Gara di trabucchi per l’assedio che non c’è

Trebuchet competition

1453: per più di mille anni, la città era esistita. Le sue strade rumorose, i mercati carichi di cibo e merci e regalìe lontane. Dal suo trono di avorio ingioiellato nel grande palazzo sacro, l’Imperatore aveva fatto costruire templi, statue dinastiche, piazze munifiche e giardini sconfinati. Lo splendore della saggezza, ormai perduto al mondo della civilizzazione, ancora resisteva dietro a quelle porte di Selymbra, decorate dall’immagine dell’aquila a due teste incoronata, con la lunga coda selvaggiamente simmetrica e gli artigli tesi verso un invisibile nemico. Più e più volte, nel corso dei secoli, il barbarismo che imperversava da un lato all’altro del mondo conosciuto aveva tentato di penetrare in quel sacrario antico, attratto dai miti di ricchezze inconoscibili e l’offesa del concetto stesso di un qualsivoglia ordine costituito che potesse ancora esistere, faticosamente insistere, pesando sopra un tempo in cui le orde si inseguivano con spada, lancia e frecce sanguinarie. Si dice: “Nessun muro può essere più forte dei soldati che hanno ricevuto il compito di difenderlo” e ciò costituisce, in effetti, un inno verso le meraviglie dell’ingegno umano, il riconoscimento che tutto è possibile quando una mente fervida si applica nel perseguire l’obiettivo, per quanto irto sia il sentiero da seguire. E tale affermazione fu più volte riconfermata negli assedi dell’intero mondo antico, così come altrettanto valida sarebbe rimasta per tutta l’epoca di un lungo e cupo tempo medievale. Ma chi, davvero, era presente alla difesa di un luogo come l’intramontabile Bisanzio, quel sito che i romani presero sotto l’egida del loro imperium, rinominandola per farne un centro commerciale prima, una capitale decentrata in seguito, e nelle ultime battute, tristemente, l’ultimo residuo baluardo di un’intera civiltà? I soldati fisicamente armati sulle fortificazioni costruite da Teodosio, sul progetto leggendario del prefetto pretoriano Antemio? Costantino XI stesso, coi suoi ufficiali e servitori, l’ultimo rappresentante di un’intera linea ininterrotta dal quarto secolo al quattordicesimo di stasi, crescita interiore, studio e riflessione sulle arti umane? Oppure la somma di entrambi queste due cose, presente e passato, saldamente uniti per difendere tutto quello che era, la montagna dei ricordi, le immisurabili opportunità per il futuro…Perché quando venne l’ora, lungamente attesa da quegli altri, di scagliare pietre contro le alte mura, si scoprì che non importava quanto fosse grande, possente o spaventosa la catapulta o l’onagro da assedio a disposizione, i più pesanti macigni rimbalzavano contro i bastioni, con un suono sordo e nessun danno duraturo a far da testimone per il tentativo. Non si poteva praticare una breccia nelle mura di Costantinopoli! L’unico modo di colpirla, a conti fatti, era tirare sopra ed oltre quelle merlature. Oltre il baluardo e dritto verso il cuore di un’invalicabile testuggine, così come lo erano state, tanti anni prima, quelle fatte con gli scudi dei conquistatori provenienti da occidente. Ed era un bel problema da risolvere, questo, che per molti anni avrebbe eluso i cercatori ingegneristici di un metodo per prevalere, i genieri, i minatori, tutti coloro che l’esercito in marcia del nascente impero Ottomano manteneva ben nutriti ed al sicuro, senza colpo ferire fino a che…Non restava altra scelta, che affidarsi ai loro metodi e saperi. Così giunse dal Corno d’Oro il temuto sultano Mehmed II, con i suoi giannizzeri ed alcuni prototipi di una macchina spaventosa, costruita in gran segreto nelle officine della Tracia, ad Edirne. Era un oggetto strano e misterioso, eppure stranamente carico di aspettative.
Il trabucco: il terrore. La semplice forza gravitazionale, che dovrebbe attrarre unicamente verso il basso, trasformata ed asservita al desiderio dei conquistatori, con lo scopo di trasmettere un particolare movimento su di un braccio, lungo ad una sola estremità, per meglio moltiplicare la rapidità del movimento. Faticosamente armato, alzando con pulegge o corde il contrappeso inchiavardato, poi bloccato alla precisa altezza necessaria. Segue un attimo di pausa, giusto il tempo di guardare verso l’odiato nemico, rivolgergli maledizioni e chiedere al destino la fortuna di raggiungere il bersaglio; quindi, trattenendo il fiato, si tira via il sistema di bloccaggio, con un gran colpo sopra il perno trasversale e…Ciò che era immobile, ritorna fluido, riconferma la ragione della sua esistenza in un semplice gesto, come quello di chi lancia un sasso sopra un fiume. Ma pesante, questa volta, 100, 160 Kg di smussata ed inquietante forza distruttiva. Se si pensa ad un razzo spaziale dell’epoca dei progetti Apollo, è significativo osservare come una buona parte della sua massa, i primi due o tre stadi del giganteggiante razzo Saturno V, servisse unicamente a trasportarlo fin oltre gli starti superiori dell’atmosfera. Una percentuale minima dell’intero viaggio compiuto fino alla Luna, compiuto da un modulo comparativamente molto più ridotto. E così erano gli assedi medievali, quando condotti tramite l’impiego dei trabucchi: treni di bagagli, bovini per trainarli, tonnellate di legna da assemblare sulla base di un progetto attentamente disegnato. Tutto in nome di un piccolo sasso e i suoi compagni, che potessero colpire gli obiettivi chiave dietro mura impenetrabili, arrecando un danno sufficiente per costringere alla resa gli abitanti del castello. Questa evoluzione tarda delle tradizionali macchine da assedio a torsione dei romani, basata su un concetto fisico al tempo stesso molto più semplice e gravoso da mettere in opera, iniziò a palesarsi presso i campi di battaglia dell’area mediterranea attorno al dodicesimo secolo, come attestato da diversi testi e manoscritti sia cristiani che musulmani. Esiste tuttavia la prova che versioni più primitive della stessa macchina fossero già in uso in Cina, fin dall’epoca arcaica delle Primavere ed Autunni (750-454 a.C.) quando i seguaci della disciplina del Mohismo e della sacra matematica, con intento chiaramente filosofico, aiutavano i signori della guerra costruendo ogni sorta di complesso implemento distruttivo. A quell’epoca, il trabucco più utilizzato era del tipo a trazione, sarebbe a dire fatto funzionare con la pura forza muscolare, da una o più persone, con l’obiettivo di scagliare il più lontano possibile i proiettili a disposizione. Simili armi trovavano ottimo impiego in campo navale, e trovarono successive corrispondenze anche nel remoto passato d’Occidente. L’imperatore bizantino Niceforo II Foca (regno: 963-969 d.C.) ad esempio, fece impiegare dalle sue truppe contro gli emirati di Aleppo un dispositivo simil-trabucco trasportato a spalla, in grado di scagliare massi per disturbare le formazioni nemiche. Ad ogni azione, corrisponde una reazione…

French Couillard
Il couillard era una versione francese del trabucco, più maneggevole, costruita con una significativa differenza: la presenza di due contrappesi disposti ai lati di una singola colonna centrale, invece che il contrario. Il suo nome deriva da un’antica espressione idiomatica per riferirsi ai genitali maschili (per ovvie ragioni).

Ma il meglio doveva ancora venire: attraverso l’intera epoca immediatamente successiva delle tre crociate in terra santa, nulla determinò più vittorie e sconfitte che il calcolo preciso di un astuto studioso, tradotto ingegneristicamente nel volo preciso di uno strano uccello, tondo e smussato, verso l’occhio metaforico del suo nemico (punto debole per eccellenza). Abbiamo la conferma storiografica, ad opera dello scrittore coévo Mardi ibn Ali al-Tarsusi, del fatto che Saladino impiegasse con profitto un’ampia varietà di trabucchi e catapulte, che furono fondamentali nel successo delle sue campagne in Egitto e in Siria, culminanti con la presa di Damasco (1174). Altrettanto celebre fu l’assedio di Acri del 1191, scontro che aprì il conflitto sanguinoso della terza crociata, durante il quale i re cristiani d’Oriente, guidati da Filippo II e Riccardo Cuor di Leone poterono contare sull’aiuto di almeno due di queste macchine, denominate rispettivamente “Il lanciatore delle pietre di Dio” e “Il cattivo vicino”, quasi a precorrere l’abitudine moderna, particolarmente attestata durante l’intero corso delle due guerre mondiali, di dare un nome ai più temibili cannoni al servizio di un’armata. Il più grande trabucco storico, si ritiene, dovrebbe essere stato il Warwolf (“Lupo di guerra”) fatto costruire da Edoardo I d’Inghilterra detto il martello di Scozia, con lo specifico obiettivo di prendere il castello di Stirling, nel 1304. L’arma venne costruita in un periodo di almeno tre mesi da cinque carpentieri e 49 aiutanti e, quando smontata, poteva facilmente riempire 40 carri da trasporto. Si dice che il nemico, vedendola, fosse pronto già ad arrendersi, ma che lo spietato sovrano attaccante avesse risposto: “Non meritate la mia grazia, dovrete cedere alla mia volontà.”  Procedendo con un bombardamento di pietre da 300 pounds (136 Kg ca.) ciascuna, che distrussero un’intera sezione delle mura esterne. L’episodio fu la causa scatenante ed immediata della battaglia di Bannockburn, nel corso della quale Edoardo II, erede al trono, affrontò gli scozzesi con un’esercito di due volte più grande, ma venne sconfitto. Sono strane le casualità del tempo e della storia, come il tragitto disegnato da una pietra in volo che non sia stata adeguatamente resa sferoidale.

Warwick Trebuchet
Il più grande trabucco ancora funzionante, ed invero forse della storia, è quello costruito come attrazione turistica presso il castello di Warwick nel Warwickshire, con l’assistenza degli specialisti provenienti dal museo medievale della Danimarca, il Middelaldercentret. Pesa 22 tonnellate ed impiega un contrappeso da ben 5. Può scagliare una pietra dell’insignificante peso di 15 Kg ad una velocità di oltre 250 Km/h!

Che la guerra antica possa essere divertente, è un punto fermo degli studi sperimentali finalizzati alla ricerca, nonché di una buona parte dei moderni media d’intrattenimento. Poca importa delle motivazioni remote, o degli stenti e sofferenze, che portarono le truppe assedianti al concepimento di un metodo per abbreviare il più possibile la spargimento di sangue dovuto ad un assedio: lanciare quelle pietre, verso un obiettivo attentamente determinato per essere al tempo stesso raggiungibile, ma arduo da centrare, costituisce uno spasso e una sfida tecnica e mentale niente affatto indifferente. Considerazioni di questo tipo, probabilmente, hanno condotto alla messa in atto della sfida in apertura, messa in scena come momento culmine di un corso universitario di fisica (davvero, gli americani amano le dimostrazioni pratiche!) Nel quale ciascun partecipante ha messo in opera la sua interpretazione del dispositivo più temuto fino all’invenzione dei cannoni, chi interpretandolo in senso letterale, chi invece costruendo strani gizmos rotativi, articolati marchingegni che potevano funzionare solo in una simile e ridotta scala. Forse l’aspetto più interessante dell’intera sequenza resta il modo in cui alcuni degli spettatori, fra cui forse il professore stesso, non si facciano nessun problema a posizionarsi a pochi metri dal bersaglio, fiduciosi nell’abilità dell’assediante di turno, nonostante l’estetica un po’ raccogliticcia delle catapulte. I trabucchi, parimenti, sono un dispositivo molto amato nelle varie fiere rinascimentali statunitensi e in numerosi eventi para-sportivi, primariamente per la relativa sicurezza della loro costruzione funzionale: se i partecipanti, ad esempio, dell’annuale fiera di lancio delle zucche della contea del Sussex nel Delaware dovessero affidarsi ad un onagro realizzato secondo il progetto precedente, ovvero basato sul tiraggio forzato di una lunga asta lignea verso il basso e attraverso l’impiego di una corda, andrebbero incontro a rischi non indifferenti. L’inappropriata costruzione di un simile dispositivo, come del resto vale anche per le baliste della stessa epoca (balestre sovradimensionate) potrebbe portare all’esplosione letterale dell’intera struttura, con gravosa dispersione di affilate e micidiali schegge. Mentre un trabucco che si rompe, generalmente, cade quietamente a terra. Basta non trovarcisi sotto in quel momento.
La presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani, avvenuta esattamente 261 anni dopo il termine della terza crociata, fu la dimostrazione che il mondo dell’Oriente imperiale non sarebbe stato quietamente ad aspettare la prossima mossa dei suoi vecchi nemici europei. Diversamente da quanto avvenuto in Cina all’altro capo del mondo, dove le orde di Genghis Khan ebbero a scagliare le proprie pietre volanti contro la dinastia dei Song, finendo, dopo la presa di ben altre muraglie, per diventare anche loro parte di un sistema costituito e stanziale, qui c’era lo scontro tra due civiltà altrettanto complesse, fiere delle proprie tradizioni e che occupavano lo stesso spazio concettuale, nonché geografico, per reciproca fame di conquista.
E se pure i sultani dopo Mehmed II presero a farsi chiamare Kayser-i Rum, ovvero i Cesari di Roma, non sopraggiunse mai quel successivo periodo d’integrazione e sincretismo, sia culturale che religioso, che riappacificò le genti dell’Asia più remota. Tranne forse che in un luogo, a Costantinopoli: dentro il tempio dell’antica Sophia (la Saggezza) trasformato dai conquistatori in una splendida moschea. Ma tutt’altro che stravolto rovinato, nel suo senso più profondo e duraturo! Se soltanto fosse l’arte, a definire il corso e il senso della storia…

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