In un mondo all’incontrario, ciascuno di noi nascerebbe con già iscritto nel suo codice genetico l’aspetto che considera ideale. Piuttosto che dover convivere con l’ansia, e modificare i ritmi della propria vita, sulla base di quel desiderio apparentemente futile ma totalmente innato, l’anèlito profondo ad apparire affascinanti, saremmo sempre come truccati, all’ora del risveglio. I capelli perfettamente a posto, il rossore delle labbra pari a quello di una superba ciliegia appesa all’albero della cuccagna. Ma poiché il mondo invertito e quello perfetto, nel confronto dei reciproci bisogni, non si trovano in cantoni paralleli o sui pioli della stessa scala, da un tale ipotesi trarrebbe origine la tale problematica: il bisogno, ad ogni fine di giornata, d’applicare su stessi un metodo d’imbruttimento (per lo meno, percepito) e ritornare ad uno stato di apparenza inadeguata. Così YouTube, con i suoi ricchi archivi di ragazze intente ad applicarsi ombretto, due dita di mascara e make-up assortito innanzi all’obiettivo della telecamera, mostrando tecniche acquisite con la pratica e l’impegno, pullulerebbe invece della soluzione contrapposta: loro che immediatamente concentrate, come guidate da una forza e una pulsione senza un senso, tenterebbero di ritornare un po’ “normali”. Scene esattamente come questa, realizzata per gioco da una ragazza coreana e circolata su scala globale tramite i soliti canali imponderabili dei media virali, in cui lei si toglie il trucco laboriosamente, da una sola parte del suo volto e tutto intorno all’occhio destro. Bagna una salvietta e la strofina, in senso circolare e dunque longitudinale, scosta i suoi capelli e poi la passa sulla fronte. Stranamente, a un certo punto, quella cosa la preme con forza sulla palpebra e poi lì la lascia, per 5, 10, 15 secondi. Trascorso un tale tempo, scopre ciò che resta del suo volto e per un attimo, un secondo solo, lo spettatore resta senza fiato: l’occhio destro, praticamente, è scomparso. Ciò non significa, del resto, che la damigella in questione tale bulbo ce l’avesse soltanto dipinto, o di vetro e cose simili. Si tratta soltanto della cessazione di una sorta di effetto speciale, con l’enfasi aggiunta del fatto che l’altra parte del suo volto, volutamente risparmiata dal liquido struccante/il sapone/la trielina (o quel che è) resta esattamente come prima: con una proporzione occhi-naso-bocca che ci appare estremamente naturale. Pure troppo, soprattutto se si pensa che in effetti non lo è in alcuna etnia, tranne quella plasticosa delle bambole di Barbie! E tanto meno per un viso dalla provenienza asiatica, che da prassi logica dovrebbe presentare determinate caratteristiche somatiche, tra cui quelli che tanto prosaicamente, eppur con innegabile efficienza, il mondo definisce gli occhi a mandorla, ovvero sottili. E che un recente trend, sempre più diffuse nella triade più discussa dei paesi dell’Estremo Oriente (Cina-Corea-Giappone) tende a considerare evidentemente indesiderati, conduttivi ad un’estetica retrò…Spiacevole…Trascurata, assieme alla pelle scurita dal sole o un volto troppo grande e dunque considerato volgare. Il fatto è che un globo più compenetrato nella superficie di una faccia, ovvero protetto da una pelle spessa e un’orbita ossea meno pronunciata, ha bisogno di una palpebra meno estesa. Il che significa, nel momento della sua apertura, che quest’ultima non si ritrova a formare quell’evidente piega sopra la mezza sfera con pupilla innata in noi caucasici, una linea che connota e rende più evidenti certi movimenti delle sopracciglia. Il risultato? Per chi nota simili dettagli, intellettualmente privi di significato, il volto degli asiatici può apparire “bidimensionale” oppure “inespressivo”. E sono sempre di più i giovani, appartenenti ad entrambi i sessi, che si ritrovano a deprecare tale innata caratteristica del loro patrimonio etnico ed ereditario.
A questo punto della trattazione, di norma, si cita a margine di tale problematica il cartone animato ed il fumetto giapponese, che come non tutti sanno ha pure una sua controparte coreana successiva, il manhwa, diversa ma pur sempre dotata di alcuni significativi punti di contatto. Tra cui quello più determinante: la tendenza a disegnare gli occhi dei protagonisti principali come grandi, enormi sfere, totalmente ed oggettivamente sproporzionate rispetto al resto delle loro teste. Osamu Tezuka, il padre dell’animazione giapponese, aveva incluso questa caratteristica nel suo primo grande successo, il robot bambino Astroboy, mutuando dichiaratamente l’influenza dell’americano Walt Disney, che tuttavia, per trarre il massimo vantaggio da un simile ausilio alla caratterizzazione dei suoi personaggi, aveva invece scelto di ricorrere a figure solo vagamente antropomorfe (topi, anatre et similia). Ma la normalità, per purissime ragioni sociologiche, è un valore fluido e soggettivo. Così successe, nel giro di appena un paio di generazioni, che nascesse un intero mondo d’intrattenimento disegnato, in cui l’occhio ingigantito diventava la cosa più naturale del mondo, punto fermo di graziose scolarette, affascinanti donne, ma anche spietati cacciatori di taglie o mostruosi vampiri mutanti. Semplicemente, molti abitanti dell’Estremo Oriente iniziarono a vedersi così. Ciò doveva essere destinato a dare luogo ad una qualche forma d’eccesso, prima o poi…
Ci sono diversi modi per guadagnarsi in modo artificiale la caratteristica estetica della doppia palpebra, considerata tanto desiderabile quanto naturalmente piuttosto rara per gli appartenenti alle principali etnie d’Asia. Ma la più moderna, pratica e diffusa resta l’uso di una particolare colla, concepita per resistere un’intera giornata al sudore ed all’umidità. Ed è una visione alquanto impressionante, questo modo in cui le ragazze applicano la bianca sostanza poco sopra gli occhi, per poi ripiegarvi sopra la pelle tramite l’impiego di un apposito strumento, curvo e biforcuto, che dovrà letteralmente seguire il contorno dei più preziosi organi posti in parallelo. Il risultato è sotto e sopra gli occhi di tutti/e: non soltanto delle palpebre che si avvicinano in modo evidente a quelle degli occidentali, ma tendono a ritrarsi verso l’alto, ingigantendo la parte visibile di retina, iride, cristallino e tutto il resto. Con l’aggiunta del mascara, nonché l’impiego ad arte di speciali lenti a contatto, si può ottenere l’effetto fisicamente più prossimo a quello teorizzato dai più spregiudicati disegnatori della figura umana, tutti coloro che, negli anni, hanno contribuito involontariamente alla creazione del mito iper-oculare. Ho sempre trovato una coincidenza curiosa il fatto che l’intera cultura dell’amore per la donna idealizzata giapponese, sfociata nel recente successo di vere e proprie idol totalmente virtuali, vedi l’onnipresente Hatsune Miku, avesse preso ad essere definita anche su scala internazionale con il termine Moe (萌え – sbocciare) con la sola lettera iniziale di differenza dalla parola che in inglese indica la femmina del tipico ungulato boschivo dalle corna ramificate, Doe. Quasi ad esemplificare ulteriormente, tra tutte le caratteristiche di tali figure, l’estrema espressività e grandezza dei loro occhi (vedi: doe-eyed, equivalente grossomodo alla nostra espressione idiomatica “con occhi di cerbiatto”). Ma in alcuna creazione fantastica del corso principale, da che esiste l’estetica manga e manhwa, è stato mai spiegata questa speciale caratteristica fisica, né sono co-esistiti, nello stesso universo fantastico, personaggi con gli occhi realistici ed altri dalla tipica approssimazione facciale di due fari di automobile, messi in evidenza come tali. Benché esistano serie in cui, per mere scelte estetiche o finalizzate al momento comico ricorrente, figura un singolo personaggio “diverso” con gli occhi piccolissimi o perennemente chiusi (vedi Brock di Pokémon). Raramente costui è il protagonista, e ancor più raramente ha un ruolo tale da esser considerato attraente.
La passione delle culture estremo orientali per l’alterazione estetica del volto ha radici molto profonde nella cultura di quei luoghi. La società asiatica, che lo stereotipo vede come impersonale e strutturata su meccanismi disumanizzanti, trova in realtà la sua espressione nel rapporto tra il pubblico e il privato. Laddove noi europei, soprattutto dall’inizio del secolo della psicanalisi, celebriamo lo sviluppo individuale e la ricerca di una strada verso la realizzazione in qualche maniera già insita nel modo di essere. Per la visione dell’ego che comanda, esistono diversi tipi umani: orecchi musicali, pittori innati… Mentre all’altro lato del globo non è affatto insolito che siano i genitori, oppure gli insegnanti, a instradare un giovane verso determinate forme d’espressione o meriti sportivi. Addirittura un valore ricorrente nell’espressione mediatica finalizzata alla trasmissione di un messaggio, come ad esempio i già citati fumetti o cartoni animati creati a partire dall’influenza giapponese, è l’impegno quotidiano di un protagonista incapace, considerato l’ultima ruota del suo contesto societario – che può essere, a seconda dei casi, una gilda di avventurieri, un’organizzazione militare, oppure perché no, la stessa scuola che devono affrontare quotidianamente i giovani sostenitori degli autori (a volte tutte e tre le cose assieme) – destinato a diventare, nel giro di una manciata di episodi, la figura più importante e capace del suo gruppo, nonché talvolta il salvatore dell’intera umanità. In Asia tutto è possibile, se davvero ci credi, nell’acquisizione di abilità individuali come nella tua bellezza. E non c’è quindi da meravigliarsi, se le giovani coreane o giapponesi sono pronte a incollarsi la pelle sopra gli occhi, rinunciando per giornate intere a chiuderli del tutto soltanto per apparire più attraenti, con probabile indolenzimento e conseguenze a breve termine.
Tanto che negli ultimi anni, alcune scelgono soluzioni più drastiche ed efficaci, vedi la particolare forma di blefaroplastica che consiste nell’impiego del bisturi per fornire, in pianta stabile, e soprattutto a chi può permettersi di pagarlo, il desiderato aspetto somatico della doppia palbebra in stile occidentale. L’industria della chirurgia plastica sud-coreana è un mito che sta nascendo in questi ultimi anni, con una quantità di interventi pro-capite superiore persino a quella del Brasile, benché ancora inferiore in numero complessivo ai dati provenienti dagli Stati Uniti. Tra gli interventi maggiormente richiesti, oltre a quello semplicissimo qui citato e che a volte viene descritto come “Meno doloroso che togliersi un dente!” C’è la ben più complessa riduzione ortognatica, che consiste nel raschiare le ossa della mascella nella ricerca di una perfetta forma a V del viso, motivata dalla ricerca successiva di un amante o di un impiego ben retribuito. L’intervento, che era originariamente riservato alle vittime di incidenti anche piuttosto gravi, è diventato negli anni una procedura di routine, che tuttavia comporta un lungo, nonché spiacevole, periodo di recupero da parte del/della paziente. Per comprendere la serietà della situazione: qualche anno fa fece scandalo l’iniziativa di una delle cliniche del prestigioso quartiere Gangnam di Seul (grazie PSY) che ebbe l’inquietante idea di esporre fuori dal suo ingresso principale due tubi in plexiglass trasparente, con dentro i residui ossei di migliaia di queste operazioni, ciascun pezzetto “firmato” dal chirurgo autore della procedura. Una roba da far impallidire la montagna di teschi di bisonte di Buffalo Bill!
È interessante notare come simili interventi estremi, da parte di chi decide di sottoporsi ai bisturi esperti e ben pagati, non siano affatto visti dalla collettività sud-coreana come un atto di pura e semplice vanità, da biasimare quando troppo evidente, come avviene qui da noi. Non è anzi affatto raro che i genitori o i nonni regalino all’erede beneamata, per il conseguimento del diploma, l’occasione di alterare permanentemente il proprio volto, al fine di adeguarsi ai valori percepiti di prestanza e gradevolezza visuale. Ciò dovrebbe servire, almeno nell’idea collettiva, per il raggiungimento di una migliore posizione nella società.
Vista da lontano, una simile progressione concettuale appare alquanto nebulosa.