Il pugno d’aria che sconquassa gli aeroporti

Microburst Event

Questa scena piuttosto impressionante è stata registrata presso il piccolo aeroporto dell’Accademia delle Forze Aeree del Colorado ad Aprile dell’anno scorso, quando una serie di coincidenze veramente sfortunate hanno portato un certo numero di cadetti, assieme ad alcuni istruttori, a decollare nel bel mezzo di una situazione quasi indescrivibile. Immaginatevi sul sedile di comando di un aeroplanino Piper PA-18 Super Cub, dal peso a vuoto di 446 Kg, con la cognizione, vagamente acquisita durante il briefing di un volo d’addestramento, che “sussiste il potenziale di un microburst.” Sicuramente avreste già riconosciuto, in tali circostanze, il nome più temuto da chiunque abbia mai impugnato una cloche. Ma poiché da queste parti, essenzialmente, una tale atmosfera la si respira tutti i giorni, la scelta diventa tra l’accettare il rischio di essere trascinati dagli eventi, oppure non volare mai. Possibilmente, non sperimentare l’effetto del disastro sulla propria stessa pelle! Come invece capitava, così: durante la preparazione di un’escursione con alcuni alianti, con i velivoli a motore già pronti sulla pista, il comandante della base ha improvvisamente realizzato che si era ormai giunti al punto di non ritorno. Nel giro di cinque minuti, da una situazione di calma apparente, si era passati a un vento di 55 nodi (100 Km/h ca.) più che sufficiente per far staccare da terra un aeroplanino come questi anche da fermo, senza alcun pilota a bordo. E quindi, prima che fosse troppo tardi, ha dato l’ordine di decollare. Wow!
È largamente nota alle ricerche dei linguisti, come pure all’uomo della strada, la questione di alcune lingue degli Inuit e Yupik del Polo Nord che avrebbero “parecchi nomi per la neve e per il ghiaccio”. A seconda che si tratti di una formazione solida, piuttosto che vaporosa, oppure troppo morbida e davvero prossima allo scioglimento; quest’ultima particolare varietà, quella più potenzialmente perigliosa fra tutte e 99 quelle che classificherebbero secondo alcuni studiosi, un numero per altri esagerato. Ma se pure si potesse confermare l’esistenza di 50, 60 termini e tipologie diverse, non ci sarebbe proprio nulla di strano in tutto ciò: chi vive a stretto contatto con un elemento naturale, prima o poi, giunge alla conclusione che il comprendere e saper identificare i suoi diversi stati transitori può pesare fortemente sulla sua sopravvivenza. Strano invece come, nella quotidianità di chi osserva il mondo dal microscopio oggettivo della scienza, per connotare determinati stati dell’ambiente basti talvolta un valore numerico d’accompagnamento, come quelli delle scale di misurazione per i terremoti o le tempeste. Tranne quando tale approccio, nella sua estrema semplicità, non è più davvero sufficiente: permangono pur sempre, per ciascun livello distruttivo, le fondamentali distinzioni tra le cause scatenanti. Pensiamo, ad esempio, al caso spesso tragico delle tempeste americane. Un paese così vasto e spesso pianeggiante, soprattutto nella sua parte interna che si estende dalle Rocky Mountains al fiume Mississipi, che qualsiasi anomalia meteorologica non ha un semplice esito, con qualche pioggia, tuono o fulmine schioccante. Ma piuttosto s’ingigantisce silenziosamente, percorrendo tali spazi, finché palesandosi non basta a far tremare le fondamenta stesse della società civile.
Come nel caso delle lingue nordiche con gli stati solidi dell’acqua, c’è infatti una singolare varietà di espressioni della lingua inglese, anche di uso corrente, per definire e connotare simili disastri in fieri, determinati da questioni totalmente al di fuori del controllo umano, a esempio: supercell (un fronte mesociclonico) nor’easter (il vento dell’Atlantico che talvolta colpisce con furia il nord-est degli Stati) il panhandle hook (l’effetto domino di un particolare gruppo di tempeste che si danno il la a vicenda, attraverso un processo che noi definiamo ciclogenesi) e poi, naturalmente lui, il tornado (che quando si trova sopra l’acqua, viene invece detto waterspout). La temutissima colonna d’aria roteante, generatasi alla base di un cumulonembo, tanto spesso visibile all’occhio umano grazie alla condensazione delle molecole d’acqua contenute al suo interno; la quale, forse proprio in funzione di questa sua forma immediatamente riconoscibile, oltre che ai danni spropositati che risulta in grado di causare, è entrata a far parte del bagaglio delle conoscenze globalizzate, non venendo in alcun caso definito con il termine di “semplice” tempesta. Tutti riconoscono al primo sguardo quella particolare manifestazione della furia del cielo, in grado persino di deformare la struttura di sostegno dei più grandi grattacieli. Ma che dire invece di questa particolare alternativa, che condivide  il carattere improvviso e localizzato, nonché la crudeltà del tornado, eppure che ben pochi fuori dagli Stati Uniti chiamano per nome: tanto che, in effetti, persino qui da noi, dobbiamo usare l’espressione molto più generica di “raffica discendente” oppure rassegnarci all’inglesismo alquanto vago, microburst…Ed ecco, esattamente, che cos’è: il terrore degli aerei, siano questi in volo oppure come in questo caso, con le ruote appoggiate saldamente a terra. Ma in assenza di un qualsiasi hangar, dannazione!

Microburst Event 2
“Come l’acqua di un rubinetto che discende nel lavandino, dilagando in senso orizzontale. E un piccolo aeroplano proprio in mezzo al getto.”

Non si può davvero parlare di questo particolare evento meteorologico senza citare il terribile disastro del volo 191 delle Delta Air Lines, qui rappresentato in una ricostruzione dello Smithsonian Channel, che tanto fece per spronare l’adozione di nuovi mezzi preventivi e approcci alla risoluzione del problema. Si trattò di un caso davvero eclatante, che diede il via nel 1985 alla più lunga investigazione con successivo processo nella storia dell’aviazione americana. Semplicemente non fu chiaro, per parecchi anni, come fosse stato possibile il verificarsi di una simile tragedia. Il jet di linea coinvolto, un affidabile Lockheed L-1011 TriStar, era infatti impegnato nell’approccio finale presso la pista 17L dell’aeroporto Dallas/Fort Worth International alle 18:00 del 2 Agosto, quando all’improvviso, secondo quanto comunicato via radio, il comandante notò “alcuni fulmini che scaturivano da una nube.” Il comandante Edward Connors era sempre stato, secondo quanto viene ricordato, un pilota estremamente cauto, al punto che in presenza di un potenziale rischio meteo sceglieva sempre il tragitto più lungo, con un’esemplare dimostrazione di prudenza che andava talvolta a discapito del guadagno della compagnia. Anche il suo secondo di quel tragico incidente, Rudolph Price, aveva parecchie ore di volo ed un curriculum davvero ineccepibile. L’intera questione appare dunque tanto maggiormente impressionante nella sua inevitabilità: all’improvviso, l’aereo si ritrova in un fortissimo vortice discendente, sperimentando l’effetto temutissimo del wind shearing. Che consiste, in aeronautica, nel momento in cui un aeroplano in fase d’atterraggio attraversa un’area affetta da improvvise variazioni del verso e della forza del vento, che per di più, in questo caso, prese a soffiare da dietro e verso il basso. Una combinazione, per citare la voce fuori campo di una simile ricostruzione televisiva: “Assolutamente letale!” Alle 18:05 e 39 secondi, la situazione si presenta all’improvviso disperata. Il capitano tenta di aumentare la potenza, mentre l’aereo discende ormai alla velocità di 15 metri al secondo quando, nel giro di qualche attimo, si trova abbastanza in basso da colpire un lampione della strada innanzi all’aeroporto, uccidendo sul colpo uno sfortunato automobilista che passava di lì. Per poi proseguire la sua corsa impattando fragorosamente contro un grande serbatoio d’acqua, ben lontano dalla pista a cui puntava, spezzandosi a metà. Delle 152 persone a bordo, 136 persero la vita, inclusi gli 11 membri dell’equipaggio, nonostante l’impegno e le capacità del personale di soccorso, che in quel caso diede una dimostrazione di notevole efficienza.

Microburst Event 3
Quando la calata di un microburst colpisce direttamente un aeroporto, i danni sono sempre significativi. In questo caso registrato nel 2006 presso Tulsa, in Oklahoma, è possibile osservare la facilità con cui il vento sposta alcuni bimotori dalla stazza decisamente significativa. A quanto spiega la descrizione del video,  in quei drammatici minuti, le auto nel parcheggio furono letteralmente ribaltate.

Il disastro del volo 191 è una contingenza che colpì profondamente l’opinione pubblica statunitense, spronando le compagnie aeree a grandi investimenti nella ricerca e sviluppo, soprattutto nel campo dei radar di bordo usati per rilevare le più insidiose anomalie meteorologiche o altri rischi potenziali. Nonostante questo, il fenomeno del microburst è ancora largamente impossibile da prevedere. Ne esistono sostanzialmente di due tipi: bagnato oppure asciutto. Nel primo caso, un’improvvisa e forte pioggia ad alta quota genera un flusso discendente d’aria, che gradualmente accelera fino all’impatto col terreno, diffondendosi quindi in modo orizzontale. I danni causati da questo tipo di evento sono riconoscibili rispetto a quelli di un tornado, perché piuttosto che essere il frutto di una rotazione centrifuga, dimostrano un’orientamento comune; gli alberi, ad esempio, cadono quasi tutti nella stessa direzione. Ma l’alternativa forse più insidiosa, messa su pellicola nel video di apertura in Colorado, è quella di un microburst asciutto, durante il quale l’acqua delle precipitazioni evapora istantaneamente, al contatto con gli strati d’aria più calda sottostanti. Come conseguenza di ciò quindi, questi ultimi sperimentano un calo immediato di parecchi gradi, precipitando rovinosamente verso il suolo. È stato stimato che lo spostamento orizzontale del vento che ne deriva possa raggiungere la velocità di 75 m/s (270 Km/h) più che sufficiente a far decollare gli aerei da fermi, o scoperchiare i tetti di un’intera cittadina. E l’uomo, il pilota e il comandante, dinnanzi a tutto questo, cosa mai potrebbe fare? Se non dare un nome a tale situazione, onde meglio maledirla, agitando verso l’alto il proprio pungo contrapposto…

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