C’è una cosa che accomuna il contadino con il ricco mercante, l’artigiano con il principe ed il re. Si tratta di quella funzione biologica che è al tempo stesso primaria per la sopravvivenza, conduttiva alla liberazione, funzionale al flusso del tempo e dell’eterno ciclo di rinnovamento naturale. Come la pioggia che cade debole ma persistente, al termine di una lunga stagione secca che ha prodotto l’evaporazione, così gli esseri viventi, salvo improbabili lunghi digiuni, restituiscono alla terra ciò che avevano sottratto per campare. Ebbene si. Proprio come dicevano i latini: defecatio matutina bona tamquam medicina. E non c’è nessun essere a questo mondo, tranne chiaramente l’uomo, che abbia attribuito a un tale gesto le connotazioni di un momento vergognoso e deprecabile. Forse perchè la stessa vergogna, in quanto tale, è un purissimo costrutto artificiale, ma questa è tutta un’altra storia. Veniamo al punto della problematica corrente: esistono particolari momenti, nel corso della vita di un individuo, in cui l’ego deve necessariamente essere subordinato al ruolo che gli è stato attribuito nella società. Un oratore pubblico, dinnanzi al Senatus in sessione, non poteva fare concessioni ad un sincero mal di gola. L’atleta olimpico, nel mondo classico come in quello attuale, necessariamente dimentica il vecchio dolore alla caviglia, con conseguenze a volte gravi. E dunque come avrebbe mai potuto, una personificazione di grazia e splendore femminile, chiusa in uno spazio piccolo per molti giorni, godersi i benefici della quotidiana medicina mattutina di cui sopra…
È una storia, per certi versi, drammatica. Dalle problematiche ben radicate nella sua cultura. Nella penisola coreana della lunga epoca imperiale Joseon (1392–1895 d.C.) come del resto nella Cina e nel Giappone coévo, le carrozze esistevano, ma erano un lusso concesso unicamente ai ricchi ed ai potenti, nonché piuttosto rare. Un generale inviato verso il fronte di battaglia, ad esempio, poteva recarvisi con un veicolo in legno riccamente decorato nelle insegne del suo signore, un seguito d’armigeri e uno o due cavalli al massimo per fare da motore, ma si trattava di un’affettazione alquanto arcaica e un po’ desueta. Sappiamo che il carro era molto usato al tempo della dinastia Zhou (1046 – 256 a.C.) e che venne mantenuto al centro della società durante tutto il periodo successivo degli stati in guerra, culminante con l’unificazione della Cina sotto l’egida del regno dei Qin. Ma già nel corso della successiva dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) tali implementi passarono gradualmente in secondo piano, al punto che esiste un episodio ancora più tardo in cui il saggio comandante Zhuge Liang riscopre la semplice carriola, concedendo alle sue armate di ricevere rifornimenti dietro a un irto passo di montagna. Questo per esemplificare come, nell’Estremo Oriente, la principale fonte d’energia per i trasporti fosse sempre stata quella dell’umanità popolana che serve i suoi simili più fortunati, tramite l’impiego di portantine, risciò ed altri tipi di sistemi a traino muscolare. Dei quali c’erano infinite variazioni, ma il più nobile restava, per associazione, il possente palanchino coperto, appositamente ingegnerizzato per essere trasportato a braccio da due uomini (piuttosto forzuti) e al tempo stesso virtualmente chiuso agli sguardi della collettività. Poteva succedere addirittura che una giovane donna destinata al matrimonio, caricata al suo interno in circostanze private, vi rimanesse fino al raggiungimento della sua nuova casa, già fornita di provviste e virtualmente sigillata al mondo. Anzi: era un’evenienza piuttosto diffusa, al punto che nella tradizione coreana esiste un particolare tipo di vaso da notte con coperchio, realizzato attraverso l’antico metodo artigianale del jiseung e poi laccato allo scopo di annientarne la pericolosa permeabilità, che poteva nei fatti permetterle di restare totalmente nascosta da ogni possibile sguardo indiscreto, soprattutto durante l’espletamento delle sue faccende più private.
Il palanchino occupato da una donna: un tempio sacro ed inviolabile. Pensate che nel Giappone feudale non era inaudito che un membro di famiglie nobili sfuggisse al suo nemico, durante un assedio o in una situazione con ostaggi, travestendosi e facendosi portare fuori a braccio da due dei suoi fedeli sottoposti. Lo scrittore di romanzi James Clavell attribuisce un simile episodio addirittura alla sua versione fantasiosa del grande signore della guerra, poi shogun, Ieyasu Tokugawa (1543-1616). Invero simili considerazioni su ciò che fosse lecito, persino in tempi di guerra, potevano costituire la scusa ideale per quelle guardie o gli ufficiali di frontiera che, colpiti dall’autorità di un personaggio coévo, non osavano frapporsi tra lui e il suo destino. Ma queste sono storie di altri paesi ed altri tempi. Ritorniamo, in questa storia, a ciò che è davvero, profondamente, solo coreano, il metodo in cui questi preziosi vasi erano realizzati, a partire da un materiale il quale, fra tutti, potrebbe sembrare il meno adatto: questa carta ricavata dalla corteccia del dak (gelso papirifero) attraverso un procedimento estremamente particolare ed esclusivo della penisola di re Sejong il Grande. Il suo nome è hanji (한지) e trova applicazione in numerosi campi, tra cui quello della scrittura è forse il meno affascinante, perché a noi fin troppo noto.
Ecco un filmato che documenta la nascita di un simile straordinario materiale, girato da Aimee Lee presso l’officina di un artigiano della provincia di Gyeongsangnam-do. La studiosa, blogger ed insegnante, che attualmente collabora con la Fondazione Morgan per la Conservazione della Carta (Cleveland, Ohio) è qui riuscita a catturare ciascun passaggio l’intera filiera produttiva, dal momento della raccolta della corteccia fino alla battitura delle fibre, per renderle più resistenti ed omogenee. Quindi, tale slurry (noi dirla chiameremmo più prosaicamente poltiglia) viene immersa in una soluzione alcalina a base di cenere vegetale, che la dissolve temporaneamente per il passo successivo dell’operazione, che colpisce per la sua difficoltà manuale. Perché a questo punto l’artigiano, aggiunta una certa quantità d’acqua, immerge nella grande vasca una tavola di legno senza nessun tipo di cornice o guida, al fine di farla oscillare più volte nell’impasto. Le fibre così agitate, quindi, si depositano naturalmente nella forma di un foglio perfettamente rettangolare, che viene deposto da una parte ad asciugarsi. Sopra questo ne verrà aggiunto un secondo, poi fatto aderire tramite l’impiego di una pressa a vite, affinché il prodotto sia più resistente e privo di un verso evidente nella grana. Questo intero approccio produttivo, il più comune, viene detto We Bal, che significa “singolo”. Nel video segue brevemente la dimostrazione di una tecnica alternativa, dal nome di Ssang Bal, che prevede l’impiego di un diverso tipo di apparato, questa volta fornito di un bordo a rilievo, per facilitare il posizionamento delle fibre. Così nasce il tipico foglio di carta hanji, ma basta osservare brevemente la ricca varietà di prodotti alternativi creati in Corea con la carta per rendersi conto che non sempre la corteccia dell’albero dak veniva ridotta allo stato di un sottile velo, utile a intrappolare l’inchiostro della pittura, dell’arte calligrafica o delle notazioni degli storici e studiosi.
Stiamo parlando nei fatti del jiseung, ovvero la prassi coreana per la tessitura della carta. Come mostrato anche in apertura, le fibre vegetali di questa pianta potevano anche essere filate come la canapa e il cotone, per poi essere intessute tra di loro. Il prodotto risultante, indurito e simile al vimini nell’aspetto, era sempre estremamente solido e capace di mantenere la sua forma, al punto da trovare l’applicazione anche nella costruzione di arredi e nell’arte scultorea di ogni tipo. In Corea esistevano borse, lanterne, ceste, faretre, astucci realizzati in carta di gelso. Inoltre, il materiale veniva usato nella costruzione di un particolare tipo di ornamento a forma di zucca, indossato a scopo decorativo dagli appartenenti di diverse classi sociali. Ma forse l’uso più sorprendente resto questo dei vasi da notte tradizionali, trattati appositamente tramite l’impiego del succo e degli olii della pianta deulkkae o perilla, sostanzialmente l’equivalente asiatico della menta. È probabile che questo facesse molto per nascondere l’odore, ma in fondo chi lo sa? Tali vasi avevano altri vantaggi: erano esteticamente belli, quindi adatti all’uso femminile, nonché silenziosi durante l’uso e il trasporto, qualità fondamentale all’interno di un palanchino. A ulteriore riconferma che gli antichi non avevano meno senso pratico di noi moderni, solo più norme o fisime comportamentali, ulteriormente aggravate da un apporto tecnologico meno sofisticato. Ma pur sempre frutto di un’intelligenza vivida e fattiva. Purissimo concime della società.