fine di Ottobre.
Chiamati a questo compito, costoro potranno quindi rivivere la sensazione di contribuire al bene collettivo, agevolando la conservazione di un antico bene più che mai tangibile, come i loro concittadini che ogni anno, ormai da secoli, spingono innanzi i carri variopinti del Neputa. Usando un termine di paragone più vicino a noi, sarebbe attraente paragonarli anche ai facchini che sollevano letteralmente la macchina di Santa Rosa a Viterbo, di altezza addirittura doppia (27-30 metri contro i 14,4 del castello di Hirosaki) ma un peso di “appena” 5 tonnellate.
Perché la lezione che i giapponesi moderni traggono dall’epoca dei samurai, dopo tutto, è soprattutto questa: che l’individuo da solo può portare alle rivoluzioni, ma non senza il sostegno del suo clan. E dove non arrivano la mente sagace, lo studio della strategia, della politica, le doti di carisma personali, può giungere l’invincibile legame del nakama (amici, gruppo dei colleghi, clan) più forte ancora di quello del sangue ereditato. L’unica forza in grado di costruire i castelli. Nell’iconografia moderna, non a caso ricorre questa immagine, della fortezza che si anima, per muoversi dalla sua antica sede come una sorta di aedificium ex machina, salvandoci quando tutto pareva ormai perduto. Nel cartone animato del 1982 Macross (adattato per l’Occidente come parte della saga multimediale di Robotech) addirittura la fortezza spaziale, usata dalla razza umana ormai sperduta nei suoi viaggi interstellari, giungeva a trasformarsi in un gigantesco robot antropomorfo, in grado di combattere i nemici alieni nei momenti di crisi. E se pure l’Hirosaki sta raggiungendo la sua nuova sede con tutte le cautele e la lentezza del caso, 20 anni sono abbastanza perché possa succedere qualunque cosa. Chissà come, e se, ci tornerà.