Guarda! “Non ha più la testa” – He ain’t got no head! e poi “Non c’è niente dentro!” – He aint’ got no GUTS! Neanche l’ombra di un singolo organo residuo, niente che possa permettergli di mantenersi vivido e in salute. Tutto il sangue se n’è andato via. Questo non è più “un” pesce, ma semplicemente, pesce. Da pulire oppur squamare (almeno, se si vive in quella parte dell’America settentrionale in cui si è soliti mangiare anche la pelle, ovvero gli stati del Sud). Però aspetta, ancora non mangiarlo! Perché Cthulhu mi sia testimone, a danno della logica del mondo, questa bestia eppur si muove. È quel momento della tua giornata, improvviso e significativo, in cui il corso degli eventi prende una diversa piega. A uncino, come la coda dell’umido protagonista, che sfugge a quella presa e batte rumorosamente sul tagliere. Le voci fuori campo, della cuoca e forse di suo figlio, tendono a farsi concitate. Si può comprendere la loro condizione. Perché empatia significa, nella maggior parte dei casi, riuscire ad immedesimarsi in tutto ciò che si dimostra in qualche modo simile a noi; è un istinto naturale, è impossibile da spegnere a comando. E se un pesce può nuotare, almeno in teoria, in qualche maniera è ancora parte di quel regno del sensibile cui apparteniamo pure noi. Non è una pianta, di certo non è stato mineralizzato. Si, torturatore. Hai fatto a pezzi quel che ancora è in grado di reagire? Beh, non proprio. In fondo, la sede del pensiero superiore e della memoria è sita nel cervello, quella parte che ormai giace dentro al lavandino, scollegata in modo fisico dal resto. Però considera anche questo: il pesce la sua testa non l’ha mai davvero usata a fondo. Sotto l’onde dell’oceano, splendide sirene permettendo, nessuno mai si ferma a far filosofia. Il susseguirsi degli eventi è spinto innanzi dal bisogno di nutrirsi, l’intenzione di riuscire a riprodursi, qualche volta, al massimo, la curiosità finalizzata all’autoconservazione. E cos’è in fondo la vita, se non la capacità di acquisire dall’ambiente circostante un qualche tipo di risorsa, poi metterla a frutto, in modo variabilmente sensato, per far muovere la parte muscolare di se stessi…
Un lungo pomeriggio, un freddo androne, la finestra posta in alto che interrompe la parete del museo. All’interno del quale, per un tempo fortunatamente breve, saranno esposti i reperti anatomici in possesso della Premier Exhibitions, la compagnia che organizza in vari luoghi degli Stati Uniti e da diversi anni quella controversa mostra intitolata Bodies, con un gran totale di circa 20 cadaveri provenienti dalla Cina, preservati e in diverse condizioni di apparente completezza. O forse si tratta di Body Worlds: The Cycle of Life, quell’altra macabra esposizione che si è conclusa lo scorso 21 giugno al SET di Roma, dopo aver viaggiato per buona parte dell’America e d’Europa. Simili finestre itineranti sul possibile non sono cosa nuova. C’è quell’individuo che è ormai poco più di uno scheletro, corredato dalla descrizione del sistema rigido che sostiene tutto il resto. C’è quello, invece, con i muscoli e senza la pelle, in posa plastica, il pallone sottobraccio, lo sguardo fisso eppure d’effetto. Ci sono polmoni scarnificati, crani sezionati, piccoli e bizzarri diversivi. E poi c’è sempre, verso l’uscita, un duplice lastrone trasparente, illuminato dalle lampade più fredde e cliniche dell’intero allestimento. Al suo interno, un globo grigio, con sotto il familiare susseguirsi delle vertebre ripiene di midollo. Tutto intorno, un labirinto di diramazioni, ad un’estremità grandi come radici, all’altra sempre più sottili, quasi invisibili persino in controluce. Sono i nervi che trasmettono i segnali del cervello. Una placca che denuncia la fondamentale verità: tutto QUESTO, sei tu. Umano. Rimossa la macchina che ti permette di masticare, digerire, defecare, respirare, senza gli occhi per guardare, né le dita per toccare, ciò che resta è l’unica parte davvero significativa. Quando, nel remotissimo futuro, sarà stato scoperto il modo per riuscire a trasferire la coscienza, difficilmente si potrà prescindere dal riprodurre tali astruse ramificazioni, nel modo più possibile fedele a quello originale. Ciò perché i riflessi periferici del nostro corpo, nonostante l’apparente predominio del possente centro di comando, contribuiscono a renderci quello che siamo.
E se…Immagina adesso una creatura, il cui essere è tanto semplice, il metabolismo primitivo, da non richiedere particolari afflussi di sangue ossigenato per continuare a funzionare. Addirittura talmente istintivo, nella sua esistenza, da ricorrere al cervello solamente in casi occasionali. Anzi, lascia perdere. Sbrigati, cala il coltello sul tagliere.
Da tempo immemore vorremmo pensare che la morte sia un punto di passaggio netto e definito, come nel celebre aforisma di Epicuro: “L’uomo non deve temerla, poiché dove egli esiste, lei non c’è. Quando sopraggiunge, noi cessiamo di esistere” quando in effetti, innumerevoli credi religiosi, correnti scientifiche e preconcetti acquisiti non riescono neppure a mettersi d’accordo su cosa sia, in effetti, la cessazione della vita. La scienza medica, in questo, tende ad affidarsi agli strumenti del moderno: quando determinati campi elettrici cessano di essere visibili sull’elettroencefalogramma, è allora che non potrai più tornare ciò che eri. Dunque sei dall’altra parte, senza l’ombra di alcun dubbio residuo. Eppure proprio nel campo della fisica quantistica, frutto dello stesso stile di pensiero e sperimentazione, il Dr. Schrödinger teorizzò la condizione dell’ipotetico gatto chiuso nella scatola, la cui sopravvivenza sarebbe stata condizionata dalla posizione di una particella subatomica, in qualche modo collegata al rilascio di un gas immediatamente letale. La quale, per definizione, può esistere in diversi luoghi fino all’attimo preciso della sua osservazione e che dire dunque del felino? Generazioni d’autori, filosofi e studiosi, da quel distante 1935 non hanno potuto che concordare sul fatto che fosse sia VIVO che MORTO, per ciascun momento X dell’improbabile catena degli eventi.
E persino nella realtà dei fatti storici, vi sono stati casi degni di profonda considerazione. Si dice ad esempio, da resoconti storici coévi, che le vittime della ghigliottina francese al tempo de La Révolution continuassero a muoversi per qualche momento anche dopo la separazione della testa dal corpo, scrutando con odio il proprio carnefice, aprendo e chiudendo le mani per l’effetto di uno strano riflesso residuo. È infatti il trauma, spesso, che ti uccide, molto prima della perdita di sangue e l’incapacità di continuare a rifornire di risorse i tuoi innumerevoli neuroni. Che dire, dunque, di creature troppo elementari per comprendere la loro condizione?
La seppia danzante di Hakodate è un’esperienza, oltre che per il palato, anche per la propria capacità di estraniarsi dalla situazione corrente. È questo particolare tipo di sashimi (pietanza di mare cruda) che ti portano al ristorante in una ciotola tradizionale, meri secondi dopo l’avvenuta decapitazione. Quindi, prima di consumarla, vi si versa sopra la salsa di soia, dall’alto contenuto di ioni dovuti al sale della ricetta, in grado di attivare le terminazioni nervose ancora integre dell’animale. Con l’effetto che i tentacoli prendono a muoversi in maniera incontrollata, sembrano cercare astruse vie di fuga. E si, è indubbio che non vi sia più nulla di completo in questa creatura, e che il sito del suo pensiero per così dire superiore, il suo cervello grande poco più di una fragola, si trovi ormai gettato nella spazzatura. Ma l’intero punto della questione è proprio che nessuno può davvero sapere quanta della “seppia” risiedesse in quella cosa, e quanto invece in tutto il resto della bestiolina. Probabilmente, questo va specificato, essa non può percepire l’orrore di un simile supplizio alimentare. Ma del resto, secondo la teoria maggiormente accreditata, non era mai stata davvero in grado di provare “dolore” né in effetti, di rendersi conto di alcunché. Quindi, per usare un inglesismo, for all intents and purposes – a tutti gli effetti – non si può definire più morta dell’ipotetico gatto di cui sopra.
Simili ansiogene abitudini alimentari, diffuse in buona parte dell’Estremo Oriente, avevano l’antica finalità di dimostrare la freschezza del cibo in questione, prima di acquisire, col procedere degli anni, una sorta di fascino perverso e oggettivamente alquanto crudele. Questo piatto giapponese, nello specifico, può essere visto come un adattamento dalla tradizione coreana del Sannakji, una pietanza a base di polpo tagliato a pezzi da vivo e portato in tavola così com’è, ancora in grado di muoversi e far funzionare le sue prensili ventose. Qualche volta viene addirittura usato un intero polpo giovane, completo in ogni sua parte. Si dice in effetti che il fascino di un tale pasto, per gli estimatori, sia il sentirsi in gola le estremità tentacolari che si agitano, tentando di aggrapparsi alle pareti dell’esofago umano. Proprio per questo, soltanto i principianti masticano il Sannakji prima di mandarlo giù.
E una volta che si entra con la mente in questo schema delle cose decisamente contro-intuitivo, in cui il cibo da portare in tavola non è davvero “vivente” neanche se chiama il tuo nome, né degno di maggiore considerazione che la legna da ardere o la benzina immessa dentro ad un veicolo, non c’è davvero limite alle imprese culinarie che si possono compiere al servizio di questa particolare tradizione, così apparentemente insolita ai nostri occhi che la percepiscono dall’altro lato della Terra. Su YouTube campeggia, ad esempio, un altro sconvolgente video proveniente da un ristorante di Tokyo, durante il quale alcuni avventori si giovano di una cena a base di rospo delle canne (Rhinella marina) portato in tavola completo di un’invitante fetta di limone, ma lasciato integro nella sua parte frontale, affinché possa guardare negli occhi colui/lei che si appresta a divorarlo. Piccolo dettaglio: condizionato dal metabolismo estremamente lento che caratterizza la maggior parte dei rettili, la creatura letteralmente tagliata a metà è ancora perfettamente in grado di muoversi, e “nuota” per così dire, in mezzo al mucchio delle sue stesse interiora. Una scena difficile da dimenticare. Davvero, viene da chiedersi se esista un modo migliore di stimolare l’appetito! Volendo citare, di contrasto, una prassi culinaria proveniente invece dalla Cina, forse la più attinente resta quella del cosiddetto pesce Ying e Yang (anche detto vivo-e-morto) il cui corpo viene fritto, mentre la testa protetta attentamente all’interno di un panno umido, affinché l’animale possa continuare ad aprire e chiudere la sua bocca per tutto il tempo necessario a fagocitarlo. Anche di questa improbabile ed orribile sequenza, inutile dirlo, abbiamo ampia documentazione sul web.
A questo punto direi che il mistero è diventato chiaro: il pesce sventrato e decapitato del duo madre-figlio americano d’apertura, in effetti altro non stava facendo altro che reagire in modo automatico a degli ioni residui, presenti nel sale che assai probabilmente si trovava nel canovaccio usato dalla donna. Altrettanto degno di nota è il fatto che nella seconda parte del video venga mostrato come anche la testa dell’animale, ormai separata dal corpo e gettata nel lavandino, continui a muovere le branchie e la bocca, benché in modo appena percettibile dall’occhio umano. Un mero riflesso post-mortem, poco ma sicuro. Già la coscienza era svanita, mentre l’anima di questo abitatore del profondo, immortale nello spirito se non nelle sue pinne, faceva il suo ritorno alla città sommersa di Y’ha-nthlei.