L’artista inglese degli tsuba, le protezioni per katana

Tsuba

Imitare non è semplice. Fra tutte le applicazioni dell’arte, soprattutto se in tre dimensioni, non c’è nulla di più impegnativo che porsi a rapporto con l’opera di un maestro, con l’obiettivo dichiarato di produrre un qualche cosa che sia pari ad essa, o per lo meno degno di essergli accostato. Soprattutto poi, se quell’oggetto viene da una tradizione specifica e rigorosamente chiusa ad influenze esterne, come quella in cui s’impegna con profitto Ford Hallam, l’unico scultore europeo ad aver ricevuto prestigiosi riconoscimenti nei cataloghi e nelle riviste di metallurgia tradizionale giapponese. Al punto di trovarsi, tra il Giugno e l’Ottobre del 2009, in una situazione al tempo stesso invidiabile e spaventosa: il dover supplire, con la sua capacità manuale, alla mancanza lungamente lamentata di uno tsuba per la più lunga delle due spade realizzate nel diciannovesimo secolo da un artista della prefettura di Mito, Hagia Katsuhira. Con sopra la più inaspettata delle figure: una cupa e splendida pantera in agguato… Si dice che una volta, il rinomato incisore Katsushika Hokusai avesse dipinto l’immagine di un nume tutelare buddhista nello spazio di un giardino pubblico, in dimensioni tanto estese da permettere a un uomo a cavallo di attraversare la sua bocca o di consumare un pasto nello spazio del suo occhio. Ma se i precetti dello Zen dicono: “Incontra il Buddha per strada, quindi uccidilo” non c’è  tanto da meravigliarsi, nel ritrovare lo splendore del mondo naturale addirittura qui, sopra un elemento costruito a margine del conflitto tra gli umani.
Nel nostro medioevo, l’elemento preferito per condurre lo stemma di una famiglia nobiliare fin dentro al campo di battaglia era senz’alcun dubbio lo scudo. Per ragioni pratiche, le dimensioni, la forma, la varietà di materiali e lavorazioni utilizzabili, oltre che simboliche, connesse al concetto del sangue degli antenati che rinasce in forma inanimata, con lo scopo di deviare i colpi del nemico. Ma come affrontava la stessa questione un samurai, guerriero del Giappone feudale resistito, senza alcuna profonda variazione concettuale, per oltre mille anni di confronti tra i daimyō del clan e i loro servitori in armi? L’individuo che, nato nella remota epoca Nara (710-784) come guerriero armato d’arco, lancia, falcione e/o grande mazza in legno (kanabo) ebbe ad evolversi, attraverso il successivo periodo della capitale spostata a Kamakura, nel prototipo del perfetto spadaccino, dedito all’ineccepibile impiego di quelle che erano e sempre rimasero elaborazioni di pesanti sciabola da cavalleria. La nihonto (spada giapponese) ha molte forme: può essere soltanto lievemente curva e portata con la lama verso il basso (tachi) oppure più corta e gibbosa (katana) o ancora la versione per così dire portatile della stessa cosa (wakizashi) queste ultime due spade, tradizionalmente, agganciate assieme alla cintura dei guerrieri per l’intera epoca classica e fin quasi alla modernità. Poi ci sono le esagerazioni, come la spaventevole nodachi a due mani, fino ad un 1,8 metri di metallo attentamente ribattuto, comparabile per imponenza a una zweihander del Sacro Romano Impero. Ma per tutte queste innovazioni tecniche, le prime e più significative espressioni guerresche di un Giappone non più legato alla Cina, bensì piuttosto in netta contrapposizione culturale con l’intero continente asiatico, qui non si ebbe mai occasione di scendere in campo con gli stemmi stretti saldamente in una mano, in mezzo a una costellazione di piastre metalliche ben rivettate. Non è difficile trovare un collegamento tra la cultura marziale di questo paese e la completa mancanza di scudi, per lo meno nella tradizione celebrata dagli storici e poeti coévi: il samurai ideale dovrebbe essere un devoto seguace, in egual misura, del suo signore e del principio della morte in quanto in tale. La sua eventuale sconfitta, in mezzo frecce volanti e strali di metallo, altro non sarebbe che l’ottima occasione per raggiungere l’Empireo dei defunti, come dio postumo della guerra (Aragami). Quindi perché proteggersi? A che scopo ritrarsi dietro un pezzo di legno o metallo, come usavano fare i “deprecabili barbari” del sud? E la realtà potrebbe includere, in qualche misura, tale linea di pensiero. Però va anche considerato come la tecnica necessaria per usare efficacemente nel contempo spada e scudo non sia affatto naturale, e richieda una destrezza niente affatto trascurabile da parte del guerriero. Vederla usata, a tutti i livelli e gli strati della guerra occidentale, non prova assolutamente nulla: nella guerra, come nella scienza, c’è sempre un qualcuno che scoprendo un metodo, configura i limiti dell’altrui possibilismo. Mentre più semplice, nonché naturale, diventa affidarsi a una guardia in rame dal diametro di 5, 8 cm o poco di meno, del tutto sufficiente per difendersi in determinate condizioni. E per la questione esteriore…Ecco, qualcosa si può fare. Qualcosa che.

Il documentario in due parti Utsushi – in search of Katsuhira’s tiger (2010) di Ford Hallam, ampiamente usato per promuovere il suo lavoro sul sito personale e il canale di YouTube, è un racconto appassionante della quantità di impegno, esperienza ed abilità che possono essere concentrati in un oggetto dalle dimensioni così relativamente ridotte, ma un profondo significato culturale. Si comincia, come da prassi di quel concetto che compare anche nel titolo del video (Utsushi significa “trarre ispirazione”) con la presa di coscienza del modello. Lo tsuba superstite di Hagia Katsuhira, fiduciosamente fornito dal committente, raffigura un felino in agguato tra le foglie di bambù, con la coda ritorta e serpeggiante, quasi scimmiesca. L’animale, accuratamente brunito tramite l’impiego di ossidi di rame, guarda verso l’alto e si lecca la zampa anteriore destra, con un’espressione e una vivacità che sarebbero notevoli persino in un dipinto. E figuriamoci così realizzati, attraverso il battito cadenzato di due dozzine di scalpelli…Ma è ormai tardi per l’esitazione. Ben presto, l’artista moderno inizia a preparare la sua miscela di metalli: la consuetudine dell’epoca del pezzo originario presumerebbe l’uso di una fusione composta per l’80% di rame e il rimanente 20 d’argento, ma Hallam nota subito che la colorazione qui è decisamente differente dal normale. Così getta coraggiosamente, nel suo calderone, anche un piccolo apporto d’oro e piombo, prima di scaldarlo nella forgia e ottenere, attraverso un processo vecchio di millenni, la precipitazione della sostanza metallica sul fondo, nella forma veicolata dal vapore di un dischetto convesso ai margini, pronto per la lucidatura. Che effettuerà, dapprima, con semplici lime, quindi tramite l’apposizione di una particolare pietra, da lui chiamata “Water of Ayr” e che dovrebbe provenire “Da una sola miniera scozzese in tutto il mondo.” Il risultato, già magnifico, si configura come uno specchio grossomodo circolare, tanto riflettente da indurre l’artista a citare quello interiore del Buddha e dei filosofi successivi dediti allo studio dei sutra, che andrebbe quotidianamente migliorato fino al raggiungimento del satori (l’illuminazione). A questo punto, inizia il difficile, ovvero è tempo di impugnare gli scalpelli. Per un artista metallurgico occidentale, ci racconta Hallam, l’impatto più straniante con la tecnica giapponese è l’estrema quantità e varietà di questi ultimi, che gli standard produttivi vogliono manovrati alla maniera e con i risultati di un pennello. Non che un tale ostacolo sia riuscito a scoraggiarlo, nossignore.

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Utsushi – in search of Katsuhira’s tiger – Parte 2

La fase in cui l’artista realizza la tigre e le foglie circostanti si divide in fasi. Nella prima, lui comincia un abbozzo degli spazi vuoti e pieni, tagliando via con un seghetto il metallo in eccesso. Quindi inizia il primo accenno delle forme, ricavando un alloggiamento in corrispondenza della testa della figura principale. Soltanto successivamente, dopo una preparazione del materiale che non viene mostrata, incastrerà in tale castone un piccolo blocco dello stesso materiale del pezzo di forma approssimativamente triangolare, dal quale ricavare il volto dell’animale. Completato questo delicato compito, viene il bello: Hallam ha infatti deciso di andare fino in fondo, e per rendere il pelo della pantera non soltanto graffierà via, con estrema delicatezza, oltre un migliaio di precisi solchi nel metallo, ma addirittura inserirà ad intarsio ciascuna singola linea della sua livrea a strisce. Ciò significa che decine e decine di strisce di un altro colore saranno martellate delicatamente in posizione, creando un effetto traslucido bitonale, osservabile soltanto in determinate condizioni di luce. La difficoltà tecnica di una tale impresa, in connotazione con la relativa difficoltà di apprezzarla, non fanno che aggiungere ai meriti produttivi dell’artista. Determinati elementi quindi, vedi le foglie e gli occhi del felino, verranno quindi effettuati ad intarsio con lo stesso approccio, ma in oro puro, straordinariamente giallo e contrastante. Tocco finale della parte scultorea, indubbiamente il più delicato, è l’incisione della firma dell’autore sul retro dello tsuba (naturalmente, seguendo fino a fondo la strada dell’utsushi, quest’ultima reciterà Hagia Katsuhira). Una serie di caratteri calligrafici per i quali non è ammesso alcun tipo di errore, pena una macchia irrimediabile sui meriti dell’intera opera realizzata. Attentamente, delicatamente, lui riesce anche in questa sfida. Come tocco finale, il disco metallico viene immerso in una soluzione di verdigris, l’ossido di rame, per brunirlo alla maniera del suo compagno fornito come modello.
Completato questo ultimo passaggio, i due tsuba vengono disposti l’uno accanto all’altro: l’accoppiamento è perfetto. La pantera tigrata di Hallam, con un atteggiamento più compunto, guarda nella direzione opposta della sua compagna, mentre la zampa è usata con lo scopo di appoggiarsi sulla cornice metallica in canne di bambù. Osservando le due opere senza aver visto il video, molti sarebbero pronti a giurare che siano state realizzate dalle stesse mani. E lecito, tuttavia, porsi l’ombra di uno strano dubbio a posteriori: non è possibile che la katana originaria di Katsuhira avesse sull’impugnatura, per dire, un drago?

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Questo secondo video, più breve e privo di commento tecnico, mostra il processo costruttivo di uno tsuba decisamente più semplice, con due spighe o infiorescenze in campo nero. Nonostante la mancanza di particolari effetti speciali, a composizione è tale da creare un senso estremo d’eleganza.

Artisti come questi, che mettono le loro capacità al servizio di chiunque sia in grado di comprenderle e pagarle adeguatamente, sono una grande fortuna dell’Internet dei nostri giorni. In un mondo in cui è possibile pubblicare contenuti video o visuali per la collettività, sequenze come queste si trasformano in notevoli occasioni d’imparare cose nuove, avvicinarsi a mondi che altrimenti non conosceremmo mai. Un’opera più convenzionale di Hallam, quindi pur sempre meno impegnativa della tigre di Katsuhira, che gli ha richiesto quattro mesi d’impegno, viene prezzata tra i 1200 ed i 6000 dollari. Componenti più piccoli della spada, come una coppia concordata di fuchi (anello dell’impugnatura) e kashira (pomello, chiusura finale) partono dai 700 dollari, una cifra relativamente abbordabile nel campo delle opere d’arte di una simile complessità produttiva.
Tra i nuovi progetti dell’artista, vanno senz’altro citate quelle che lui definisce, con un termine di probabile derivazione musicale, le sue “fughe” ovvero delle sculture naturalistiche in metallo, in cui un involucro di rame viene impiegato per restituire l’impressione di un ciottolo di fiume, con sopra insetti o altri piccoli animali. Sul suo blog è presente un articolo estremamente esaustivo ed interessante con le considerazioni a margine della libellula della serie, già venduta, ad un prezzo certamente rilevante, in un qualche momento indefinito del recente passato. Del resto ventisei anni d’esperienza, costruita a partire da un breve ma significativo apprendistato con uno dei maggiori artigiani viventi giapponesi, quell’Izumi Koshiro Sensei che lui cita nella biografia e spesso torna a visitare in Giappone, hanno un innegabile valore, nel regno del sensibile, come in quello più prosaicamente pecuniario. Nella katana, come per un’automobile di lusso, non si può lesinare sulle rifiniture. Chi risparmia sullo tsuba, prima o poi si pentirà.

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