È una vecchia regola non scritta del mondo della scienza il fatto che chiunque descriva per primo/a, in una sua pubblicazione, le caratteristiche di una specie animale o vegetale, riceva l’indubbio onore di scegliere il suo appellativo. Così abbiamo, fin dall’inizio dall’epoca delle prime sperimentazioni, curiose creature con il nome proprio di persone (quale miglior modo di aspirare all’immortalità?) Piuttosto che lievi variazioni lessicali dei termini precedentemente usati per i parenti biologici più prossimi, perché non tutti hanno una grande fantasia, né voglia di mettersi in mostra per il proprio gusto personale. Ma l’approccio più accattivante usato per denominare una creatura, indubbiamente, resta quello che consiste nel cristallizzare l’emozione provata nel momento in cui l’esponente della comunità scientifica se l’è trovata innanzi per la prima volta: così nascono binomi quali “il geco diabolico”, “la scimmia ragno” oppure “la farfalla illusoria” che generalmente riescono a colpire subito la fantasia dell’uomo della strada. E forse proprio a margine di tale considerazione, tanto maggiormente rilevante in quest’epoca di comunicazioni digitali, la scienziata Stephanie Bush, ha deciso di associare la sua occupazione principale di ricerca in questi ultimi mesi a un concetto talmente semplice e diretto che, in effetti, a molti sarebbe sembrato buffo nella sua spontaneità. Così giunge, per la prima volta sotto i nostri occhi, la forma fluttuante dell’Opisthoteuthis Adorabilis, leggera variazione di una vecchia conoscenza di molti pescatori della California, che spesso di simili polipetti a ombrello ne trovavano qualcuno casualmente nelle reti. “Non è adorabile?” Scherza lei, tra un segmento e l’altro del video, mentre mostra l’esemplare sezionato sotto formalina. Si, davvero l’opera dello scienziato si perpetra tramite sentieri differenti. E ciò che per qualcuno appare degno di un’occhiata o poco più, all’interno dei laboratori può essere mostrato al mondo in luce nuova.
Stiamo parlando, per intenderci, di un vicino parente del cosiddetto flapjack devilfish, una creatura della foce del Columbia River talmente bizzarra, nonché invendibile per scopi alimentari nella sua piccolezza (misura circa 20 cm) che colloquialmente era stata sempre associata all’arbitraria categoria dei cosiddetti “pesci del diavolo” concettualmente associata a certe specie di razze, polpi, rane pescatrici e addirittura la balena grigia dai fanoni, astuta filtratrice di Km di plankton galleggiante. Non chiedetemi perché! Mentre la dicitura flapjack proveninva, nel suo caso, da un termine gergale usato per riferirsi al semplicissimo pancake, il dolce statunitense simile a una crepe che tante volte abbiamo visto nelle sit-com degli anni ’90, accompagnato da una generosa dose di sciroppo d’acero d’importazione canadese. Questo perché la delicata creaturina in questione, una volta trascinata a forza via dal fondale, generalmente giungeva in superficie già defunta, spianata come una frittella, striata dai segni della rete e con gli occhi sporgenti, simili ad antenne degli alieni dei pulp magazine. Soltanto in tempi recenti, con il miglioramento e la diffusione delle tecniche legate all’immersione individuale, assieme al fortunato caso di esponenti del Genere che si spingessero in relativa prossimità della riva continentale dai 300 e passa metri sotto la superficie del loro habitat naturale, sono iniziati degli avvistamenti che ci hanno fatto conoscere il vero, grazioso aspetto di queste creature. Così, in modo graduale, hanno iniziato a sovrapporsi i soprannomi: dal polpo di Pac-Man, per la sua vaga somiglianza con i fantasmini del gioco in questione, a “Dumbo” visto l’aspetto delle sue due vistose pinne sopra il pallio (corpo principale) collocate giusto dietro agli occhi, così apparentemente simili ad orecchie da cartone animato. Che per di più, durante gli spostamenti, vengono agitate dall’animale, per bilanciarsi e dirigere la spinta offerta dalla sua membrana principale, in un moto non dissimile da quello di una medusa, con due piccole bandiere sulla testa. Adorabilis, nevvero?
Questa tipologia di creature abissali, tra i più piccoli cefalopodi al mondo e indubbiamente i più compressi lungo l’asse longitudinale, appartengono al subordine dei cirrati, ovvero degli esseri tentacolati che presentano per ciascuna ventosa due preminenze filiformi e articolate, simili alle ciglia umane. Queste ultime, il cui impiego può variare a seconda della specie, nel caso degli Opisthoteuthis della California servirebbe, nell’opinione di alcuni scienziati, a generare una corrente nell’acqua circostante, con la finalità d’instradare le prede più piccole del polpo verso il suo duro becco. Che comunque quasi mai viene impiegato per masticare o fare a pezzi la preda, che piuttosto, in genere, è risucchiata tutta intera: piccoli crostacei, isopodi, gamberetti, persino i vermi del fondale policheti, simili a gustosi spaghettoni abissali. La classe tipologica di questi polpi, nei fatti, rappresenta un caso di adattamento evolutivo estremamente significativo. Benché si tratti di creature piuttosto piccole anche nel contesto dei loro ambienti abissali, e quindi potenziali prede di qualunque predatore, questi animali non presentano altri mezzi difensivi che un sottile guscio interno, tutt’altro che sufficiente a proteggerli da qualsivoglia attacco. Hanno inoltre perso l’utilizzo della sacca d’inchiostro, che del resto a simili profondità non servirebbe quasi a nulla. Ma la loro ottimizzazione non si ferma qui: sono infatti privi di ghiandola salivare, di una radula (l’organo dentato usato dai molluschi per raschiare il fondale) hanno uno solo condotto dalle ovarie, il loro sifone per smuovere l’acqua si è atrofizzato al punto che nel nuovo può contribuire soltanto in minima parte alla spinta offerta dalla membrana tra i tentacoli. Tra questi, inoltre, ve ne sono due posteriori più grandi e pronunciati, che tuttavia non sembrano essere impiegati in alcun modo significativo. Per queste ed altre caratteristiche gli Opisthoteuthis vengono definite creature degenerate, ovvero che hanno perso una parte rilevante delle loro caratteristiche originarie, sfruttando al massimo i vantaggi di un habitat che gli permette tranquillamente di prosperare. Il come, ad oggi, non è pienamente chiaro: benché la femmina del polpo Dumbo, per ogni stagione di accoppiamento, possa giungere a deporre tra le 225 e le 475 uova, va pur detto che soltanto in parte queste riusciranno ad esser fecondate. E soprattutto che, incredibilmente, per schiudersi giungono a richiedere diversi anni, ciò principalmente in funzione delle basse temperature e il metabolismo rallentato alle profondità estreme in cui vivono queste creature. La Bush, nel suo video, parla di almeno 24 mesi da attendere prima che le uova, deposte a sorpresa da uno degli esemplari di Adorabilis catturati dall’acquario di Monterey, possano iniziare a mostrare i primi segni di vita. Che ottima occasione a lungo termine, per portare l’attenzione del pubblico su queste insolite creature!
Lo studio approfondito dei polpi Dumbo, lungi dall’essere motivato esclusivamente dalla loro estetica graziosa, potrebbe fare molto per migliorare la nostra conoscenza dell’ambiente oceanico del profondo. Sono ben poche le creature marine che si siano adattate fino a un tale punto ad un’ambiente dalle pressioni estreme, le temperature bassissime e la quasi totale oscurità (ragione, per inciso, di quel paio di grandi occhioni da Pokèmon giapponese). Questa classe di animali, soprattutto nelle sue accezioni più pelagiche e remote, come i Grimpoteuthis dell’Oceano Pacifico, resta grandemente ignota agli studiosi, mentre persino l’esperimento della schiusa delle uova ad opera della Bush potrebbe gettare nuova luce sul ciclo vitale di un simile gruppo di molluschi, il cui aspetto da neonati, nei fatti, non è mai stato documentato.
Ciò senza entrare nel merito di chi voglia far conoscere al mondo qualcosa di bello, la grazia innata di un mondo nascosto agli occhi degli uomini di superficie. Nel 1965 è stato stimato, da uno studioso di nome Pereyra, che in un operazione di pesca con le reti a traino si finisca per catturare accidentalmente, in media, uno di questi polipi ogni ora. Quasi sempre un maschio, secondo alcuni perché la femmina, per il bisogno di deporre e curare le sue uova, abiterebbe prevalentemente le regioni rocciose, dove questo tipo di attività non può essere praticata. Queste creature, indubbiamente prolifiche, presentano tuttavia il problema della lunga gestazione, probabilmente accompagnata ad un ciclo vitale relativamente lungo, entrambe caratteristiche che li rendono particolarmente vulnerabili ad un processo diffuso di uccisione accidentale. Se un domani queste “adorabili” creature dovessero sparire dai fondali, la maggior parte di noi nemmeno se ne accorgerebbe. Ma grazie a studi come quello portato avanti dalla scienziata californiana, almeno sapremo ciò che abbiamo perso. Direi che viste le circostanze, è giusto così.