Come nasce un cellulare in Cina

Gadgets from China

L’atmosfera è tranquilla, il clima, rilassato. Abituati alle sequenze di qualche anno fa, quando andò di moda interessarsi brevemente alle cosiddette “fabbriche di iPhone”, questo reportage sul campo dall’industria della città di Shenzhen, SAGA, appare quasi mistica nella sua pacatezza calcolata. Mancano le schiere di banchi nell’enorme capannone, col frastuono dei distanti macchinari. Non c’è il viavai degli addetti al controllo della qualità che corrono da un lato all’altro dell’impianto, nel tentativo di spronare l’opera degli individui stipendiati. Mentre tutto pare muoversi a un ritmo (relativamente) rallentato, con i vari componenti che vengono smistati dai capienti magazzini, poi saldati attentamente sulla scheda madre. Mentre un secondo addetto, come di consueto, si occupa di chiudere la scocca del dispositivo. È una visione della formidabile, insospettata verità: perché guardando tutta l’elettronica che connota le nostre case, è facile notarne l’ostentata perfezione. Siano dieci o centomila, poco importa. Ciascun singolo oggetto che abbia quel determinato logo o numero di serie, lo schermo, la tastiera, il mouse, il laptop, la console per videogiochi, sarà perfettamente identico ai suoi simili arbitrati. Perché la fonte originaria dei suoi singoli diversi componenti, è sempre quella e solamente lei, la macchina industriale. Mentre il tocco umano è infuso in ciò che viene dopo, l’assemblaggio che può essere visto come un più complesso confezionamento. Cosa acquisti, in fondo, quando esci dal negozio con la scatola più amata? Un microfono, l’altoparlante, un touch-screen da 4 o 5 pollici, la batteria. E dentro la memoria a stato solido, la scheda logica e un prezioso processore, che da allora si occupa di elaborare i dati fatti transitare dietro all’interfaccia. Questo è l’insieme dei tuoi “beni” fisici, ma non l’intero valore oggetto del tuo acquisto. Perché è la produzione il grosso della spesa, spesso data in sub-appalto, in quanto non può prescindere, persino oggi, dal volubile fattore di due mani esperte, moltiplicate per ciascuna postazione. Che sono generalmente attaccate in via diretta a quelle braccia, che a loro volta si diramano da un individuo. Con pensieri, aspirazioni, conti da pagare. Questione, questa, che è davvero facile dimenticare. Noi che siamo l’ultimo anello della catena di montaggio, esposto al Sole ed alle stelle di un ipotetico avvenire, non differiamo fondamentalmente in alcun modo, dal cerchietto di metallo precedente, né da quello prima ancora e così via, incastrati tra gli argani ed i capestani sotto l’ombra del capanno funzionale. Neppure in quello che facciamo, quotidianamente e in senso lato: offrire un operoso contributo ai nostri simili distanti. Ricevendo in cambio di quel fare, lo stipendio d’entità variabile, che può permettere di uscire ad acquistare i cellulari. Cina, Europa, zero differenze nel sistema dell’economia di scala. Tranne una forse, ma davvero significativa: sapete quanto guadagna uno di questi operatori, dalla tenuta azzurra ed il grazioso cappellino? Lo dichiara orgogliosamente l’accentata voce fuori campo, appartenente alla titolare del canale di YouTube GFC (Gadget From China): “Soltanto un centesimo l’ora! Assumono nei villaggi vicini, per garantire l’immissione sul mercato di un prodotto a prezzi contenuti.” Beh, su QUESTO è veramente dura darle torto. Si tratta di un risparmio straordinario.
Il video di una decina di minuti si sviluppa attraverso una serie di capitoli, ciascuno intervallato da una dissolvenza in rosso con in campo il logo dell’impresa mediatica e divulgativa citata, nei fatti, ormai ferma da diversi mesi. Nelle battute di apertura, viene mostrata un’impressionante fila di scaffali, suddivisi per categoria. Questo è infatti l’ambiente in cui viene immagazzinato ciascun singolo componente, acquistato dalle compagnie specializzate nei diversi aspetti che costituiscono lo squillante, parlante, luminoso insieme. È interessante notare come i pacchi già scartati non contengano compatte balle di minuzie elettrotecniche, bensì veri e propri vassoi, egualmente distanziati, quasi ad esporre all’aria una verzura particolarmente profumata. La ragione di una tale disposizione standardizzata va ricercata nei passaggi che vengono prima…

L’abbiamo dunque affrontata: la questione di come più una cosa sia all’apparenza scollegata dal mondo della produzione istintiva, maggiormente richieda, a un certo punto della sua messa in opera, l’intervento diretto di una o più persone, che l’assemblino secondo direttive ben precise. Ma non tutto è manuale, per lo meno nelle prime battute della produzione, quando la componentistica da saldare sulla scheda madre risulta talmente ridotta e le tolleranze tanto insignificanti alle pupille scrutatrici (ma nei fatti funzionali) che nessuno potrebbe portare a compimento l’opera in un tempo breve, neanche la figura ormai semi-mitica del “bambino che cuce i palloni”. Ed è qui, nei fatti, che l’automatizzazione regnerà per sempre incontrastata, grazie all’impiego in modo particolare di quella classe di macchine industriali che hanno il nome generico di Pick and Place (Solleva e Metti) ma prendono forme innumerevoli, sulla base del bisogno. Così benché non venga mostrato nel video di GFC, potete stare certi che ben prima della fase costruttiva oggetto del reportage i componenti di maggiore complessità avevano vissuto simili momenti:

Sparkfun PaPM
Questo video ritrae la macchina PaPM dell’azienda SparkFun Electronics, produttrice di componentistica per uso nei progetti personali degli utenti. Si tratta di un macchinario dall’alta complessità e il costo non indifferente di 56.000 dollari del 2009, almeno stando all’esauriente descrizione del video.

Un suono ritmico e pneumatico, alla base di un attento movimento. La testina su pantografo motorizzato, muovendosi con precisione ineccepibile, sposta processori, condensatori, chip di memoria, procedendo senza pause nella saldatura. Ora non è più tanto difficile comprendere perché li chiamino circuiti stampati. Il che ci porta alla domanda successiva, probabilmente alla base di qualsiasi ragionamento si possa fare, oggi, sull’importanza della catena di montaggio umana: se è possibile automatizzare il processo di creazione di un qualsivoglia gadget tecnologico fino a questo punto, perché esistono ancora simili opifici nello stile della rivoluzione industriale inglese? Sede di un’etica del lavoro occasionalmente poco attenta ai bisogni del dipendente, che dovrà necessariamente essere classificato sulla base di quanto riesca a produrre e con che precisione. Invece che all’impegno, al rispetto e al senso del dovere, ovvero le tre doti che dovrebbero costituire il fondamento della nostra personalità esteriore. La ragione, come nella maggior parte delle altre ingiustizie moderne, va ricercata nell’esigenza di sopravvivere, portare il vascello oltre l’infuriare dell’economia agitata. Nessuna realtà aziendale può sussistere, se non produce un qualche tipo di profitto, e macchine complesse come le PaPM, di norma, sono anche altamente specializzate. Basta un rapido sguardo al video di quella fabbrica di Shenzhen, per rendersi conto che un simile stabilimento produce almeno due dispositivi molto differenti tra di loro: il primo, quello oggetto della maggior parte dell’esposizione, simile per progetto ad uno smartphone di fascia alta, il classico rettangolo dal tutto-schermo e un solo tasto d’accensione; l’altro, una curiosa commistione dei vecchi cellulari a cerniera con la tecnologia dei touch-screen, sovradimensionato al punto da poter entrare solo nelle borsette più ingombranti. Non si può creare una singola macchina che sia in grado di assemblare queste due cose, ed innumerevoli altre. Per uno stabilimento come la SAGA che collabora con numerosi marchi differenti, operativi nel mercato cinese in cui la sperimentazione delle forme è d’obbligo, non c’è praticamente altro modo che affidarsi alla versatilità dell’occhio, del cervello e delle mani umane.
Nei capitoli successivi del video di apertura viene dedicato un ampio spazio al controllo della qualità, con tanto di escursione presso il dipartimento ingegneristico dello stabilimento. Qui, alcuni cellulari presi a campione vengono messi duramente alla prova, con pressioni ripetute dello schermo, ore di funzionamento al massimo del volume, dietro una teca fortunatamente insonorizzata, e addirittura l’inserimento in una sorta di giostra con contrappeso per addestrare gli astronauti, all’interno della quale il gadget viene fatto girare più e più volte. Una particolare dipendente, molto presa nel suo compito, sembra avere l’unica missione di far cadere i telefonini a terra, possibilmente dalla parte dello schermo, e poi accenderli per controllare se funzionano ancora. Una dedizione quasi monomaniacale, che sembra avvicinare notevolmente il complesso di pensieri e sentimenti di una persona a tutti quei macchinari, che potrebbero sostituirla se soltanto fosse vantaggioso per l’azienda. Di certo, una tale etica può esistere soltanto all’altro lato del globo, dove la cultura moderna trae l’origine da una filosofia di completa ed assoluta abnegazione? Non c’è niente di simile, nel nostro beneamato mondo occidentale? Ecco…

Amazon Robots
I robot della Kiva Systems usati nei magazzini di Amazon sono un miracolo della tecnologia applicata allo smistamento pacchi. Ciononostante, l’azienda deve ancora affidarsi per l’ultimo segmento del processo all’opera, ben più costosa, dei suoi associati in carne ed ossa.

Il fatto è che questa riduzione estrema dei costi, soprattutto relativi alla manodopera, è nell’interesse di ogni ruota che fa parte del sistema. Della compagnia che assembla i cellulari, che così può mantenersi competitiva, nei suoi molti committenti, parti di un mercato sempre più agguerrito, persino dei singoli dipendenti, che in un simile contesto vivono una sicurezza e relativa tranquillità lavorativa che altrimenti non avrebbero mai conosciuto. Si è molto parlato della serie di suicidi che si verificarono a partire dal 2010 nelle grandi fabbriche della Foxconn di Shenzhen, che hanno portato i dirigenti ad installare sbarre alle finestre e reti sotto i piani superiori dei dormitori. Mentre resta indesiderabile alla stampa sensazionalista riportare come, nonostante le condizioni di lavoro disagiate, l’occasione di entrare a far parte di quella realtà risulti molto ricercata dalla gioventù locale, semplicemente perché le due principali alternative, di finire a sudare nei campi o di ammalarsi respirando i fumi dell’industria pesante, risultano comprensibilmente ancor più orribili e funeste. E una simile trifecta, da che Thomas Savery brevettò la sua prima pompa a vapore nel 1698, si verifica soprattutto nei paesi in forte via di sviluppo, come un tempo fu l’Europa stessa, sconvolta dai mutamenti sociali di quell’epoca di cambiamento.
Purtroppo allo stato attuale delle cose non potremmo mai far parte di questo rinnovato meccanismo, anche soltanto in qualità di consumatori, senza perdere una certa percentuale della nostra preziosa individualità. In sostanza per fare, o far muovere, le macchine, occorre diventare in parte come loro. Non è soltanto una questione di essere, o meno, cinesi, ma un’implicazione imprescindibile del nostro attuale status tecnologico. Quando tornare indietro diventa impossibile, l’unica speranza è accelerare.

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