Due mondi contrapposti che non hanno che l’ossigeno in comune. Ma persino quello, sopra o sotto l’acqua, si presenta in forma totalmente differente. Tanto che coloro che hanno branchie, normalmente, non possono venire all’aria. Così viceversa per noialtri, pre-forniti di polmoni e due narici, nulla più. Eppure sussistono, in bilico nel luogo di passaggio, degli esseri specializzati, la cui vita già dall’epoca remota era del tutto simile a quella dei pesci vertebrati, nonostante fossero forniti degli stessi limiti respiratori. Poi con il trascorrere delle epoche, attraverso il passo dell’evoluzione, le cose sono largamente migliorate. Perché cetaceo vuole dire questo: specializzazione. Se sei un mammifero marino, non puoi farti condizionare dalla situazione. Il fatto è che un delfino, una balena misticeta, una focena, nelle due sacche per il gas hanno alveoli d’efficienza superiore. Laddove l’uomo, per quanto riesca a migliorarsi nella disciplina dell’apnea, può assorbire grosso modo un quinto dell’ossigeno nell’aria, esistono creature come quelle, in grado di sfruttarne fino a nove parti su dieci. Più che sufficienti a prolungare l’immersione per toccare il fondo, risalire, scendere di nuovo, fare incetta delle proprie prede e non sentirsi, in alcun modo, svantaggiati giù tra l’acque dei fondali. Tutto questo ha un prezzo, naturalmente. Giacché l’energia a disposizione, sia questa intesa come calorie dell’individuo, oppur mobilità tra una generazione e l’altra, resta ad ogni modo limitata. E nessuna specie potrà mai salvaguardarsi dalle situazioni rare, per quanto pericolose, ovvero inerentemente scollegate dalla selezione naturale in larga scala.
Cominciamo in modo semplice, come si usa fare, soprattutto perché questo è un caso tanto immediatamente comprensibile, che non può fare a meno di evocare un certo grado di empatia e di compassione. Era soltanto un cucciolo di Criccieth Bay! Lassù nel Galles settentrionale, dove l’ombra dell’omonimo castello, costruito sulle rocce in grado di dominare l’intera regione del Cardigan, raggiunge ancora gli antichi tumuli dei Celti, residui silenziosi dell’Età del Bronzo. Qui si muove un pescatore che è anche il personaggio principale della scena, un tale di nome Rich Wilcock, con il suo springer spaniel, il fido cane Leia. I due che camminavano serenamente per il lungomare, telecamera alla mano del padrone, al fine probabile di documentare lo splendore (a dire il vero un po’ grigiastro) di una tale terra nordica e pacata. Quando all’improvviso, sopraggiunge la sorpresa. Il piccolo delfino scuro, lì nel bagnasciuga, intrappolato come un imenottero nella crudele teca tra la sabbia e il mare, il Sole, il flusso delle cose divergenti. Non siamo al cospetto in questo caso, ciò è subito evidente, di uno spiaggiamento estremamente significativo. L’odontoceta in questione, senza alcun dubbio, si sarà smarrito per l’inesperienza, perdendo sempre più l’orientamento e ritrovandosi alla fine, suo malgrado, in questa condizione totalmente priva di una prospettiva di salvezza. Neppure la famiglia o il clan di una simile piccola creatura sfortunata, superato l’attimo di dubbio, ricorderà la sua mancanza a lungo termine, perché in fondo questa è la natura. Procedere al di fuori del problema, risollevar le sorti dell’avverso fato. Continuare sulla propria rotta nonostante le tragedie, intempestive.
Se non che l’uomo intento nel suo vagheggiare, all’improvviso, sente il cane che si agita, comprende il segno del problema e realizza un piano che credo quasi chiunque di noialtri, trovandosi lì a fianco, avrebbe sùbito appoggiato. Così prende quella coda e la trascina via lontano, in mezzo al mare che vuol dire libertà. Poi di nuovo, visto che l’animale ritornava verso riva. Poi di nuovo.
Facile? Difficile? Cos’è un giorno o una mattina di fatica, rispetto alla lietezza di aver fatto un qualche tipo di differenza, aver concesso il proprio contributo benevolo alla Terra che ci nutre, oppure ospita i fratelli idrodinamici sull’ardua via ecologica della sopravvivenza. Ma naturalmente, il caso del pescatore gallese non ha comportato un gran dispendio di energia, coraggio o senso pratico di collaborazione. Si potrebbe anzi dire come, nell’intero spettro degli spiaggiamenti, occupasse lo scalino più basso ed accessibile, quello dei casi semplici per quanto sfortunati. Tutto, a questo mondo, va considerato in proporzione.
Data: 5 Marzo del 2012; luogo: la playa do Arrayal do Cabo, nello stato brasiliano di Rio de Janeiro, anche detto il Paradiso dell’Atlantico per il suo clima attraente, le acque ancora relativamente poco inquinate e le molte meraviglie del suo ecosistema sommerso. Dove stava per svolgersi ancora una volta uno dei drammi più tristi delle coste lievemente digradanti e sabbiose, l’incontro inappropriato tra diverse cose che dovrebbero nuotare, l’aria e il duro suolo. Stiamo nei fatti parlando, come apparirà evidente dal video soprastante, di uno spiaggiamento di massa di un intero branco di delfini (circa 15) apparentemente quanto inspiegabilmente inclini a suicidarsi tutti assieme, nello stesso sito ed ora. Se non che, ancora una volta, qui erano presenti degli altri bipedi del consorzio umano, ancora una volta dotati di telecamera, di nuovo e sempre pronti ad aiutare. Un delfino spiaggiato, normalmente, muore disidratato nel giro di qualche ora, oppure soffoca successivamente al sopraggingere dell’alta marea, che finisce spesso per coprire a lungo termine il suo sfiatatoio.
Ci sono diverse possibili ragioni, più o meno dimostrate dalla scienza propriamente detta, sul perché un simile disastro possa giungere a verificarsi d’improvviso, definendo in alternanza gli strumenti a nostra disposizione per riuscire a prevenirlo. La prima ipotesi è puramente endemica, e trae la genesi da fattori puramente di contesto: perché si, in effetti, il rapporto degli umani con l’Oceano è innegabilmente meno problematico di quello dei cetacei con la terra ferma. In quanto noi, inoltrandoci tra i flutti, possiamo sempre nuotare. Mentre il contrario, sarebbe assai difficile da immaginare. Può dunque accadere che, per una tempesta, nel tentativo d’inseguire prede troppo agili presso i fondali bassi, magari per il semplice disorientamento dovuto all’incedere della senescenza, un esemplare di delfino o altro cetaceo si ritrovi intrappolato suo malgrado in tali gravi condizioni. Il che, data la natura sociale di questi animali, ha spesso conseguenze a catena, con un numero variabile di consimili che tentano d’intervenire a salvare il malcapitato, soltanto per seguire a loro volta il suo destino. Esiste anche una discussa teoria, opera del geologo Jim Berkland, secondo cui la “bussola” di questi animali sarebbe condizionata dai campi magnetici del pianeta, e in qualche modo confusa dal verificarsi occasionale di terremoti. Simili scompensi, a suo parere, condizionerebbero anche gli uccelli migratori e i gatti domestici, benché con conseguenze meno gravi.
Ma la motivazione più tragica e oggettivamente documentata di simili eventi è tutt’altra e purtroppo si verifica a partire dalle gesta di noi stessi umani: è stato infatti dimostrato a più riprese, dalle analisi effettuate sulle carcasse degli animali non salvati in tempo, come la maggior parte dei cetacei odontoceti (ovvero tutti tranne le balene coi fanoni) risenta gravemente dell’influsso dei SONAR ad uso militare o civile. Tali strumenti, infatti, al fine di mappare un segnale di risonanza dello spazio acquatico e di tutto ciò che vi risiede, immettono nell’oceano un roboante suono ad alta frequenza la cui forza è letteralmente inaudita in natura, ferendo letteralmente il delicato apparato uditivo di questi cetacei. I quali, disorientati e/o spaventati, spesso finiscono per emergere troppo rapidamente, sperimentando la decompressione, oppure nel tentativo di sfuggire al pericolo finiscono direttamente sulla spiaggia. È interessante, benché triste, notare come esistano delle specie inerentemente più soggette a questo rischio, quali molte delle balene a becco d’oca degli spazi pelagici (Ziphius cavirostris) il cui avvistamento è talmente raro, che in effetti vengono più spesso ritrovate morte a riva. Mentre i grossi predatori che sono soliti foraggiare sui fondali bassi, quali ad esempio le orche, sembrano aver sviluppato un qualche tipo d’immunità al suono del SONAR, il che, unito all’esperienza nel gestire la difficile navigazione in tali luoghi, ne rende lo spiaggiamento estremamente raro. Naturalmente, esistono le eccezioni:
Questo video, che ha recentemente fatto il giro del mondo nei portali virali, negli aggregatori di news e nei telegiornali, mostra quello che potrebbe definirsi uno spiaggiamento di difficoltà III, destinato a mettere duramente alla prova il senso d’altruismo dei bagnanti. Ecco qui il tremendo caso, quasi mai documentato, di un grande squalo bianco (Carcharodon carcharias) decisamente inattento, al punto di essere arrivato, suo malgrado, fino alle bianche spiagge di Capo Cod, nella ridente penisola del Massachusetts. La descrizione originaria parla di un tentativo, da parte della famelica bestia, di catturare alcuni gabbiani in prossimità della riva, i quali assai probabilmente, con l’usuale grazia di quei becco-ad-uncino, in quei momenti se la ridevano sguaiatamente poco fuori dall’inquadratura. E che momenti drammatici, carichi di pathos evidente! Si nota subito come l’approccio, ad una situazione come questa, sia decisamente più cautelativo. I primi soccorritori, il cui ruolo ufficiale di un qualche tipo è esemplificato dal vistoso walkie talkie alla cintura, piuttosto che abbrancare la coda del mostro e trascinarlo fino all’acqua, come abbiamo visto fare nei casi dei ben più amichevoli delfini, affrontano la problematica per gradi. In un primo momento, si preoccupano di lanciare generose secchiate d’acqua (da distanza di sicurezza) sopra quello che stavolta è un vero e proprio pesce, che quindi non sarebbe normalmente in grado di respirare in condizioni di completa emersione. Benché in effetti la problematica principale sia dovuta a un mero problema tecnico, ovvero l’immediata tendenza delle branchie dell’animale a collassare in assenza di un fluido, poiché l’ossigeno è pur sempre respirabile, sopra o sotto l’acqua. Va pur detto che uno squalo di questa tipologia e dimensioni, in aggiunta alla problematica citata, ha quella del dover sempre nuotare verso avanti e con la bocca aperta, pena l’insufficente afflusso d’ossigeno nei suoi polmoni. È quindi evidente come la situazione, per risolversi in maniera positiva, aveva un tempo limite davvero molto breve. Ma niente paura! Perché nel giro di pochi minuti, sulla scena sopraggiungono alcuni elementi della vicina associazione no-profit Wild Cape Cod, la cui uniforme griffata con tanto di sagoma squalesca lascia ben intendere l’esperienza operativa, nonché il desiderio di aiutare. Prima che sopraggiunga il soffocamento, il pesce cartilagineo viene legato con una lunga corda e trascinato fino alle acque basse, un ambiente da cui potrà riuscire presto a trarsi in salvo. Ma non prima di aver ricevuto l’irrinunciabile targhetta di riconoscimento, (in)delicatamente punzonata sulla stanca pinna dai suoi salvatori. Un piccolo prezzo da pagare, tutto considerato.
E i pesci di grosse dimensioni, per quanto carnivori e voraci, sono per certi versi esattamente come noi: vivaci esploratori del possibile, ricercatori di una strada per comprendere i confini di quel mondo, sommerso e ricco di pericolose vie d’uscita. Dalle quali ritornare indietro non è facile, a meno di essere davvero fortunati. Ma senza una componente di rischio, galleggerebbe ancora la soddisfazione?
– Per quanto concerne invece lo spiaggiamento delle balene, consiglio questo mio precedente articolo a margine dell’argomento