Il kamikiri che è, naturalmente, una tecnica tipicamente giapponese. Rinforzando ulteriormente lo stereotipo, rigorosamente positivo, secondo cui quel popolo ha prodotto alcuni tra i migliori tecnici della creatività, in grado di veicolare i propri sentimenti e l’immaginazione tramite gli approcci più diversi. E c’è davvero da meravigliarsi dagli oltre 1700 anni di storia del paese, non ci è mai giunta notizia di un filosofo nel senso puramente occidentale, ovvero un individuo dedito allo studio del pensiero? Quando un qualsiasi stato d’animo poteva palesarsi tramite l’impiego di parole in versi, qualche pennellata su di un rotolo, la lavorazione del legno, della lacca o dei metalli…Per non parlare della carta washi. Forse in nessun altro luogo si è mai trasportata a un tale lido d’eccellenza l’ampia varietà di stili, approcci e metodi per trasformare un tale bianco materiale, tradizionale frutto delle fibre del gelso o del frumento, in via d’accesso al mondo della trascendenza. Origami: figure tridimensionali create unicamente ripiegando un foglio su se stesso, tra cui la celebre gru, che fabbricata mille volte avrebbe dato accesso al paradiso dei buddhisti. Kirigami: una creazione che si configura grazie all’uso delle forbici e talvolta, anche la colla, intagliando configurazioni di un’estrema complessità, come la spettacolare kusudama, la sfera basata sulla ripetizione matematica di un modulo. Pepakura: un’espressione più moderna della stessa cosa, spesso mirata alla ricostruzione in miniatura di personaggi, veicoli o robot dei cartoni animati. E ciascuna di queste, un’arte frutto non soltanto di una lunga pratica, ma un certo periodo d’impegno personale e solitario per ciascuna produzione, affinché tutto sia perfetto, l’espressione di un sapere antico.
Mentre il kamikiri è follia pura in movimento, frenesia creativa, il senso di creare che diventa ribellione frenetica, contro il senso della quotidianità insistente. Un solo uomo, seduto sul riconoscibile palco del genere teatrale d’intrattenimento yose, che si agita e canta, tenendo in mano due strumenti: un foglio e un paio di forbici estremamente affilate, tramandate nella sua famiglia assieme al còmpito e il segreto. Per chiamare il pubblico a partecipare di un sublime quanto memorabile divertimento. Funziona così: qualcuno, dai sedili del teatro, chiama una figura, che può essere naturale (animali, piante) tradizionale (un personaggio di qualche dramma o celebre leggenda) o impossibile (l’uomo invisibile, il vento, “la nostalgia”). Al che l’artista, qualche volta dondolandosi o cantando, altre intavolando un buffo ed insensato monologo, si mette di buona lena, realizzando in pochissimi minuti la sua migliore interpretazione di quanto richiesto. Nessun disegno preparatorio, niente piano operativo. Certamente, ben poco della massima concentrazione e il silenzio a cui si associa normalmente il gesto del creativo; ma alla fine, il risultato…Parla da sé! Una delle immagini che non possono mancare in una singola sessione di kamikiri è la fanciulla con il glicine, una figura in kimono, e in genere il cappello, che trasporta sulla spalla un grosso ramo di quel rampicante, possibilmente fiorito. La realizzazione delle foglie e dei fiori, straordinariamente irregolari nelle forme, richiede decine di rotazioni del foglio, mentre colui che opera con sicurezza preternaturale sa comunque molto bene, che un singolo errore può bastare a rovinare tutto quanto. Ma questo non succede. Incredibilmente, volta dopo volta, un maestro del kamikiri porta la sua arte fino alle estreme conseguenze, creando dal semplice il complesso, e da qualche minuto d’intrattenimento, un’esperienza degna di durare. Colui che vediamo all’opera nel video di apertura è Hayashiya Shoraku (林家正楽), terzo del suo nome, vera celebrità nazionale nonché uno dei principali ambasciatori nel mondo di questa suggestiva forma d’espressione personale. È inutile dire, poi, che ne esistono innumerevoli varianti.
Nato nel 1948 presso la prefettura di Saitama, il futuro performer ereditò dal padre i segreti dello stile della sua famiglia, come lui stesso, a partire dal 2000 ha iniziato ad impartirli a suo figlio, oggi noto come Hayashiya Niraku (林家ニ楽) anche lui un celebre praticante dell’arte del kamikiri. Negli spettacoli di quest’ultimo, tuttavia, almeno per quanto di è dato di comprendere attraverso il web, ci si è abituati ad un approccio più moderno e quasi narrativo, mentre i suggerimenti del pubblico vengono messi in secondo piano. Inoltre, innovazione molto significativa, invece che affidarsi al semplice sistema inventato dal padre per mostrare il frutto di tanta fatica agli spettatori (una semplice cartellina trasparente a fondo nero) costui si affida a un ben più moderno proiettore, la classica lavagna luminosa delle scuole medie e superiori. L’effetto finale è un’affascinante commistione tra ritaglio in diretta ed ombre cinesi, mentre l’intero spettacolo, piuttosto che susseguirsi disunito di figure, con l’unico filo conduttore del monologo, diventa una sorta di fumetto interattivo, che può narrare, ad esempio, una semplice ma suggestiva storia d’amore:
Per comprendere l’importanza del kamikiri nella storia del teatro giapponese, occorre risalire alle sue origini remote. Esisteva in Giappone, fin dal IX e X secolo, l’usanza per cui i monaci buddhisti itineranti bussassero alla porta dei potenti, per arringarli sui misteri e la portata della somma Via. Facevano, da un punto di vista esterno e spassionato, proselitismo. Un gesto per l’epoca profondamente innovativo, soprattutto rispetto al modus operandi dell’altra disciplina spirituale vigente, lo shintoismo, i cui principali sacerdoti credevano nell’ascetismo e la riservatezza, lasciando i propri riservati templi solamente in occasione delle processioni e feste di paese (i famosi matsuri). Mentre per i seguaci del Grande Veicolo (Mahayana) ogni occasione era buona per industriarsi ad aiutare il prossimo, gesto che includeva, incidentalmente, lunghe spiegazioni su quale fosse il ruolo dell’Individuo nel Tutto, il modo di vivere e di governare il prossimo. Il che poteva anche essere utile a lungo termine, ma spesso risultava assai noioso. Così nacque l’usanza, a margine di quei sermoni, d’includere un segmento buffo e divertente, durante il quale il monaco solitario interpretava anche due o tre personaggi, travolti dai casi imprevisti della vita. Originariamente si trattava di una tradizione soprattutto orale, mentre per avere delle testimonianze tangibili di questi brani recitati dobbiamo attendere fino al 1213-18, anni della diffusione di un testo antologico noto come l’Uji Shūi Monogatari, composto durante il regno degli shōgun Minamoto. La nascita coéva di una nuova classe guerriera nel frattempo, quella dei samurai, diede per la prima volta la possibilità al signore feudale di rifiutare l’influenza della chiesa buddhista, vivendo piuttosto secondo gli unici precetti del suo codice confuciano. A quel punto i monaci itineranti dovevano adattarsi, o scomparire. E la loro scelta fu pratica e condivisibile: ampliare la parte facéta dei loro discorsi, facendone una vera e propria forma d’espressione teatrale definita rakugo (la parola che cade) tutt’ora praticata, per i suoi meriti umoristici e l’attenta codificazione esecutiva. Nel corso dell’intero spettacolo c’è un solo attore, inginocchiato sopra una piattaforma ed un cuscino, che dialoga con se stesso, mimando i vari personaggi e cambiando anche il tono della voce. Gli unici attrezzi di scena che gli sono concessi: un ventaglio (sensu) ed una pezza (tenugui). Costui può spostarsi con le ginocchia ma non alzarsi in piedi; ma è proprio dalla privazione di strumenti, spesso, che nascono nuove straordinarie forme d’arte. Secondo un’usanza oggi meno rispettata, l’attore avrebbe dovuto chiudere ciascun segmento con l’esecuzione del gesto che dava il nome all’intero show, facendo letteralmente “cadere la parola” ovvero lasciando il discorso in sospeso. Durante il periodo della più duratura pace e significativi mutamenti culturali dell’epoca Edo (1603-1868) lo yose in generale, ed il rakugo nello specifico, si arricchirono di numerose nuove forme esecutive, tra cui quest’arte particolarmente originale dell’intaglio su richiesta della carta washi da origami.
L’arte del kamikiri nasce quindi, fin dalle origini, come attività teatrale, pensata in modo specifico per l’interazione diretta del pubblico in sala. Fin dall’epoca dell’immediato dopoguerra, tuttavia, fu proprio un portatore del sacro nome degli Hayashiya, probabilmente il padre omonimo dell’attuale Shoraku, a portarla per primo in televisione, all’interno di telequiz che diventò piuttosto famoso. I suoi partecipanti, assieme al pubblico da casa, venivano chiamati ad indovinare il prima possibile quale fosse la forma che stava per essere tratta dalla carta, che appositamente per lo scopo l’artista cercava di mantenere il più possibile nebulosa, fino all’ultimo momento, in cui appariva improvvisamente in tutto il suo splendore. Doveva trattarsi di uno spettacolo particolarmente divertente, soprattutto visto come fosse tratto, essenzialmente, soltanto da un paio di forbici e la carta. Ma taglio di qualcosa, per quanto semplice ed apparentemente privo di significato, ha sempre rivestito un’importanza primaria nell’iconografia giapponese.
Indicativo è l’episodio della vita del celeberrimo samurai e duellista Miyamoto Musashi (1584-1645) probabilmente esagerato nel romanzo sulla sua vita di Eiji Yoshikawa, ma comunque frutto di vere leggende popolari, secondo cui il guerriero si sarebbe recato, in età ancora giovane, a sfidare una vecchia leggenda del combattimento di spada, il grande Yagyū Munetoshi, ex-insegnante dello stesso shōgun Tokugawa. Ottenendo per caso d’incontrare, in una locanda, un altro spadaccino con lo stesso proposito, che più volte aveva sfidato quella grande figura, ricevendo in cambio solamente dal maestro un fiore di peonia, considerato a torto un’offesa. E c’è questa scena memorabile, in cui il giovane Musashi vede per caso tale dono vegetale destinato all’altro, e riconosce immediatamente il senso e il punto dell’oggetto: la maniera in cui lo stelo era stato reciso era infatti letteralmente perfetta. Chiunque fosse in grado di maneggiare una spada a quel modo era letteralmente destinato all’immortalità. Alla fine i due, giovane duellista e vecchio maestro, si sarebbero incontrati, con il secondo ormai troppo anziano per rispondere alla sfida. Eppure l’esperienza si dimostrò formativa per entrambi, nonché positiva per noi tutti. Perché permise il trasferimento alla prossima generazione non soltanto di un modo straordinario di tagliare i fiori, ma della ricca e complessa visione del mondo che aveva portato, nel corso dei secoli, a compiere quel gesto, in quel momento, in un simile modo. A cosa potevano mai servire, di fronte a una simile lampante verità, interi tomi di stampo aristotelico o trattati nello stile di Platone?