È una scena così tipica ed al tempo stesso, dannatamente affascinante: il ricercatore dottorato all’Università di Stanford, posto sotto la supervisione di un assistente di bioingegneria, che scruta attentamente dentro a un microscopio nel laboratorio. Alla ricerca di… Correlazioni, punti d’interesse, loci e nessi significativi. Siamo nel 2009. Ma mentre aumenta la concentrazione, ad un tratto, costui si rende conto di qualcosa. Un fatto chiaro e lampante, da tempo immemore sotto gli occhi di ciascuno, ma che tuttavia nessuno, almeno a quanto gli è dato di sapere, si è mai dato la briga di commentare. Né soprattutto studiare e/o pubblicare, fatto ancor più interessante dal suo punto di vista. Così alza gli occhi, si guarda intorno, e mentre aspetta di rimettere a fuoco il mondo delle cose in proporzione, improvvisamente esclama: “Prof, le gocce sembrano vive!” Ed è tutta una questione di contesto. Perché dal punto di vista dell’uomo della strada, una simile affermazione poteva essere soltanto interpretata come la battuta di un’ubriaco, o al limite, l’osservazione di un qualcosa di ovvio e rinomato. Ma basta mettere quattro, cinque lacrime sopra una superficie liscia e non permeabile, per rendersi conto che non è esattamente così. A meno che detto piano di lavoro sia il metallo di una padella, riscaldata al di sopra del punto di ebollizione, un fluido giace nel suo luogo, grosso modo immobile, finché non transita immancabilmente verso un altro stato di materia. Questa è la dura legge della gravità. Mentre in quel caso specifico, meraviglia della meraviglie, sopra un vetrino privo di caratteristiche particolari, una ventina di puntini s’inseguivano e scostavano l’un l’altro, parevano dei microbi in una coltura di Pasteur. Fenomeno, questo, certamente degno di essere studiato, almeno nell’opinione del supervisore, al punto che l’intero laboratorio, negli ultimi anni, ha dedicato una parte del suo tempo alla risoluzione di questo “mistero”. La cui genesi probabilmente, soprattutto per chi ha la chimica nel sangue e nella mente, era già per sommi capi molto chiara. Ma che del resto, una volta dimostrata, approfondita e reso controllabile, poteva trovare un’applicazione nella costruzione di superconduttore o pannelli solari autopulenti. Per non parlare della cosa più importante: creare una simulazione istantaneamente comprensibile, e attraente, dell’origine stessa della vita sulla Terra.
Il nome dell’istigatore accidentale dello studio, il ricercatore ancora fresco dei suoi studi, è Nate Cira, mentre il suo supervisore di ruolo e capo laboratorio è Manu Prakash, il tipo di scienziato che, come afferma nel suo profilo ufficiale presso il sito dell’università, “lascia che sia l’istinto e la curiosità a guidarlo.” I due hanno quindi ottenuto la partecipazione di un terzo elemento, il giovane collega Adrien Benusiglio. Nel corso dei ritagli di tempo ricavati tra quelli che erano sicuramente studi dalle applicazioni più immediate, i tre hanno impugnato quindi altrettante pipette di precisione, iniziando a mettere alla prova i vari fluidi a disposizione in questo strano e nuovo sport. È importante notare che nell’esperimento originario di Cira, come anche nel video di apertura, ciascuna goccia fosse composta essenzialmente di due tipi di molecole distinte: una parte d’acqua, un’altra di glicole propilenico (1,2-propandiolo) componente basilare di molti coloranti per il cibo, medicinali e disinfettanti. Ed andava rintracciata proprio in questa commistione di elementi, essenzialmente, l’origine della questione. Perché come per l’appunto dicevamo, tutti i fluidi sono soggetti ad evaporazione, ma non tutti allo stesso ritmo. Ciò che succede quindi nella goccia “mista” è che il glicole propilenico tende a scappare via per primo trasformandosi in gas, anche a temperatura ambiente, scegliendo come via di fuga la parte bassa della goccia, dove le pareti sono più sottili. Mentre l’acqua, in conseguenza di tale tendenza, pur mantenendo un peso superiore, si ritrova in alto, generando turbolenze non indifferenti. Questo, quindi, causa il movimento. Ma non spiega la questione ancor più affascinante: perché le gocce sembrano, letteralmente, cercarsi tra di loro, o in altri casi paiono respingersi a vicenda?
Il fenomeno è stato descritto, nell’articolo a supporto proposto presso il sito dell’Università di Stanford, come una sorta di chemiotassi artificiale. Ora, questo termine si riferisce in genere al metodo di locomozione impiegato da molti dei principali organismi procarioti e eucarioti, troppo piccoli per disporre di una qualsivoglia forza muscolare, per non parlare di un cervello o di organi sensoriali. Ma che tuttavia, raramente falliscono nella ricerca di un punto di interesse, sia questo del cibo (nel caso delle amebe) una cellula da infettare (se parliamo di batteri) oppure un intruso nell’organismo (dal punto di vista dei globuli bianchi). Ciò avviene grazie ad un sistema puramente automatico, per cui il micro-organismo ruota costantemente su se stesso e tende ad avanzare, ma lo fa tanto maggiormente, nel momento in cui si trova innanzi all’ente di esistenza che gli è maggiormente affine. E così avveniva pure per le goccioline, con l’obiettivo di trovare le loro simili e letteralmente, unirsi a loro. È una questione certamente suggestiva: la turbolenza causata dal gradiente di evaporazione dei due fluidi contenuti in ciascuna, infatti, risulta sufficiente a generare un vero e proprio vortice di umidità, che assume in tutto e per tutto le caratteristiche di un campo di forza. Quando due di queste emanazioni, con le relative gocce, finiscono quindi per incontrarsi, possono avvenire due cose: attrazione o respingimento. A decidere quale delle due situazioni debba verificarsi, sarà volta per volta una delle forze principali che contribuiscono al presente stato delle cose, ovvero la tensione di superficie.
Succede infatti, ed è un’osservazione che prende il nome dal fisico italiano Carlo Marangoni (1840-1925) che non tutti i fluidi abbiano al stessa tendenza a rimanere uniti, e che il gradiente di questo valore, in due o più sostanze messe in contatto tra di loro possa causare un qualche tipo di azione e reazione. Provate ad esempio a mettere, in un piatto fondo da cucina, un sottile strato d’acqua. E a far galleggiare sopra di esso una certa quantità di particelle indipendenti, ad esempio dei granuli di pepe. Immettete quindi, al centro del sistema, una singola goccia di un qualche fluido detergente o detersivo, sostanze dotate in genere di una tensione di superficie inferiore alla media. Ciò che osserverete, a questo punto, se le caratteristiche chimiche sono idonee, è un’istantaneo spostamento dei vostri granuli verso il bordo del piatto, ciascuno istantaneamente attratto dai margini dello stesso, dove permane la maggiore concentrazione di acqua ancora pura, e quindi dotata di un maggior potere di attrazione. Pensate che questa tendenza è tanto forte da sfidare addirittura, in determinate circostanze, l’eterno potere della gravità. Basta infatti osservare a lungo un bicchiere di vino (maggiore è la gradazione alcolica, meglio è) per notare il formarsi di uno strato di goccioline nella parte del bicchiere immediatamente superiore alla linea di galleggiamento, le quali pur tendendo continuamente a scendere, si riformano, ancora e poi di nuovo.
Tale tendenza, osservata per la prima volta dal fisico James Thomson nel 1855, viene normalmente associata ai termini “lacrime” o “gambe” del vino, ed è dovuta all’effetto dell’evaporazione dell’alcol, che tende a mutare in gas più rapidamente nelle regioni periferiche del bicchiere, dove l’azione capillare aveva portato al formarsi di un velo di umidità sulle pareti dello stesso. Qui, tuttavia, invece che tendere a tornare subito verso il basso, il liquido finisce per attrarre se stesso ed accumularsi, per il semplice fatto che nel centro del bicchiere la tensione di superficie risulta inferiore. Soltanto quando ciascuna goccia sarà quindi sufficientemente grande, e pesante, questa ricadrà verso il basso, contribuendo alla creazione della sua prossima sorella, in un ciclo continuo di rigenerazione. E in questo comportamento, essenzialmente, si può trovare lo stesso principio delle goccioline dell’Università di Stanford.
Perché non è effettivamente il colore di ciascuna goccia, come forse saremmo portati a pensare per analogia coi videogame della serie Puyo-Puyo, la ragione per cui due gocce si attraggono o respingono a vicenda, ma la diversa concentrazione di glicole propilenico in ciascuna di esse, volutamente codificata in base alla tonalità selezionata. Così, i tre scienziati hanno osservato nel corso degli ultimi 3 anni come le gocce con lo stesso rapporto tra alcol ed acqua fossero più affini a loro stesse, e rifiutassero automaticamente le loro “nemiche” pur non essendo in alcun modo vive, programmate o intelligenti. Tutto ciò che è piccolo, fin dalla notte dei tempi, tende ad aggregarsi. Perché soltanto questo può garantire in qualche modo la sua sopravvivenza. Non vi ricorda nulla, tutto ciò? Quando sul pianeta la forma di vita più sviluppata era un singolo microbo flagellato, che tendeva a correre verso il cibo, ovvero microbi più piccoli, e fuggire dai suoi predatori, a loro volta più grandi di lui. Finché tale antenato di tutti noi, per qualche motivo poco chiaro, non decise che esisteva una terza via, ovvero cercare delle creature che fossero grandi soltanto leggermente meno di lui. Assieme alle quali, unirsi. Per crescere a dismisura, diventando infine un protozoo. E dal protozoo, la lumaca. Dalla lumaca, prima o poi, la medusa…